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Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 20 novembre)
Lo scorso ottobre la Hind Rajab Foundation ha denunciato alla Corte penale internazionale (Cpi) 1.000 soldati israeliani per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio a Gaza. Oltre 8.000 prove verificabili, tra cui video, registrazioni audio, relazioni forensi e documentazione sui social media dimostrano il coinvolgimento diretto dei soldati identificati in quelle atrocità. Le violazioni del diritto internazionale sono sotto gli occhi di tutti da più di un anno, eppure nei media statunitensi (e di conserva nei nostri) il racconto su Gaza è costantemente sbilanciato in favore di Israele. L’anomalia è bipartisan: giornali, settimanali e tv liberal (New York Times, Cnn, Nbc) non differiscono dalla reazionaria Fox News nel sostegno incondizionato ai crimini di guerra di Netanyahu. Il pesce puzza dalla testa: in un promemoria sfuggito alle maglie della censura interna, la dirigenza del New York Times ordina esplicitamente ai suoi giornalisti di non usare parole come “genocidio”, “massacro” e “pulizia etnica” quando scrivono delle azioni di Israele. Devono anche evitare parole come “campo profughi”, “territorio occupato” o persino “Palestina” (t.ly/anUkh). Alla Cnn le cose non vanno meglio: un promemoria ordina a tutti i giornalisti di presentare Hamas (e non Israele) come responsabile della violenza; di specificare sempre “controllato da Hamas” quando scrivono del Ministero della Salute di Gaza e delle cifre delle vittime civili; e di non riferire mai il punto di vista di Hamas. NYT e Cnn hanno licenziato giornalisti che criticavano le azioni israeliane: Jazmine Hughes fu costretta a dimettersi dal NYT dopo aver firmato un appello contro il genocidio in Palestina. E il conduttore della Cnn Marc Lamont Hill fu licenziato dopo aver chiesto la liberazione della Palestina in un discorso alle Nazioni Unite. Come mai, nei democratici Stati Uniti d’America, la libertà d’espressione viene conculcata, quando si tratta di Gaza? Per lo stesso motivo per cui gli Usa danno 5 miliardi di dollari ogni anno a Israele, spiega il giornalista d’inchiesta Alan MacLeod (MintPress, Guardian, Jacobin, Grayzone): “Israele svolge una funzione molto importante per l’impero statunitense: in pratica è un 51° Stato, un avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente. Serve a controllare l’area più importante al mondo dal punto di vista strategico ed economico. In Medio Oriente c’è il petrolio, cardine dell’economia moderna: chiunque controlli quel petrolio ha un potere enorme sulla società globale.” Una delle conseguenze, scoperta da MacLeod, è che negli Usa i media mainstream, ma anche i giornali locali e i social media, non trovano nulla di strano ad assumere come giornalisti, anche in ruoli apicali, ex spie ed ex lobbisti israeliani (t.ly/z7beI, t.ly/fo1DB). La sua accusa è pesante: questo network di propagandisti israeliani (sono centinaia) scrive le notizie dei media statunitensi sull’offensiva israeliana in Palestina, Libano, Yemen, Iran e Siria. Manipolano l’opinione pubblica: cancellano i crimini di Israele e creano consenso al coinvolgimento Usa nel genocidio in corso. Le ex spie arrivano dall’Unità 8200, la divisione militare israeliana che si occupa di spionaggio, sorveglianza, guerra informatica e operazioni coperte. All’Unità 8200 viene attribuita per esempio l’esplosione dei 3000 cercapersone in Libano (9 morti, fra cui una bambina, e migliaia di feriti fra i civili). Un atto definito terroristico dall’ex direttore Cia Leon Panetta; ma “un successo” secondo il giornalista Barak Ravid. Ad aprile Ravid ha ricevuto da Biden il White House Press Correspondents’ Award, uno dei premi giornalistici più prestigiosi negli Stati Uniti.Piccolo particolare: Ravid è stato un’analista dell’Unità 8200, e fino all’anno scorso era un riservista Idf. (1. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 21 novembre)
Riassunto della puntata precedente: il giornalista Alan MacLeod ha scoperto che le notizie dei media statunitensi sull’offensiva israeliana in Palestina, Libano, Yemen, Iran e Siria sono in mano a un network di ex spie ed ex lobbisti israeliani che militano nelle redazioni Usa più influenti. Le ex spie arrivano dall’Unità 8200, la divisione militare israeliana che si occupa di spionaggio, sorveglianza, guerra informatica e operazioni coperte. Barak Ravid, che ad aprile ha ricevuto da Biden il White House Press Correspondents’ Award, uno dei premi giornalistici più prestigiosi negli Stati Uniti, è un ex analista dell’Unità 8200. I suoi articoli, pubblicati dal website Axios, raccontano sempre di fantomatici contrasti fra Biden e Netanyahu: “Ultimatum di Biden a Netanyahu: se Israele non cambia rotta a Gaza, ‘non saremo in grado di sostenervi'”; “Lo scontro Biden-Bibi si intensifica mentre gli Stati Uniti vengono accusati di indebolire il governo israeliano”; “Biden ha detto a Bibi che gli Stati Uniti non sosterranno un contrattacco israeliano all’Iran”. Gli Usa sono uno dei giocatori in campo (l’amministrazione Biden appoggia i crimini di Israele inviandogli decine di miliardi di dollari in armamenti e bloccando le risoluzioni Onu favorevoli alla Palestina), ma coi suoi articoli Ravid accredita il presidente Usa come onesto intermediario nella questione mediorientale. Ravid non nasconde l’entusiasmo per Netanyahu, arrivando a scrivere che gli attacchi israeliani contro Hezbollah “non hanno lo scopo di portare alla guerra, ma sono un tentativo di raggiungere la de-escalation attraverso l’escalation” (!). Propaganda smaccata, presa di mira dalla satira in rete (“Esclusiva Axios: dopo aver venduto a Netanyahu armamenti per miliardi di dollari, Biden mette su a tutto volume ‘Bad Blood’ di Taylor Swift”), ma c’è poco da ridere. Nel 2014, 43 riservisti dell’Unità 8200 firmarono una dichiarazione: non erano più disposti a prestare servizio nell’Unità a causa delle sue pratiche immorali, che includevano la mancata distinzione tra cittadini palestinesi e terroristi. Ravid li attaccò con un intervento alla radio dell’esercito israeliano: “Opporsi all’occupazione della Palestina significa opporsi a Israele stesso”. MacLeod definisce Ravid “uno stenografo del potere”. E ne elenca altri, tutti ex spie israeliane, domandandosi: “Quale sarebbe la reazione se personaggi di spicco dei media statunitensi venissero smascherati come agenti di Hezbollah, di Hamas o dell’FSB russo?” Sachar Peled era all’Unità 8200, e ha fatto pure l’analista per lo Shin Bet, i servizi segreti israeliani. Alla Cnn lavorava con Christiane Amanpour. Adesso è Senior Media Specialist a Google. Tal Endrich, altra ex Unità 8200,era al Jerusalem Bureau della Cnn, notoriamente pro Israele. Oggi è la portavoce ufficiale di Netanyahu. Tamar Michaelis, che oggi alla Cnn produce buona parte dei contenuti su Israele e Palestina, era la portavoce ufficiale dell’esercito israeliano. Ami Kaufman, fra gli autori di “Amanpour”, era nell’esercito israeliano e nella Cia. Anat Schwarz,ex agente dell’intelligence aeronautica israeliana, scrisse sul New York Times “Scream Without Words”, il famigerato articolo sugli stupri di massa di Hamas che fece il giro del mondo: una balla talmente inconsistente che i giornalisti del Nyt ne presero le distanze. Numerosi anche i giornalisti Usa che, come l’editorialista del Nyt David Brooks, hanno o hanno avuto avuto figli nell’Idf: ma, quando scrivono su Israele, i loro giornali non ne sottolineano mai il conflitto di interessi. Jeffrey Goldberg,capo-redattore a The Atlantic, da volontario Idf aiutò a coprire gli abusi sui prigionieri palestinesi durante la prima Intifada. MacLeod: “Fino a che punto questi giornalisti possono essere imparziali sui fatti di Gaza?” (2. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 22 novembre)
Riassunto delle puntate precedenti: il giornalista Alan MacLeod ha scoperto che le notizie dei media statunitensi sull’offensiva israeliana in Palestina, Libano, Yemen, Iran e Siria sono in mano a un network di ex spie ed ex lobbisti israeliani che militano nelle redazioni Usa più influenti. Manipolano l’opinione pubblica: cancellano i crimini di Israele e creano consenso al coinvolgimento Usa nel genocidio in corso. MacLeod: “Poiché Israele non potrebbe continuare le sue guerre senza l’aiuto americano, la battaglia propagandistica è importante quanto le azioni sul campo. Molti dei principali giornalisti che ci forniscono notizie su Israele/Palestina sono letteralmente ex agenti dell’intelligence israeliana.” Le ex spie arrivano dall’Unità 8200, la divisione militare israeliana che si occupa di spionaggio, sorveglianza, guerra informatica e operazioni coperte. Vale anche per il web: sono centinaia quelle assunte da Meta, Google, Microsoft, Amazon e TikTok. Ne è un esempio Emi Palmor, ex Unità 8200: oggi è nel Consiglio di vigilanza di Meta, il comitato che decide quali contenuti consentire e quali sopprimere sui social di Zuckerberg (Meta è accusata da Human Rights Watch di cancellare sistematicamente le voci palestinesi sulle sue piattaforme: oltre 1.000 casi di palese censura anti-palestinese solo nell’ottobre e nel novembre 2023). Un altro esempio di ex Unità 8200 a Meta è Asaf Hochman, già capo delle strategie commerciali globali di TikTok. Oltre alle ex spie, i media Usa sono una sentina di ex lobbisti israeliani. Cominciamo dalla Nbc. Ci troviamo Kayla Steinberg,che scriveva di essere “orgogliosamente pro Israele” quando lavorava all’Aipac (American Israel Public Affairs Committee), la lobby israeliana più potente negli Stati Uniti. Aipac nell’ultimo ciclo elettorale ha distribuito 100 milioni di dollari a 362 candidati sionisti: tutti eletti. E ha speso 30 milioni di dollari per battere alle primarie Jamal Bowman e Cory Bush, critici di Israele. La reporter Nbc Gili Malinsky era un’ufficiale Idf al dipartimento Relazioni pubbliche. Si occupò anche del marketing della Fidf (Friends of the Israeli Defense Forces), un gruppo statunitense che raccoglie fondi per l’Idf. Noga Even diventò manager alla Nbc dopo aver lavorato all’ambasciata israeliana negli Stati Uniti. Benji Stawsky viene dal Tamid,un gruppo che mette in contatto studenti universitari con aziende israeliane; dalla Cnn approdò alla Nbc. Il vicepresidente di NbcUniversal, Danny Bittner, era direttore regionale della Bbyo (B’nai B’rith Youth Organization), il cui motto è: “Dalla parte di Israele e del suo diritto a difendersi”. Brandon Glantz, dirigente di NbcUniversal, lavorava per la Hillel International, la più grande organizzazione universitaria ebraica. Altre lobbiste pro Israele alla Nbc: Yelena Kutikova (lavorò 3 anni alla Uja-Ny, un gruppo che raccoglie fondi per costruire insediamenti ebraici illegali in Palestina; documenti interni Uja consigliavano di diffondere la falsa notizia degli stupri di Hamas per contrastare le critiche ai massacri israeliani a Gaza); Samantha Subin:giornalista finanziaria, collaborò con il Washington Institute for Near East Policy (Winep, una costola dell’Aipac), poi col Tamid; Alana Heller (Aipac); Sara Bernstein (Hillel); Sarah Poss: era alla Anti-Defamation League (Adl), un’organizzazione che si spaccia per antirazzista, ma usa l’accusa di antisemitismo per proteggere Israele dalle critiche (per esempio etichetta come antisemite le marce pro-Palestina). Moshe Arenstein, dirigente MsNbc, era un ufficiale dell’intelligence Idf. Sorpresa sorpresa: dopo il 7 ottobre, MsNbc sospese senza spiegazioni gli unici 3 conduttori musulmani, Ayman Mohieddine, Ali Velshi e Mehdi Hasan. (3. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (sabato 23 novembre)
Riassunto delle puntate precedenti: il giornalista Alan MacLeod ha scoperto che le notizie dei media statunitensi sull’offensiva israeliana in Palestina, Libano, Yemen, Iran e Siria sono in mano a un network di ex spie ed ex lobbisti israeliani che militano nelle redazioni Usa più influenti (ne ha scovati dozzine anche nelle redazioni dei giornali locali). Manipolano l’opinione pubblica: cancellano i crimini di Israele e creano consenso al coinvolgimento Usa nel genocidio in corso. L’anomalia è bipartisan: giornali, settimanali e tv liberal (New York Times, Cnn, Nbc) non differiscono dalla reazionaria Fox News nel sostegno incondizionato ai crimini di guerra di Netanyahu. Fra gli ex lobbisti israeliani di Fox News c’è Rachel Wolf. Era nel Committee for Accuracy in Middle East Reporting (Camera), un gruppo di attivisti sionisti. Ha lavorato all’ambasciata israeliana a Washington, e ha fatto la speechwriter per la Missione permanente di Israele all’Onu, dove era assistente di Netanyahu. Si è poi trasferita in Israele: era la portavoce dell’esercito (comunicati stampa, campagne sui social). Oggi è la homepage e social media editor di Fox News. Olivia Johnson era direttrice del Jewish Institute for National Security Affairs (Jinsa). Un recente rapporto del Jinsa chiede agli Usa di sostenere Israele in una guerra contro l’Iran. Dopo il Jinsa, la Johnson ha lavorato a Cbs News e ora è a Fox News. Sarah Schornstein (Aipac, Hillel, Jinsa, Camera). “Per Camera monitoravo qualsiasi attività antisemita/antisionista nel mio campus”, ha scritto. MacLeod: “Dunque per lei antisemita e antisionista sono la stessa cosa.” Nel 2021 era alla Missione permanente di Israele presso le Nazioni Unite, dove controllava che le Ong invitate non “avessero un impatto dannoso sugli interessi israeliani”. Nicole Cooper: ex Aipac, è l’assistente del presidente di Fox News. Molti anche gli ex lobbisti israeliani alla Cnn, un tempo uno dei network giornalistici più prestigiosi. Per esempio Jenny Friedlander. Era all’American Jewish Committee (Ajc), un’organizzazione che combatte il movimento “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” (una campagna globale contro l’occupazione israeliana). Di recente, l’Ajc ha pubblicato l’articolo “Cinque motivi per cui gli eventi a Gaza non sono un genocidio”. Hannah Rabinowitz viene invece dall’Anti Defamation League. MacLeod: “I palestinesi si sono accorti che i servizi della Cnn su Gaza erano parziali e fuorvianti: l’anno scorso una diretta della Cnn da Ramallah è stata interrotta da dimostranti infuriati che urlavano ‘Fanculo la Cnn! Sostenete il genocidio! Qui non siete i benvenuti!'” L’articolo di MacLeod si conclude con una rassegna di alcuni ex lobbisti in forza al New York Times. Dalit Shalom era alla Jewish Agency for Israel, che fa parte della World Zionist Organization. Sofia Poznansky lavora a stretto contatto con gruppi di pressione come StandWithUs, Adl e Hillel. Rania Raskin lavorava per il Tivkah Fund, un’organizzazione che promuove il sionismo tra i giovani ebrei americani. Raskin è l’assistente dell’editorialista Bret Stephens, che per il Nyt ha scritto articoli intitolati “L’accusa di genocidio contro Israele è un’oscenità morale”, “Hezbollah è un problema di tutti”, “Abolire l’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi” e “Hamas è colpevole di ogni morte in questa guerra”. Altri ex lobbisti sionisti in media importanti: Beatrice Peterson, ex Aipac, e Oren Oppenheim, ex Hillel, lavorano a Abc News; Erica Scott, ex Adl, e Betsy Shuller, ex Hillel, a Cbs News. Al Washington Post c’è Lisa Jacobsen: era direttrice dell’American Israeli Cooperative Enterprise, un gruppo che sponsorizza politiche Usa pro-Israele. Con la condanna di Netanyahu, i propagandisti sionisti diventano correi. Anche quelli italiani. I nomi li sapete. (4. Fine)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 19 novembre)
Chi non fa, non falla, dice il proverbio. Anche nei giornaloni sono frequenti gli errori, specie se fanno propaganda Usa/Nato/Israele. Comunque basta correggersi, e amici come prima.
CORREZIONE. Venerdì scorso abbiamo scritto che Netanyahu fu avvisato dell’attacco terroristico di Hamas alle 6.29, mentre in Israele suonavano gli allarmi per i primi razzi Qassam sparati dalla Striscia. E che alle 6.40 fu richiamato perché lo Shin Bet aveva notato una quantità insolita di sim attivate al confine, come se un gruppo numeroso di gazawi stesse per spostarsi in Israele (le sim di Gaza non funzionano in Israele). Abbiamo anche ricordato che Netanyahu negava di aver ricevuto alert di sicurezza prima del massacro, e che si oppose all’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle falle della sicurezza. In effetti non abbiamo dato la notizia più rilevante: l’informazione sulle sim attivate in massa fu data dallo Shin Bet alle 2.58. L’allerta fu inviato al quartier generale del Consiglio di sicurezza nazionale (che deve riferirne a Netanyahu) e alla polizia; Ronen Bar, il capo dell’agenzia, inviò un team in ricognizione a Gaza (t.ly/lg7Kx). Se Netanyahu ha mentito, la “falla della sicurezza” assume il connotato atroce di una Pearl Harbor lasciata accadere, in modo da avere il pretesto per procedere alla pulizia etnica in corso. Nella speranza che le inchieste possano smentire questa ipotesi agghiacciante, ci scusiamo per ogni confusione causata dal nostro errore.
CORREZIONE. Nei nostri articoli sull’invasione israeliana di Gaza abbiamo sempre evitato di descriverla come genocidio. In effetti dovremo farlo, checché ne dica Edith Bruck (“I genocidi sono altri”). Amos Goldberg, professore di Studi sul genocidio alla Hebrew University di Gerusalemme, la settimana scorsa ha dichiarato: “Sì, è genocidio. È difficile e doloroso ammetterlo, ma non possiamo più evitare questa conclusione. D’ora in poi la storia ebraica ne sarà macchiata per sempre.” Anche se il Papa, forse per motivi diplomatici, nega ancora l’evidenza (“Si indaghi se a Gaza è genocidio”), ci scusiamo per ogni confusione causata dal nostro errore.
CORREZIONE. Nel 2022 scrivemmo che Hagar Gefen, 70 anni, fu picchiata con pietre e bastoni dai coloni israeliani perché aveva fotografato le loro aggressioni agli olivicoltori palestinesi in Cisgiordania. Ricoverata in ospedale con costole rotte, un polmone perforato, un braccio rotto e una ferita alla testa che richiese punti di sutura, nessuno dei colpevoli fu arrestato (t.ly/FbRUy, t.ly/Hryqg). In effetti avremmo dovuto precisare che Hagar Gefen è un’ebrea israeliana che si batte contro i soprusi dei coloni israeliani, e riportare il commento di sua cognata: “Se fanno questo agli ebrei, cosa fanno agli arabi?” (t.ly/nHSRl). Ci scusiamo per ogni confusione causata dal nostro errore.
CORREZIONE. Ieri abbiamo scritto che l’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha definito “diritto all’autodifesa” l’attacco di Hamas (1200 morti) e “massacro genocida” l’invasione israeliana di Gaza (47000 morti). In effetti l’ambasciata israeliana presso la Santa sede ha fatto il contrario: ha definito massacro genocida quello di Hamas (1200 morti) e diritto all’autodifesa quello di Israele (47000 morti). Ci scusiamo per ogni confusione causata dal nostro errore.
CORREZIONE. Ieri abbiamo titolato: “Israele stremato dalla guerra”. In effetti avremmo dovuto titolare: “Gaza stremata dai bombardamenti israeliani su civili inermi.” Ci scusiamo per ogni confusione causata dal nostro errore.
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 18 giugno 2025)
Su MintPress il giornalista investigativo Alan McLeod si occupa da anni dei propagandisti israeliani che nei media e nei social manipolano l’opinione pubblica occidentale per osteggiare il dissenso informato. Grazie a lui sappiamo che ex spie israeliane lavorano in posizioni apicali a Microsoft, Google, Meta e Amazon; anche TikTok, tanto temuta dagli Usa come app di spionaggio cinese, ha assunto ex spie israeliane per gestire le proprie attività. Ex 007 israeliani scrivono pure su importanti testate giornalistiche statunitensi, tra cui CNN, Axios e New York Times. E ricordate le proteste universitarie dell’anno scorso contro i crimini israeliani a Gaza? Cominciarono alla Columbia. L’organizzatore, Mahmoud Khalil, neolaureato alla School of International and Public Affairs (SIPA), a marzo è stato arrestato e deportato in Louisiana dall_’Immigration Customs Enforcement_ (ICE). Alec Karakatsanis, un avvocato che si occupa di diritti civili, afferma: “Non ho mai visto una violazione più palese del Primo Emendamento. Il governo non sostiene che abbia commesso un crimine, solo che ha espresso opinioni su Israele che non piacciono al governo. Da brividi.” Strombazzando l’episodio su X, Trump ha definito Khalil “uno studente radicale pro-Hamas”. La notizia è che la preside della SIPA, Keren Yarhi-Milo, è una ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana. MacLeod: “Benché Khalil fosse uno studente della sua facoltà, la preside non ha detto nulla contro l’arresto di Khalil, come le veniva chiesto dai manifestanti. Anzi: invitò all’università Naftali Bennet, ex Primo ministro di Israele. “Voglio cambiare il pregiudizio anti-israeliano” affermò quando fu eletta preside (t.ly/81KoY). Yahri-Milo definisce anti-semitismo le proteste universitarie: “L’anti-semitismo è un problema reale e preoccupante, ed è molto importante non lasciarlo diffondere. Stiamo cercando di trovare il maggior numero possibile di modi creativi per affrontare questo fenomeno”. Fra i modi creativi, chiamare la polizia. Scrive Jennifer Scarlott, laureata alla SIPA: “Sappiamo quale fu il suo ruolo quando venne chiamata la polizia di New York contro gli studenti pacifici dell’Accampamento di Solidarietà con Gaza, la scorsa primavera. Ha pure invitato Naftali Bennett, che pochi giorni fa ha scherzato sull’idea di distribuire cercapersone esplosivi agli studenti anti-genocidio ad Harvard” (t.ly/JBOSb). MacLeod: “Yarhi-Milo ha avuto un ruolo significativo nel fomentare la preoccupazione dell’opinione pubblica riguardo a una presunta ondata di anti-semitismo che stava travolgendo i campus, gettando così le basi per la massiccia repressione delle libertà civili seguita alle proteste”. 3000 gli arrestati, fra cui parecchi docenti: nessuno sgomento della preside in proposito. MacLeod aggiunge oggi una nuova tessera al grande mosaico dell’Hasbara: Google acquisterà Wiz, una società israelo-americana di sicurezza cloud, rafforzando i legami di Google con l’esercito israeliano (Google, Amazon, Microsoft, IBM e Palantir forniscono i sistemi informatici, di sorveglianza e di comunicazione per il genocidio a Gaza e l’apartheid in Cisgiordania). I fondatori di Wiz sono ex ufficiali dell’Unità 8200, la divisione militare israeliana che si occupa di spionaggio, guerra informatica e operazioni coperte. MacLeod: “Comprensibili i timori per la sicurezza dei dati degli utenti, specie di chi critica le azioni di Israele”. Wiz ha una cinquantina di dipendenti ex Unità 8200; a Google ce ne sono almeno un centinaio. L’investimento di Google è enorme: 32 miliardi di dollari, pari allo 0,6% del Pil israeliano. Secondo i media israeliani, permetterà al governo di evitare tagli alla spesa, ridurre il deficit e continuare lo sforzo bellico. Sacrosanta la campagna Bds contro Google e le altre Big Tech (t.ly/54xQ5).
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 19 giugno)
Ieri dicevamo dell’arresto e della deportazione di Mahmoud Khalil, lo studente della School of International and Public Affairs che l’anno scorso aveva organizzato alla Columbia University le manifestazioni studentesche contro i crimini di Israele. Oggi parliamo di Betar US, il gruppo sionista di estrema destra che ha rivendicato il merito di quell’arresto. Betar US collabora con l’amministrazione Trump filmando e schedando, con tecnologie di riconoscimento facciale e banche dati, i cittadini non statunitensi che partecipano alle manifestazioni pro-Palestina o alle veglie per le vittime di Gaza. Li denunciano all’Immigrazione, come se non esistesse il Primo Emendamento (libertà di religione, parola, stampa, riunione pacifica), accusandoli di terrorismo e di anti-semitismo (t.ly/3WIuL). Ross Glick, ex direttore di Betar US, puntava su Trump presidente, e Trump gli ha dato soddisfazione firmando un ordine esecutivo (“Ulteriori misure per combattere l’anti-semitismo”) che mira alla “rimozione degli stranieri residenti che violano le nostre leggi”, a “soffocare il vandalismo e l’intimidazione pro-Hamas” e a “indagare e punire il razzismo anti-ebraico nelle università e nei college di sinistra, anti-americani”. Trump scrisse su Truth che l’arresto di Khalil era “il primo di molti”: “Sappiamo che ci sono altri studenti alla Columbia e in altre università del Paese che hanno partecipato ad attività pro-terrorismo, anti-semite e anti-americane, e l’amministrazione Trump non lo tollererà”. Maccartismo 2025. Betar US si auto-definisce un movimento “rumoroso, orgoglioso, aggressivo e apertamente sionista” che si propone di “agire dove altri non lo fanno”, intendendo gli altri gruppi ebraici che ritiene “passivi”. A marzo Betar ha postato online un appello inquietante contro Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’Onu per i Territori Palestinesi Occupati: “Unitevi a noi per dare a Francesca un (emoji del cercapersone) a Londra martedì”. L’allusione agghiacciante è ai cercapersone che il Mossad fece esplodere in Libano lo scorso settembre, uccidendo decine di persone e ferendone migliaia (un atto di terrorismo internazionale condannato anche dall’ex direttore della Cia Leon Panetta). Il mese prima, Betar aveva minacciato allo stesso modo Peter Beinart, uno scrittore che aveva pubblicato sul New York Times un articolo critico nei confronti di Israele: “Invitiamo tutti gli ebrei dell’Upper West Side a dare a Peter Beinart (tre emoji di cercapersone)”. Per intimidire il politologo Norman Finkelstein, un membro di Betar gli ha infilato un cercapersone nella tasca del cappotto; il gruppo ha pure tentato di interrompere un suo evento pubblico a Washington. Betar ha messo inoltre una taglia sull’attivista Nerdeen Kiswani: “1.800 dollari a chi le consegna un cercapersone”. Dopo le proteste, il gruppo ha rimosso quei post; ma ha continuato con le minacce. Durante un evento contro i crimini di Israele a Gaza organizzato dagli studenti dell’UCLA, Betar ha scritto: “Esigiamo che la polizia rimuova questi teppisti adesso, altrimenti saremo costretti a organizzare gruppi di ebrei per farlo.” Alla veglia per Hind Rajab, la bambina palestinese assassinata dall’esercito israeliano, membri di Betar hanno filmato l’evento, dicendo di essere dell’Ufficio Immigrazione e di volerli identificarli per procedere con le espulsioni. Betar vuole il genocidio dei palestinesi: “Radiamo Gaza al suolo!” scrivevano. Betar fu fondato un secolo fa dal leader sionista Ze’ev Jabotinsky come gruppo paramilitare di estrema destra. I membri giuravano fedeltà allo Stato ebraico non ancora nato: “Dedico la mia vita alla rinascita dello Stato ebraico, con una maggioranza ebraica, su entrambe le sponde del Giordano.” Fra i suoi membri, Menachem Begin, Yitzhak Shamir, e Benzion Netanyahu, il babbo di Bibi.
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 20 giugno)
E ora, per la serie “Non siamo su Black Mirror”, la posta della settimana.
Trovo molto preoccupante la svolta maccartista imposta agli Usa da Trump, di cui hai scritto ieri. (Laura R.)
A conferma che la tua preoccupazione è fondata, Laura, una notizia dell’ultim’ora: gli studenti stranieri che chiedono un visto per studiare negli Stati Uniti dovranno fornire l’accesso ai propri profili social. Il Dipartimento di Stato americano spiega che le ambasciate Usa esamineranno l’attività online dei richiedenti per individuare indizi di ostilità verso gli Stati Uniti o di sostegno a terrorismo e anti-semitismo. Poiché gli Usa di Trump ritengono filo-Hamas e anti-semita anche chi giustamente protesta contro i crimini di guerra israeliani a Gaza, la misura serve a conculcare ulteriormente il diritto democratico al dissenso, che per fortuna è ancora particolarmente sentito dalle giovani generazioni. Chi si rifiuta, specifica il Dipartimento di Stato, “sarà considerato sospetto”. Oh-oh: questo è lo stesso sofisma usato dalla polizia segreta della Germania dell’Est per entrarti in casa quando voleva: “Che male c’è, se non hai nulla da nascondere?” Dove siamo, su Black Mirror?
Il maccartismo di cui parlavi ieri a proposito dell’America di Trump è arrivato anche in Europa: lo scorso novembre il Parlamento tedesco ha approvato un disegno di legge che, con la scusa di combattere l’anti-semitismo, impedisce le critiche legittime alla politica israeliana. Chi protesta contro i crimini di guerra israeliani a Gaza e chi invoca il boicottaggio economico e le sanzioni a Israele sono considerati “anti-semiti”: un abuso evidente, stigmatizzato anche da Amnesty International. (Fausto C.)
Alle ultime elezioni, l’ex DDR ha votato in massa per i neonazisti dell’AfD. Dove siamo, su Black Mirror?
Perché Trump non ferma Netanyahu in Iran? (Nicola R.)
Lo ha spiegato Jeffrey Sachs: “L’attacco è stato pensato insieme agli Stati Uniti.” Lo ha confermato Netanyahu: “Forse non l’avremmo fatto, senza l’appoggio degli Usa”. Stiamo assistendo a un tragico gioco delle parti. I bersagli erano già stati indicati dal PNAC, il progetto di egemonia globale ideato nel 97 dai falchi della futura amministrazione Bush: Iraq, Libia, Siria, Iran e Corea del Nord (tinyurl.com/46h6kjv6). Trump fa il poliziotto buono (per porsi come mediatore) e Bibi il poliziotto cattivo, ma sono entrambi terroristi: in Yemen le bombe di Trump di marzo e aprile hanno ucciso quasi lo stesso numero di civili che gli Usa hanno ucciso nei 23 anni precedenti (t.ly/sj8Zf). Kissinger, coi suoi crimini contro l’umanità, vinse il Nobel per la pace. Mi aspetto lo diano anche a Bibì e Bibò. Non siamo su Black Mirror?
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 2 luglio)
La settimana scorsa, a Manhattan, attivisti di Planet Over Profit (giustizia climatica) e di Mijente (diritti degli immigrati) hanno protestato davanti alla sede della Palantir, colosso tecnologico di estrazione dati: l’accusano di fornire all’amministrazione Trump, alla Cia, all’Fbi, all’Agenzia per l’ìmmigrazione e alle forze armate israeliane IA di tracciamento e di sorveglianza che violano i diritti civili e il diritto umanitario. Caroline Chouinard, una dei dimostranti arrestati dalla polizia, dice: “Da New York a Gaza, Palantir rende possibili degli orrori indicibili”. Palantir è stata fondata nel 2003 dal miliardario Peter Thiel, il creatore di PayPal: libertario conservatore, ammiratore di Reagan e sostenitore di Trump, è membro del comitato direttivo del Gruppo Bilderberg. Palantir è coinvolta in progetti governativi e di intelligence: ha fornito all’Ufficio Immigrazione Usa (ICE) software per tracciare immigrati da deportare; collabora con agenzie militari in operazioni di sorveglianza e analisi bellica; produce strumenti militari basati sull’IA per il sostegno operativo nelle guerre Usa (Afghanistan, Iraq, Ucraina) e nella pulizia etnica dei palestinesi (ha una sede a Tel Aviv); e sviluppa tecnologie per aggregare e analizzare grandi quantità di dati, che rendono più facile monitorare individui senza il loro consenso. In aprile Palantir ha ottenuto un contratto governativo da 30 milioni di dollari per “ImmigrationOS”, un sistema di sorveglianza che rende più efficienti le deportazioni trumpiane; ha anche fornito al Dipartimento dell’Efficienza (DOGE) una mega-interfaccia digitale che accede ai dati dell’Internal Revenue Service (IRS, l’Agenzia delle Entrate) di tutti i cittadini Usa. L’economista Robert Reich, ex Segretario del Lavoro con Clinton, lancia l’allarme: “A marzo Trump ha firmato un ordine esecutivo che obbliga tutte le agenzie federali a condividere i dati sui cittadini Usa. A eseguire questo compito è stata chiamata Palantir, che ora può unificare i database di IRS, Social Security, Dipartimenti della Difesa, della Sanità e della Sicurezza interna. L’amministrazione punta anche ad accedere a conti bancari e cartelle cliniche. La minaccia alla privacy e alla libertà è concreta.” Deputati dei due partiti condividono la sua preoccupazione. “Un database così esteso può trasformarsi in uno strumento di potere soggetto ad abusi”, afferma il repubblicano Warren Davidson. Palantir ha respinto le accuse con un post su X: “Non operiamo i sistemi, non accediamo ai dati, non prendiamo decisioni sul loro uso”. Come dire che i fisici del Progetto Manhattan non furono moralmente responsabili di Hiroshima e Nagasaki: opinione insostenibile, dato che sapevano, come lo sa Palantir, in che modo sarebbe stato usato lo strumento da loro messo a punto, e quali conseguenze avrebbe avuto su civili innocenti. “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, ammoniva Stan Lee: se costruisci una tecnologia nociva, sei complice morale del suo utilizzo. Infatti Oppenheimer disse a Truman: “Signor presidente, mi sento le mani sporche di sangue”; e un altro fisico, Joseph Rotblat, lasciò il Progetto per motivi etici, fondando con Einstein e Russell un movimento internazionale, Pugwash, che promuove la responsabilità etica degli scienziati. (Per anni Rotblat fu sorvegliato dai servizi segreti Usa e Uk: lo sospettavano di simpatie sovietiche. Nel 1995 vinse il Nobel per la pace). Reich: “Il Ceo di Palantir, Alex Karp, ha dichiarato che l’azienda punta a ‘spaventare i nemici e, se serve, a ucciderli’. Un’affermazione inquietante, specie per un’azienda che gestisce dati sensibili di milioni di persone”. Lo raccontava Tolkien tanti anni fa: brutta faccenda, quando un Palantir cade nelle mani di Sauron.
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 3 luglio)
E ora, per la serie “La mia carriera di comico è durata 25 anni o come ha sottolineato Repubblica 18 anni più della Morte Nera”, la posta della settimana.
Caro Daniele, che colossi dell’IA come Palantir facciano affari con deportazioni e genocidi non mi sorprende. E’ già successo: durante il nazismo, l’Ibm fornì al regime nazista macchine a schede perforate e sistemi di elaborazione dati per snellire le pratiche dell’Olocausto: censire la popolazione, individuare gli ebrei e coordinare i trasporti ferroviari verso i campi di concentramento. (Luciana D.)
Il blocco politico-militare che dal dopoguerra regge gli Usa, e quindi l’Occidente; e il governo di Israele, che da decenni pilota quel blocco con abilità spregiudicata; hanno bisogno di aziende tipo Palantir come i nazisti avevano bisogno di Ibm, Siemens, Kodak e Bayer (che produceva lo Zyklon B). L’interesse è reciproco, ovviamente: occupazione e genocidio sono redditizi. Lo illustra la relatrice speciale Onu Francesca Albanese nel suo recente rapporto sulle aziende coinvolte nella pulizia etnica in corso a Gaza, un migliaio, tra le quali Microsoft, Google e Amazon, con le cui tecnologie Israele sorveglia i palestinesi attraverso i loro dati biometrici (t.ly/DZ0aD). Ibm (rieccola!) gestisce invece il database dell’Autorità israeliana per la popolazione, l’immigrazione e i confini (Piba), che ha un ruolo chiave nell’occupazione militare di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est: fornisce l’infrastruttura amministrativa che permette a Israele di controllare la vita quotidiana dei palestinesi (registri civili e anagrafici, documenti d’identità), di limitare la loro mobilità (permessi di entrata e di spostamento), di decidere chi può vivere dove (permessi di residenza e di costruzione) e di gestire le aree occupate (arresti; espulsioni; demolizioni). Aziende civili forniscono macchinari pesanti per demolizioni e insediamenti illegali (Caterpillar, Hyundai, Volvo, Leonardo). Drummond e Glencore danno il carbone per l’elettricità; Netafim i sistemi di irrigazione per lo sfruttamento idrico in Cisgiordania. Settore militare: i caccia F-35 venduti a Israele fanno parte di un programma bellico guidato da Lockheed Martin che coinvolge 1.600 aziende in 8 paesi. Vi partecipano la nostra Leonardo SpA e la giapponese Fanuc (robotica per la produzione di armi). Palantir dà all’Idf sistemi di IA predittiva per la generazione automatizzata di obiettivi militari. Settore finanziario: banche come BNP Paribas e Barclays aiutano Israele a estinguere il debito e a contenere il premio sui tassi d’interesse nonostante il declassamento del rating. BlackRock investe in Palantir, Microsoft, Amazon, Google, Ibm, Lockheed Martin, Caterpillar. Vanguard investe in Caterpillar, Chevron, Palantir, Lockheed Martin e Elbit Systems (produttore di armi israeliano). Anche Allianz e AXA hanno investito in azioni/obbligazioni legate all’occupazione. Albanese lo definisce “capitalismo coloniale razziale”, e spiega che, secondo il diritto internazionale, le aziende hanno l’obbligo di rispettare i diritti umani, anche se lo Stato in cui operano non lo fa. Altrimenti incorrono in responsabilità penali. L’occupazione è un atto di aggressione, sentenzia la Corte internazionale di giustizia: chi vi collabora diventa complice in crimini internazionali, ai sensi dello Statuto di Roma. “Gli Stati devono evitare relazioni economiche e commerciali che sostengono l’occupazione; e le aziende devono disinvestire da tutte le attività legate all’occupazione israeliana, che è illegale”, ammonisce Francesca Albanese. Ma il blocco politico-militare se ne frega, e garantisce l’impunità alle aziende complici. Siamo arrivati al punto che si rimpiangono tempi che sarebbero da compiangere. “Urge una nuova Norimberga”. “Hai ragione”. “Ma lo so anch’io che ho ragione!”
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 16 luglio)
Caro Daniele, hai visto? La teocrazia nazi-sionista di Netanyahu è tornata al vecchio cavallo di battaglia: la balla propagandistica degli stupri di massa di Hamas. (Fiorella P.)
Sono spudorati: un’organizzazione israeliana (Dinah Project) ha raccolto tutte le balle già smentite più volte (t.ly/U7HPj, t.ly/XBE2Z, t.ly/x8dou); le ha ripresentate come fossero vere; e oplà, il rapporto è stato subito rilanciato da Associated Press, Bbc, Avvenire, Linkiesta, Il Dubbio e vari siti ebraici come un “nuovo studio” che “rivela” e “documenta in modo scioccante” gli stupri di Hamas. Con una trovata diabolica, segnalata da Federica D’Alessio: l’Igaa, la Israeli Government Advertising Agency, ha comprato banner che compaiono ovunque sul web e rimandano all’articolo boccalone di Avvenire. Senonché: 1) Reem Alsalem, relatrice speciale Onu, ha replicato al rapporto Dinah: le presunte violenze sessuali sistematiche di Hamas non sono verificate (t.ly/I2qX5). In aprile l’Onu denunciò invece gli stupri sulle donne palestinesi nelle carceri israeliane (t.ly/33DEa). Qui il debunking dettagliato del rapporto Dinah: t.ly/d7sIz. 2) Il Dinah Project cita come testimoni chiave due noti mistificatori della Zaka (l’organizzazione di soccorso israeliana che diffuse subito le balle principali): Simcha Greinman e Chaim Otmazgin. Il rapporto afferma che i due hanno foto di mutilazioni genitali, chiodi, coltelli e oggetti infilati in vagine e inguini, ma l’Onu (rapporto Patten) confermò che le foto erano false. Anche Nbc News e Haaretz, che le videro, giunsero alla stessa conclusione. 3) Greinman inventò pure le balle del 7 ottobre sulle donne nude legate agli alberi, e rilanciò le balle di un collega della Zaka, Yossi Landau, sui bambini decapitati e bruciati e sui feti estratti dall’utero. 4) Due anni fa Greinman disse più volte di non avere foto nel suo telefonino, poi apparve con Otmazgin nel famigerato video di Sheryl Sandberg: le mostravano il telefonino con quelle presunte foto mentre lei inorridiva, una farsa grottesca. 5) Otmazgin inoltre mentì dicendo d’aver visto una ragazza coi pantaloni abbassati che era stata stuprata. Ma quei pantaloni erano stati abbassati da militari israeliani e Otmazgin dovette ammettere la balla. 6) L’Igaa sta pure colonizzando i social con video pubblicitari creati dall’IA. Lo attestano MintPress (t.ly/DWiT4) e Fanpage (t.ly/PWZnP): su Google, fondata dal sionista Sergey Brin (i dati degli utenti Google sono ora gestiti da ex dell’Unità 8200, lo spionaggio militare israeliano: t.ly/VhzAf), video di tg falsi annunciano attacchi di Hamas mai accaduti, mentre un video fake esalta l’assistenza umanitaria israeliana a Gaza mostrando palestinesi che abbracciano felici scatoloni di cibo: il video, dove ogni frase mente (t.ly/4oFQh), è stato definito “scandaloso” da Francesca Albanese. 7) Non solo. Se cerchi Igaa con Google, compare una campagna pubblicitaria contro l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che forniva davvero assistenza ai rifugiati palestinesi, bollata come infiltrata da Hamas “per scopi terroristici”, un’accusa falsa. E se cerchi Unrwa su Google, il primo risultato di ricerca è la pagina del governo israeliano contro l’Unrwa (pagano l’inserzione e l’articolo va in cima). 8) Come se non bastasse, dopo il rapporto di Francesca Albanese sulle aziende che fanno affari col genocidio e l’occupazione a Gaza e in Cisgiordania, Israele la sta diffamando: se cerchi il suo nome su Google, il primo risultato è un articolo del governo israeliano che l’accusa d’aver ripetutamente violato i principi di imparzialità e integrità professionale del suo mandato Onu, e di aver avuto ripetuti contatti con gruppi terroristici, fra cui Hamas (t.ly/3toGS). Tutte calunnie. Spero che Francesca gli faccia un culo così.
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 23 luglio)
L’altro giorno le agenzie La Presse e Nova hanno dato una notizia subito ripresa dai giornaloni: “Alla Casa Bianca c’è crescente frustrazione e irritazione nei confronti del premier israeliano Benyamin Netanyahu, dopo gli ultimi attacchi in Siria”. Chi legge assiduamente questa rubrica come il sottoscritto ha subito capito qual era la fonte: il famigerato Barak Ravid, ex analista dell’Unità 8200, la divisione dell’intelligence militare israeliana che si occupa di spionaggio, sorveglianza di massa, guerra informatica e operazioni coperte (dai ricatti agli omicidi mirati). Gli articoli di Ravid, pubblicati dal website Axios, raccontano sempre di fantomatici contrasti fra il presidente Usa e Netanyahu: Ravid lo faceva con Biden, continua a farlo con Trump. Il gossip sui dissidi fra i presidenti Usa e Bibi sono sempre attribuiti da Ravid ad anonimi “funzionari della Casa Bianca”, uno dei quali l’altro giorno avrebbe pure affermato che “Netanyahu a volte è come un bambino che non si comporta bene”. Netanyahu (crimini di guerra, crimini contro l’umanità, pulizia etnica, genocidio) paragonato a un discolo: hasbara in purezza. Questa propaganda smaccata ha lo scopo di accreditare il presidente Usa come onesto intermediario nella questione mediorientale, quando invece è uno dei giocatori in campo: gli Usa sono i maggiori fornitori d’armi a Israele fin dai tempi di Johnson, cui si deve la dottrina del Qualitative Military Edge (QME), in base alla quale Israele deve mantenere il vantaggio militare su ogni suo nemico. Dal 2008 il QME è una legge Usa: nel fornire armi ad altri Paesi, gli Usa devono garantire il QME di Israele (t.ly/stlmQ). Trump, come i predecessori, sostiene i crimini di Israele inviando a Bibi decine di miliardi di dollari in armamenti e bloccando le risoluzioni Onu favorevoli alla Palestina. Il giudizio definitivo su Trump è di Jeffrey Sachs: “Trump si sta dimostrando assolutamente incapace di risolvere qualsiasi problema. E si sta rivelando come la continuazione dell’amministrazione Biden, che era espressione del complesso militare-industriale. Siamo fondamentalmente bloccati in un sistema militarizzato e antidemocratico. I presidenti vanno e vengono, ma il sistema resta. Fa qualsiasi cosa voglia Israele — al punto che, in effetti, sembra essere Israele a controllarlo. È sconvolgente. Abbiamo uno Stato Permanente che non risponde alla volontà popolare, non risponde alla sicurezza americana, non risponde all’interesse pubblico, non risponde nemmeno alla realtà del bilancio, visto che ora il deficit sta toccando l’8% del Pil, grazie anche al ‘bellissimo’ pacchetto firmato da Trump, che ci ha spinti ancora più a fondo in un buco finanziario. Questo è lo Stato Permanente. Trump aveva promesso di cambiarlo, era la sua promessa elettorale principale. Si è scoperto che la realtà è esattamente l’opposto. È una continuazione in tutto e per tutto: che si tratti dell’Ucraina, del Medio Oriente o dell’Asia orientale, è più guerra, più spese militari, deficit di bilancio sempre più grande, e incompetenza del complesso militare-industriale”. Il propagandista Ravid non è l’unica fetecchia: come già documentato (t.ly/ae3ig), un fottìo di ex spie israeliane ha ruoli apicali nei media Usa: manipolano l’opinione pubblica edulcorando i crimini di Israele per creare consenso al coinvolgimento Usa nel genocidio in corso. Centinaia, inoltre, le ex spie israeliane assunte da Meta, Google, Microsoft, Amazon e TikTok. Venerdì scorso, il giornalista d’inchiesta Alan MacLeod (Mint Press) ha aggiunto un altra tessera al puzzle: anche Apple ha assunto dozzine di veterani dell’Unità 8200, nonostante nelle ultime settimane avesse sbandierato di garantire la privacy e i diritti umani con strumenti per limitare la sorveglianza e lo spyware. (1. Continua)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 24 luglio)
Riassunto della puntata precedente: ex spie dell’Unità 8200, la divisione dell’intelligence militare israeliana che si occupa di spionaggio, sorveglianza di massa, guerra informatica e operazioni coperte, ha infiltrato i media Usa e le piattaforme di sorveglianza: Meta, Google, Microsoft, Amazon e TikTok. Il giornalista d’inchiesta Alan MacLeod (Mint Press) ha scoperto che pure Apple ha assunto dozzine di veterani dell’Unità 8200 (t.ly/Lci10). MacLeod: “Gestiscono le piattaforme Apple e contribuiscono alla direzione strategica dell’azienda. Nir Shkedi è tra gli esempi più significativi. Dal 2008 al 2015 ha ricoperto il ruolo di comandante e responsabile della formazione all’Unità 8200, guidando un team di circa 120 operatori impegnati nello sviluppo di nuovi strumenti d’intelligenza artificiale per l’analisi rapida dei dati. L’Unità 8200 è all’avanguardia in questo settore tecnologico: ha utilizzato l’intelligenza artificiale per generare liste di obiettivi da uccidere che comprendono migliaia di abitanti di Gaza, bambini inclusi. Shkedi lavora in Apple dal 2022″. Fra le decine di veterani dell’Unità 8200 che ricoprono ruoli chiave in Apple c’è Noa Goor: dal 2015 al 2020 è stata project manager e responsabile del team per lo sviluppo della cybersicurezza e dei big data nell’Unità 8200, dove, spiega lei stessa su LinkedIn, ha “ideato soluzioni tecnologiche creative per obiettivi di intelligence prioritari” e “gestito due progetti cyber strategicamente importanti” per l’Idf. Si occupano di software e sicurezza informatica Niv Lev Ari, che nel profilo LinkedIn si vanta di aver ricevuto un encomio da Aviv Kochavi, il comandante dell’Unità 8200; Avital Kleiman, sei anni nell’Unità 8200; Guy Levy, ex analista dell’intelligence; Ofek Rafaeli, in servizio dal 2012 al 2016; Ofer Tlusty, per sei anni analista dell’intelligence. Alla progettazione hardware troviamo Shai Buzgalo e Mayan Hochler, entrambi ex analisti e istruttori dell’Unità 8200; Ofek Har-Even, ufficiale di lungo corso nell’Unità 8200; e Gal Sharon, operatrice di sistemi d’intelligence e analista dei dati dell’Unità 8200. In altri ruoli tecnici, Shahar Moshe, specialista dell’intelligence nell’Unità 8200 dal 2012 al 2015; e Gil Avniel, 5 anni nell’Unità 8200. MacLeod: “L’Unità 8200 ha sviluppato anche tecnologie per il riconoscimento facciale e software di trascrizione vocale per sorvegliare e colpire i palestinesi”. Tim Cook, Ceo di Apple, ha espresso pubblicamente il proprio sostegno a Israele: nel 2014 invitò Netanyahu nella sede centrale dell’azienda a Cupertino, in California, e lo abbracciò; l’anno dopo fu invitato a sua volta in Israele. “È un grande privilegio ospitare lei e il suo team”, gli disse il presidente Reuven Rivlin. Apple ha acquisito diverse aziende tecnologiche israeliane e oggi ha in quel Paese tre centri: vi impiega circa 2.000 persone. Secondo Apples4Ceasefire, un gruppo di dipendenti Apple che contesta i crimini israeliani a Gaza, non solo Cook non si è mai espresso contro tali nefandezze, ma Apple fa donazioni a gruppi come Friends of the Idf (che acquista equipaggiamento per i soldati israeliani) e Jewish National Fund, un’organizzazione coinvolta nell’occupazione delle terre palestinesi. Dipendenti Apple, inoltre, sono stati redarguiti o persino licenziati per aver indossato spille, braccialetti o kefiah a sostegno del popolo palestinese. Apples4Ceasefire accusa l’azienda di “complicità in un genocidio”. Poiché Apple ostenta di garantire la privacy e i diritti degli utenti con strumenti per limitare la sorveglianza e lo spyware, due domande sorgono spontanee: le ex spie israeliane come gestiscono i dati personali degli utenti? E a chi sono politicamente fedeli? (2. Fine)
Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 5 agosto)
Ennesima assunzione di un ex militare israeliano per controllare il traffico su un social. Stavolta si tratta di Erica Mindel, ex istruttrice Idf che si autodefinisce “orgogliosa sionista”: assunta da TikTok, censurerà i contenuti da lei ritenuti antisemiti. TikTok e Meta erano state attenzionate da CyberWell, un’organizzazione fondata da ex spie e analisti militari Idf che fra i collaboratori include Amos Yadlin, ex capo dello spionaggio Idf ed ex addetto alla Sicurezza Usa. Come l’Anti Defamation League, altra lobby sionista, CyberWell fa pressione sui social affinché censurino i post da loro giudicati “antisemiti” in base alla definizione stilata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), che bolla come antisemite anche le critiche alla politica di Israele (CyberWell ha assunto come consulente Dina Porat, la storica israeliana che ha ispirato quella definizione capziosa). CyberWell invitò Meta, TikTok e X, aziende di cui è “collaboratrice di fiducia”, a censurare i post che denunciavano la balla degli stupri di massa di Hamas e quella dei bambini decapitati il 7 ottobre. Erica Mindel partecipò a quella censura in quanto membro della task force di Biden contro i contenuti “antisemiti” in Rete. Adesso a TikTok la censura sionista sarà gestita direttamente da lei: una prassi di hasbara ormai smascherata (t.ly/buT2w). Altra non notizia: Erica Mindel è stata proposta a TikTok dall’Anti Defamation League. Nel 2024 TikTok ha soddisfatto il 94% delle richieste di rimozione di contenuti da parte del governo israeliano, un regime accusato di genocidio dalla Corte di giustizia internazionale.
La Cia creò un network di 885 siti web, di ogni tipo, in 36 Paesi (Italia inclusa: tinyurl.com/yynfsbnr) per raccogliere e scambiare informazioni. Oggi non ce n’è più bisogno: i suoi informatori usano Tor o Signal (t.ly/2xdCc). “Una delle attività meno conosciute e più segrete della Cia consiste nelle cosiddette operazioni di ‘terza forza’, che servono ad aiutare i movimenti di liberazione di certi Paesi, seminare la rivolta in certi altri, e qualche volta abbattere un governo per sostituirlo con un altro”. (Il serpente, regia di Henri Verneuil, 1973, t.ly/f4XpK).