In prima linea per la riconciliazione - Confronti (original) (raw)

Intervista a Dieudonné Nzapalainga. Arcivescovo metropolita di Bangui (Repubblica Centrafricana) a cura di Fulvio Ferrario e Claudio Paravati

Dieudonné Nzapalainga è arcivescovo metropolita di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana e da sempre in prima linea nel processo di riconciliazione e pacificazione del Paese dilaniato dalla guerra civile.

Dieudonné Nzapalainga, nato nel 1967 da padre cattolico e madre protestante, è arcivescovo metropolita di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. È stato ordinato vescovo nel 2012 ed è cardinale dal 2016: tutt’ora è il più giovane porporato della Chiesa cattolica. È noto per il suo impegno ecumenico e interreligioso, orientato alla riconciliazione, in un Paese tra i più poveri dell’Africa, tormentato da conflitti sanguinosi.

A maggio è uscita nelle librerie italiane il suo ultimo libro La mia lotta per la pace. A mani nude contro la guerra in Centrafrica (edito da Libreria Editrice Vaticana con prefazione di Andrea Riccardi) in cui racconta il suo lavoro in prima linea (insieme a rappresentanti delle Chiese protestanti e delle comunità islamiche), nel processo di riconciliazione e pacificazione del Paese dilaniato dalla guerra civile. Confronti ha potuto incontrarlo grazie all’interessamento di Desirée Pancione, pedagogista italiana, che dirige un progetto educativo destinato ai bambini della periferia di Bangui, che lei stessa ha iniziato e che è sostenuto dalla comunità carismatica alla quale appartiene, la Chiesa evangelica della Riconciliazione.

Signor Cardinale, Lei è celebre in Europa per il Suo impegno per la riconciliazione nel conflitto che lacera il Suo Paese, la Repubblica Centrafricana. Può riassumere brevemente, per chi ci legge, la storia di questa tragedia?

Il nostro Paese ha conosciuto parecchi colpi di Stato e sommovimenti istituzionali. Nel 2010, si è scatenata una ribellione nel Nord della Repubblica. Un pastore e un imam sono venuti da me e mi hanno chiesto: «Anche tu hai udito le notizie che abbiamo udito noi, che cioè i ribelli attaccano pastori, suore, preti e altri responsabili religiosi?», ho risposto affermativamente e abbiamo subito individuato la necessità di fare blocco, redigere un messaggio e incontrare le autorità, per dire loro: «Il nostro Paese non conosce guerre di religione e noi non ne vogliamo; non vogliamo manipolazioni né strumentalizzazioni delle religioni per fini politici. Abbiano chiesto di incontrare il presidente dell’epoca, Bozize, il quale non ha risposto. Le posizioni si indurivano. C’era chi affermava che i cristiani avevano troppo a lungo governato il Paese, e chi temeva che i musulmani imponessero il burqa alle donne. Noi abbiamo ripetuto: «Il potere vuole utilizzare la religione, ma noi non siamo d’accordo. E con i musulmani abbiamo sempre mantenuto una bella coesistenza pacifica, non dobbiamo dunque cedere a questo demone della divisione (il diavolo, etimologicamente, è appunto colui che divide).

Con ciò, lei ha già parzialmente risposto alla seconda domanda: voi avete scelto fin dall’inizio un approccio ecumenico al conflitto. Quali sono le caratteristiche del vostro lavoro interconfessionale e interreligioso?

Io parto dal presupposto di non avere, da solo, tutte le risposte: intorno a me ci sono donne e uomini, che non frequentano la stessa chiesa che frequento io, ma che hanno convinzioni e condividono valori su cui ci incontriamo spesso. Può avvenire al mercato, in ufficio, per strada: condividiamo parecchio. E quando si condivide il buon senso, lo Spirito santo soffia su tutti. Io ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia interconfessionale, papà cattolico e mamma protestante, non vi è mai stato conflitto religioso, sempre rispetto, stima, accoglienza e ospitalità. Ho ereditato l’ecumenismo nel mio sangue, la collaborazione con i protestanti l’ho vissuta già in casa. E ora è il tempo di allargare questa fraternità ai musulmani: quando arriva la morte, con i soldati e le armi, non seleziona tra le religioni.

Lo abbiamo detto ai nostri fedeli, a tutti coloro che hanno preso le armi. Per me, cristiano, vale la preghiera di Gesù in Gv. 17, affinché siamo uno. L’unità non è monolitismo, è differenza. Musulmani, protestanti, cattolici, sono diversi, ma possiamo unirci per annunciare un messaggio che ci riguarda tutte e tutti. L’imam è venuto da me, con sua moglie e i suoi figli, abbiamo vissuto sei mesi insieme e abbiamo gestito assieme i tempi dei pasti, della preghiera rispettiva, dell’accompagnamento dei figli. Il Corano e la Bibbia ci insegnano il monoteismo. Ci siamo detti: non andiamo a cercare ciò che ci divide, ma cerchiamo nel Cora- no e nella Bibbia ciò che ci permette di parlare di pace. E ciascuno viene con la propria bisaccia, col proprio sacco, che contiene le parole degli scritti canonici, le quali, a loro volta, contengono valori. Sia la Bibbia, sia il Corano, affermano che l’essere umano è immagine di Dio. E anche chi non cre- de, per noi è figlio o figlia di Dio e siamo chiamati a fare il possibile per proteggerne la vita.

Per aiutarci a capire: qual è la composizione religiosa della Repubblica Centrafricana?

La maggioranza è protestante, un po’ più del 50%; più del 30% sono cattolici, c’è un 10% musulmano, gli altri sono animisti.

E il dialogo coinvolge tutti?

Sì, è aperto a tutti. Ognuno può portare il proprio contributo religioso, per costruire un mondo di fraternità.

Signor cardinale, Lei ci ha detto di provenire da una famiglia interconfessionale. Che cosa significa per Lei, nato in questo contesto, essere vescovo della Chiesa cattolico-romana?

Comincio col dire: cattolico significa universale. Tutti dovrebbero trovare il proprio posto nella Chiesa cattolica, intesa in tal modo. Io ho aderito a questa Chiesa e dunque vi è posto, nel mio cuore, per sorelle e fratelli che non vengono a pregare nella stessa chiesa nella quale mi reco io. Anche gli altri aspirano a questa universalità. Partendo da una lettura cattolico-romana della Bibbia, o da una protestante, o dalla frequentazione del Corano, ci troviamo spesso a difendere gli stessi valori e lo stesso patrimonio di vite umane. Ciò significa imparare che l’altro ha una parola ispirata da dirmi e che io non ho il monopolio della verità.

Ciò richiede un bel po’ di modestia, di umiltà. Essere cattolico-romano, in questo contesto, significa vivere una reale apertura. Diversamente, mi definisco cattolico e poi mi rinchiudo nel mio piccolo gruppo e la mia cattolicità si riduce al mio piccolo gruppo. Ma la faccenda è ben più ampia, perché Dio è ben più grande.

In questi mesi, noi europei siamo molto concentrati sulla guerra in Ucraina. Qual è la sua opinione su questa tragedia?

In primo luogo, condanno ogni violenza, che poi produce conseguenze e ci fa regredire, sfigurando l’immagine di Cristo nell’essere umano.
Detto questo, credo che dobbiamo offrire il nostro contributo: non solo condannare, ma anche tentare mediazioni. Sono rimasto colpito dall’offerta del papa di andare a Mosca. Non vedo molti altri mediatori in questo momento, gente che vada da Putin e da Zelensky per dire: fermatevi. Quando si arriva alla guerra, è necessario negoziare. La soluzione non può consistere nel fornire più armi all’uno o all’altro. L’idea di identificare qualcuno con il diavolo e noi stessi con gli angeli, non corrisponde al mio modo di vedere le cose. Si tratta precisamente di andare a discutere con chi consideriamo il diavolo, perché se lo incentiviamo a perseverare nella sua violenza, il problema resta tale e quale. Al termine della guerra, ci sarà ancora una Russia, ma quale? Ci sarà ancora un’Ucraina, ma quale? Occorre aprire strade diverse da quella militare.

Vi offro un esempio. Quando il papa è venuto da noi, è andato nel quartiere musulmano, ha incontrato le persone, in un veicolo scoperto, non protetto. Alcuni giovani armati si sono avvicinati, gridando e insultandoci. Qualcuno cominciava ad aver paura. Io ho ascoltato queste persone, e ho detto loro: dobbiamo marciare insieme per la pace. Si marcia per la pace con i nemici, non da soli. L’imam mi ha detto: «Dobbiamo venire qui e incontrare il capo delle milizie». L’abbiamo fatto. Vi erano armi dappertutto, questo capo era imbronciato e silenzioso. Io gli ho detto: «Sei un giovane, c’è bontà in te. Perché non mi guardi, non sorridi?». A un certo punto mi ha sorriso, ma ha continuato a tacere. Si è alzato, se n’è andato, lasciandomi solo in mezzo ad armi e armati, come Daniele nella fossa dei leoni. Poi è tornato con un prigioniero e ha detto: «Dovevamo fucilarlo. Ma poiché tu sei venuto a parlarmi, lo liberiamo». Insomma, sono andato da colui che si considera il diavolo, e gli ho parlato. Vale anche per l’Ucraina: la soluzione, lo ripeto, non può essere solo militare.

Lei verrà in Europa a presentare il Suo libro: La mia lotta per la pace. Che cosa ci può anticipare di questo Suo lavoro?

Si tratta di una proposta per superare l’odio. Quando noi partiamo assieme per fare opera di pace, in un primo tempo il cattolico va dai cattolici, il musulmano dai musulmani e il protestante dai protestanti. Ma poi li portiamo a parlare insieme e in tal modo iniziamo a superare le divisioni. Mediante molti aneddoti, intendo raccontare questo cammino a fratelli e sorelle e quando sarò in Italia ne discuteremo.

Signor Cardinale, Lei è una personalità di fama mondiale, che in questo momento sta parlando con noi perché siamo stati messi in contatto dalla dott.ssa Desirée Pancione: una donna evangelica italiana, membro della Chiesa della Riconciliazione, che da anni lavora in Centrafrica, dove ha messo in piedi e dirige, più o meno da sola, una scuola per bambini poveri. Ci può parlare della Sua amicizia con Desirée Pancione?

Quando Desirée si è presentata con il progetto della scuola, mi è parso importante unire le nostre forze, perché è una scuola profetica, nella quale si testimonia ai bambini ciò di cui abbiamo parlato anche in questa conversazione. Lei e io siamo, per così dire, un cuor solo e lavoriamo mano nella mano.

Ph. Bangui (Repubblica Centrafricana) © Alllexxxis / CopyLeft

Dieudonné Nzapalainga

Dieudonné Nzapalainga

Arcivescovo metropolita di Bangui (Repubblica Centrafricana)

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