Giancarlo Benelli - Academia.edu (original) (raw)
Papers by Giancarlo Benelli
Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuov... more Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuova direzione. Così, tutto ciò che mi è venuto incontro nei decenni trascorsi, seguendo la nascita dell'ideologia occidentale attraverso le vicissitudini di un altro occidente, accende nuovi riflessi verso altro spazio. Mi scuso se saranno giudicati una futile distrazione da chi guarda altrove. Al Curato di Meudon che seppellì i morti con uno sberleffo
"L'OCCIDENTE" L'Occidente-quello ideologico-è morto. È morto a Gaza e non è il caso di farne l'el... more "L'OCCIDENTE" L'Occidente-quello ideologico-è morto. È morto a Gaza e non è il caso di farne l'elogio funebre, giace in una fossa comune accanto a tutti gli imperialismi. Da qualche tempo già, non era certo in buona salute, ma da quando la sua protesi mediorientale si è resa ingestibile, si è capito che il corpo non rispondeva più ai comandi del cervello, un sintomo gravissimo. I burrattini impazziti non obbediscono più ai fili dei burrattinai e se le danno di santa (?) ragione, si fanno a pezzi e riempiono di cadaveri-sfortunatamente non di legno-il palcoscenico della storia. L'occidente-quello reale, che fa parte del pubblico-protesta per lo spettacolo indecente e teme di finirne vittima. L'ultima impresa coloniale del colonialismo colonizzante ha generato una piaga che infetta il mondo. Ciò che accade non è causa, è sintomo del disfacimento di un ordine, ordine innaturale come tutti quelli pretesi dalla Ragione e dalle sue regole: l'ordine "basato sulle regole", non sulla ragionevolezza, che è pattizia. Le religioni non ne hanno colpa: né gli Ebrei religiosi-che non vogliono avere nulla a che spartire con uno Stato coloniale-né l'Islam, che non ha nulla a che spartire con i luoghi comuni "à la Fallaci", buoni per gli ignoranti e i benpensanti (che sono poi la stessa cosa). Fu un banale episodio, un colpo di coda di quel colonialismo che in Occidente ha avuto a supporto la pretesa di sentirsi più "progrediti" di altri le cui ragioni non coincidevano con la Ragione, cui si doveva insegnare a vivere da parte di chi rappresentava il culmine della Storia. Si ripercorra la vicenda del supporto culturale (meglio dire: ideologico) che ebbe sempre il colonialismo in Occidente, si pensi a quella disciplina razzista che fu l'Orientalismo. E dall'Occidente vennero i coloni, come tutti i coloni, a prendersi la Palestina, come i cowboys nel Far West: un vecchio vizio, con i Palestinesi nel ruolo degli Amerindi, noti con l'icastico nome di "Pellerossa". Strana assonanza con i "culi neri" dell'Africa. Che i coloni fossero Ebrei è un accidens: la substantia è che erano occidentali, e da allora furono esponenti dell'ordine occidentale del mondo, che nel Medio Oriente aveva azzerato l'ordine ottomano e aveva deciso come ridistribuire le carte. Esponenti utilissimi poi dal 1979, quando l'ideologia di Occidente fu rifiutata dall'Iran, cui gli U.S.A. giurarono eterna ma irrealistica guerra. Il disfacimento dell'ordine trasuda dalla quotidianità. Non si riflette a sufficienza (i gazzettieri fanno di tutto per anestetizzare i benpensanti) sulla correlazione esistente tra le manifestazioni filopalestinesi in Occidente-etchettate come antisemitismo-le crescenti diseguaglianze sociali e l'aumento ormai semisecolare della povertà nell'Occidente stesso, così evidente da tappezzarne le strade con gli homeless: è la contestazione di quel medesimo ordine che regola i rapporti sociali ed economici all'interno, internazionali all'esterno. Eppure i maggiori studiosi dei sistemi-mondo e delle economie-mondo (Braudel, Wallerstein, Arrighi) pongono l'inizio del declino occidentale negli anni ʼ70, gli anni nei quali le serie statistiche raccolte e diffuse da Piketty mostrano l'inizio delle odierne diseguaglianze. Il contemporaneo risorgere di umori protofascisti un po' dovunque non induce a riflettere sulla lezione di Polanyi per il periodo tra le due Guerre: eppure qualcuno ha ristampato il suo libro dopo più di settant'anni. L'ideologia di "Occidente" ammorba l'aria degli occidentali: l'aria che si respira non è delle migliori perché c'è un cadavere nella stanza, come nell'insopportabile transito di Luigi XV. Ha fatto scalpore il successo, specialmente tra i giovani negli U.S.A., della vecchia lettera di Bin Laden ripubblicata dopo oltre vent'anni e creduta da molti, privi di memoria, una critica dell'attuale politica filoisraeliana dell'Occidente: perché anche allora, come ora, si parlava di quello. Gli affezionati dei "valori" occidentali definiscono il dissenso "antisemitismo", parola chiave per tenere la testa sotto la sabbia: penso piuttosto all'emergere di un occidente reale che, col declino inarrestabile del benessere sociale, non ama più l'Occidente ideologico, con grande disappunto e voluta sottovalutazione da parte dei suoi trombettieri. È il sintomo di una ruota che gira, nella storia: l'esercito marcia cantando una canzone triste e marcia verso un sole che tramonta: ma abbandonare un'ideologia, in politica, non si può, è recitare un mea culpa, è ritirarsi dal gioco, ammettere la sconfitta. Perciò: avanti! sperando di allontanare ciò che non si può evitare, il momento di voltarsi e contare ciò ch'è rimasto, dell'esercito. L'Occidente piace sempre meno agli occidentali. L'aspetto più significativo dell'attuale crisi è però questo: la sua verosimile causa scatenante sembra sia da ricercarsi nei cosiddetti accordi di Abramo (l'ho ricordati in "Quel ch'è troppo è troppo") la cui lontana prospettiva sarebbe stata l'assunzione, da parte di Israele, della gestione diretta del Medio Oriente (G. Dottori, su Limes, 10, 2023) perché gli U.S.A., affaticati e sempre più impegnati nel settore del Pacifico con la faccenda di Taiwan, loro primario interesse, non vogliono e non possono più gestirlo da soli in chiave anti-iraniana. Detto in termini più espliciti: hanno crescente difficoltà a gestire da soli il pianeta, come ha capito da tempo Erdoğan memore dell'antico assetto mediorientale ottomano. Le carte si rimescolano, Arrighi definiva situazioni analoghe "chaos sistemico", sintomo del declino di un'egemonia. Il convitato di pietra è la Cina,* che però ha anche lei i suoi problemi: grande è dunque la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente per capire che c'è da ripensare una cultura. E che la faccenda trascende i suoi stessi protagonisti. Nel chaos sistemico le semiperiferie e le periferie cercano altre aggregazioni; già con la vicenda ucraina "l'Europa", cioè "l'Unione" europea si rivelò più trina che una, prima del rappel à l'ordre; figuriamoci se qualcuno volesse trascinarla in avventure asiatiche. In Palestina invoca le buone maniere, il baccano la impensierisce. Il Presidente U.S.A., preoccupato per le elezioni, dà un colpo al cerchio, uno alla botte, un terzo dove non dico: per non perdere l'occasione dà del dittatore a Xi Jinping al quale chiede aiuto. È anziano, forse rimpiange il bel tempo della gioventù, quando U.S.A. e U.R.S.S. facevano la faccia feroce mentre si sorreggevano a vicenda e, come Atlante, sorreggevano il mondo. C'è un bell'aforisma di Kafka, su Atlante che può anche pensare di lasciar cadere
estratto da "Crisi dell'ideologia occidentale"
Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuov... more Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuova direzione. Così, tutto ciò che mi è venuto incontro nei decenni trascorsi, seguendo la nascita dell'ideologia occidentale attraverso le vicissitudini di un altro occidente, accende nuovi riflessi verso altro spazio. Mi scuso se saranno giudicati una futile distrazione da chi guarda altrove. Al Curato di Meudon che seppellì i morti con uno sberleffo 159 INDICE ANALITICO ' 'Abbâsidi 41, 118 'Ain al-Qudât 41 ' 'En Soph 15, 66
Mi ero interessato di alcuni aspetti dell'opera di Arrighi nel capitolo dedicato all'imperialismo... more Mi ero interessato di alcuni aspetti dell'opera di Arrighi nel capitolo dedicato all'imperialismo economico della mia Storia di un altro occidente (Immaginario del dominio e dominio dell'immaginario, alle pp. 1648-1656). Arrighi, come noto, è morto precocemente nel 2009: una perdita per gli studi, perché gli eventi intercorsi da allora avrebbero potuto costituire per lui materia di riflessione alla luce della sua teoria sui cicli del capitalismo. Si trattava di una teoria che poneva interrogativi sull'evidente declino dell'egemonia U.S.A. e sugli sviluppi che avrebbero potuto conseguirne; le pagine che seguono, nelle quali non ripeterò quanto scrissi a suo tempo, costituiscono un tentativo di esaminare la possibilità comprendere quanto sta accadendo-l'attualità è costituita dall'invasione russa dell'Ukraina, dalla successiva reazione, ma anche dalle criticità dell'Occidentealla luce del suo schema articolato sulla rilettura dell'analisi marxiana del capitalismo nella longue durée di Braudel. Do per scontato che il lettore conosca nell'essenziale lo schema accennato da Marx in alcune righe de Il capitale, sviluppato poi nella ponderosa opera di Braudel (Civiltà materiale, economia e capitalismo) e ripreso da Arrighi: secondo questo schema il capitalismo avrebbe conosciuto nella storia vari centri di sviluppo-le città marinare italiane, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna, infine gli U.S.A-tra i quali sarebbe migrato all'esaurirsi di ogni suo ciclo di economia-mondo alla ricerca della creazione di uno Stato-mondo, in accordo con la propria legge interna di crescita obbligata. Gli sviluppi dati da Braudel alla storia del capitalismo sono significativi di un sostanziale cambio di prospettiva perché se Marx, analizzando il fenomeno del capitalismo industriale, aveva considerato il capitalismo come un modo di produzione, Braudel, risalendo al tempo nel quale l'egemonia del capitale si era manifestata come fenomeno connesso al dominio dei commerci, considerò il capitalismo come modo di accumulazione, e, ovviamente, di dominio. L'analisi di Braudel appare particolarmente utile alla comprensione del fenomeno quale si è materializzato negli ultimi cinquant'anni in Occidente sotto forma di finanziarizzazione; chi scrive ha più volte ricordato nelle pagine precedenti la polemica di Bentham vs. Smith sul tema dell'usura per ricordare che l'investimento del capitale nello sviluppo dell'industria rappresenta soltanto un particolare momento di sviluppo del capitale stesso, che di per sé è e resta un momento della fisiologia della finanza. Quanto a Marx, ho ricordato più volte quanto sovente egli stesso abbia constatato e affermato che il fine del capitale non è la produzione, ma il profitto; la produzione industriale non è e non fu che un modo di realizzare il profitto; per il capitale un mezzo, non un fine; un'opportunità offerta da particolari sviluppi del mercato apertisi con il dominio dell'Asia. Per questa ragione mi è sembrato lecito affermare che Marx e Braudel non si contraddicono. La comprensione di quanto sta accadendo è fondamentale non soltanto per giudicare gli eventi e formulare previsioni sia pure nei limiti dell'ipotetico, ma anche per orientare l'azione. Si tratta infatti di comprendere gli eventi non semplicemente nella loro attualità e apparente accidentalità, ma nella logica di un trend con una più ampia dimensione temporale: di capire cioè entro quale flusso stiamo navigando, dove ci sta portando la corrente della storia e, poiché la storia tentiamo di farla noi poveri protagonisti del moto browniano, di prendere le nostre decisioni. Per questa ragione, e poiché è evidente che da mezzo secolo si è invertito, per le società occidentali, un moto ascendente del welfare che si era protratto sino agli inizi degli anni '70, sembra opportuno fare anche qualche riferimento all'opera di Hobsbawm, Il secolo breve. È noto infatti, oltreché evidente, che il titolo di uno dei principali testi di Arrighi, Il lungo XX secolo, fu pensato in risposta alla periodizzazione dello storico inglese che vedeva nel crollo dell'U.RS.S. il terminale di un ciclo storico iniziato con la rivoluzione borghese sul finire del XVIII secolo; Arrighi, al contrario, assunse, sulla scorta di Braudel, l'inizio degli anni '70 come inizio del declino degli U.S.A. quale centro dell'economia-mondo (Braudel aveva considerato quegli anni come momento di inversione dello sviluppo entro un ciclo secolare). Entrambi, Braudel e Arrighi, interrogavano il futuro come momento del ritorno (Braudel) o dell'avvento (Arrighi) alla centralità, dell'oriente asiatico nello sviluppo del pianeta. Poiché dunque il pensiero di Arrighi fa parte di una generale riflessione sul nostro tempo che ha coinvolto illustri storici, iniziamo occupandoci di Hobsbawm e delle ragioni della brevità del suo XX secolo. Per comprenderle farò riferimento al primo e all'ultimo capitolo del suo libro, che ne costituiscono l'introduzione e la conclusione; naturalmente non senza qualche occasionale riferimento al corpo del testo. Il quale corpo del testo è suddiviso in tre parti che costituiscono la ripartizione temporale e concettuale del secolo breve, secondo Hobsbawm. La prima s'intitola: L'età della catastrofe, e copre i trentuno anni di guerra conclamata o strisciante dal 1914 al 1945. Fu catastrofe perché ne andò distrutto l'equilibrio che si era formato nel corso del XIX secolo. Segue L'età dell'oro, tale per Hobsbawm, storico di formazione marxista, perché dal 1945 al 1973 si assistette alla crescita e alla diffusione del welfare. Chiude il secolo breve, e con esso l'omonimo testo, il terzo periodo (1973-1991) intitolato La frana, che deve il giudizio negativo al progressivo smantellamento, sotto i colpi del neoliberismo, del welfare conquistato. Di questa deleteria dottrina-deleteria perché socialmente irrealistica, quindi pericolosa, e tale da autodistruggersi-mi ero occupato diffusamente nel capitolo Derive della Ragione della mia Storia di un altro occidente: perciò non mi ripeterò.
Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'... more Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'indagine "relativamente spassionata" e un passato personale che risale a monte della nostra stessa infanzia-risale anche al familiare più anziano che di quell'infanzia fece parte apportandovi le proprie tradizioni ancora vive. In questo periodo la memoria degli eventi è vissuta in una commistione inestricabile di vicende pubbliche e private che si condizionano reciprocamente. Hobsbawn definisce "crepuscolare" questo spazio temporale, a causa della percezione oscura che lo caratterizza: la natura "storica" degli eventi in esso accaduti è quindi la più difficile da decifrare, anche per lo storico che non può prescindere dal proprio Erlebnis. Quanto afferma Hobsbawn è incontestabile, anche se avrei qualcosa da dire sulla pretesa asetticità-sinonimo per molti di "oggettività"della storia, sulla possibilità, cioè, di rivolgersi a qualunque storia, anche a quella degli Assiri, senza un proprio Erlebnis e una valutazione-personale-della prospettiva di chi scrisse i documenti che interpretiamo: ma non è questo che qui m'interessa. La puntualizzazione serve comunque ad Hobsbawn per sottolineare che il mondo nel quale viviamo (Hobsbawn scrive nel 1987) è stato fatto da uomini e donne vissuti nelle due generazioni alle nostre spalle; nella fattispecie, parlando del XX secolo, da uomini e donne nati nell'Età degli Imperi, cioè tra il 1875 e il 1914: Hobsbawn cita al riguardo le date di nascita di Lenin, Stalin, F.
compare un articolo dal titolo vagamente heideggeriano (ma senza punto interrogativo) di V. Giacc... more compare un articolo dal titolo vagamente heideggeriano (ma senza punto interrogativo) di V. Giacchè (pp. 297-319): Che cos'è l'economia. È un articolo interessante, utile a tanti economisti mainstream per un esame di coscienza e offre l'occasione di qualche commento anche a me, che, pure, non ho nulla da obbiettare né da aggiungere. Ne offre l'occasione perché c'è qualche retroterra da esplorare. L'articolo si apre con un'obbiezione di fondo all'economia neoclassica e alla sua astrattezza, cioè alla sua astrazione dalla realtà sociale (ah, sì, qui aggiungo: e umana) nel cui ambito avviene il fatto "economico". Il desiderio di fare dell'economia una "scienza" nel senso fisico-matematico della parola (e forse anche di togliersi dai piedi Marx) trasformò infatti il fenomeno economico in una "scienza pura priva di dimensioni politiche (e pertanto etiche)" (p. 298) scienza "del comportamento razionale di agenti razionali" (ivi). Già quest'ultimo punto merita un'osservazione. La vicenda della coincidenza tra la scelta economica e la scelta razionale risale notoriamente a Bentham e al suo utilitarismo, figlio dell'astratto Razionalimo trionfante nel XVIII secolo, illuminista o deista che fosse. Questa vicenda l'ho narrata diffusamente nella Storia di un altro occidente, non soltanto come "cattiva secolarizzazione", ma anche come necessità, intrinseca al Razionalismo, di dover naufragare nell'economicismo. Lo homo oeconomicus non è che un'icona della deriva della Ragione postilluminista, quella che fonda il pensiero (si fa per dire) borghese. Che però ci fosse di mezzo anche qualche piccolo interesse lo si nota da quanto segnala Giacchè sempre a p. 298: l'economia politica si rinominò, con l'occasione, semplicemente "economia", una scelta precisa per negare ciò che è ovvio-e ho ripetutamente fatto notare: l'economia politica è politica. Togliere l'attributo non cambia la realtà, se non nella chiacchiera neoliberista che spaccia per soluzioni "scientifiche"-quantomeno tecniche-le proprie scelte politiche. Dice però Giacchè che questa presenza dell'ideologia nell'economia (p. 302) non deve essere confusa con il prospettivismo di Nietzsche; sia pure così, una precisazione mi sembra necessaria. La prospettiva è, per definizione, lo sguardo che viene da un punto di vista, nel nostro caso umano: da un Erlebnis; e l'ideologia che cos'è, se non la razionalizzazione di un Erlebnis? Non posso sapere se a Giacchè sia antipatico Nietzsche; poche righe più in basso sembra tuttavia che il problema sia quello di voler comunque salvaguardare dal relativismo le critiche di Marx al capitalismo, forse uno scrupolo eccessivo, perché quelle critiche sono motivate e restano. Dall'ideologia però, per il significato che le ho attribuito, nessuno è esente: anche la scienza (quella fisica) è figlia di un pensiero dell'epoca non esente da ideologia, come ha mostrato Hübner in generale e come è ben noto per il darwinismo: ciò che comunque non consente, oggi, di sostenere il modello tolemaico. Il punto sostenuto da Giacchè è però questo (p. 303): la concezione dell'economia è relativa al contesto storico-sociale, tuttavia essa può essere "scientifica". Sia pure, ma in tal caso si tratterebbe di una scienza transeunte, come di fatto lo furono il modello copernicano e quello newtoniano. Attenzione dunque all'uso delle parole, altrimenti si torna ai dogmi del veteromarxismo. A questo punto tuttavia Giacchè s'inoltra in un ragionamento che ci conduce altrove, a un punto chiave del pensiero-più precisamente dell'ideologiaborghese. La prospettiva della ricerca economica, dice, va vista in un contesto storico, mentre l'attuale impostazione-che lui definisce "psicologica" e che si deve riferire al semplicistico homo oeconomicus di Benthampensa di poter fare a meno della storia; peggio ancora, la prospettiva borghese pensa la società attuale come punto d'arrivo della storia (p. 304). Di questa presunzione borghese ho parlato sin troppo nella Storia di un altro occidente, per sentire la necessità di ripetermi; qualcosa la voglio però ricordare. È una vicenda eurocentrica che ha un illustre caposaldo nella Storia (con la maiuscola) di Hegel, trascinamento in terra del Dio in divenire di Böhme e, prima ancora, si attesta nel "Progresso" illuminista trasformato dalla borghesia in un eterno accrescimento del sempre-eguale; andando a ritroso-o al fondo-si può rivolgere il pensiero al ruolo che fu conferito alla storia per dare uno stemma di nobiltà alla borghesia come classe generale; a una storia teleologica che sostiene l'ideologia stessa di "Occidente". Giustamente notava quindi Pareyson che la crisi dell'Occidente manifesta la crisi del pensiero hegeliano. In questo senso, crisi del capitalismo (borghese) e crisi dell'Occidente (ideologico, con la maiuscola) hanno tratti comuni. E, in proposito di crisi, sono interessanti le considerazioni di Giacchè a p. 304, sviluppate nelle pagine successive a proposito della crisi del 2008. Interessanti non soltanto perché sottolineano l'incapacità previsionale degli economisti neoclassici (questo può accadere a tutti) ma soprattutto perché è risultata evidente la falsità del loro dogma principale, la tendenza del sistema economico ad autoequilibrarsi. Per inciso: per loro-l'ho ricordato altrove-quando ciò non avviene è sempre colpa di qualche improprio intervento governativo, se così non fosse crollerebbe il dogma. In altre parole: l'economia neoclassica è infondata, cosa della quale non ho mai dubitato considerandola espressione di una generale deriva (della Ragione). Tra le manifestazioni palesi, emergenti dalle statistiche, degli squilibri in atto, Giacchè sottolinea poi (p. 306, grafici 2 e 3) l'enorme espansione del debito privato U.S.A.-un trend inarrestabile dal 1946-e lo sviluppo anomalo delle attività finanziarie, il triplo dello sviluppo del PIL mondiale, negli anni che vanno dall'avvento del neoliberismo (1980) all'inizio della crisi (2007).
Storia di un altro occidente, 2020
Storia di un altro Occidente narra le vicende di un mito, quello di un mondo finale perfetto, sot... more Storia di un altro Occidente narra le vicende di un mito, quello di un mondo finale perfetto, sottratto ai disagi della storia, e di come esso abbia alimentato per molti secoli le speranze della marginalità nell'occidente cristianizzato, sotto forma di devianze religiose che costituirono l'antecedente delle utopie sociali del mondo secolarizzato. Narra dell'opposizione che conobbe la scelta iniziale, fatta dalla nascente Chiesa di Roma, di istituzionalizzare la propria dottrina entro gli schemi della cultura egemone-e dei ceti egemoni; d'interpretarla cioè alla luce del Razionalismo classico. Un messaggio profetico collideva necessariamente con la Ragione classica, ed era quindi destinato ad aprire un dissenso religioso, veicolo del dissenso sociale; quella scelta si mostrò tuttavia vincente e restò al fondamento di ciò che, con la secolarizzazione, divenne l'ideologia di "Occidente": con la O maiuscola nel testo, per distinguerla dalla ben altrimenti complessa e contraddittoria realtà dell'occidente geografico. Quella scelta ebbe due conseguenze. La prima fu, per l'appunto, il fenomeno specificamente occidentale della secolarizzazione, frutto dell'identificazione dei principi etici e sociali maturati in lunghi secoli di Cristianesimo, con i principi di una "Ragione" erede di quella classica, valida erga omnes, pilastro dell'ideologia di "Occidente": una Ragione che non riconosce la propria genesi in una particolare storia, ma s'identifica con il compimento della Storia tout-court, con il télos del pianeta, rivelando così la propria natura di ierostoria calata in terra. L'altra fu che quel mito, cacciato alla periferia dell'Impero e delle due neocostituite "ortodossie" testamentarie, ma in sé inesauribile, rimase comunque ben vivo. Un messaggio profetico ha infatti una valenza simbolica che non si esaurisce negli schemi del Razionalismo; d'altronde esso era ormai uscito dal chiuso di un popolo, e s'era fatto universale. Fu così che esso dette origine a un nuovo e originale esito: l'Islam. Un filo segreto sembra dunque legare la formazione dell'ideologia occidentale e il costituirsi, ai suoi margini, di un modello sociale alternativo; un legame che appare più in chiaro una volta decostruita l'ideologicità di due vulgatae, quella occidentale e quella islamica. Non sembra un caso che, nel corso del XX secolo, vi siano state generiche convergenze tra questa alternativa religiosa all'Occidente, e le correnti di pensiero che, in occidente, si ponevano in dissenso con gli sviluppi dell'Occidente ideologico. In tutto ciò, l'assolutizzazione della nostra storica ragione in una Ragione universale fondata su se stessa, non ci fu d'aiuto nella comprensione di altre ragioni fondate in altre storie, divergenti eppure intrecciate sin dalle origini con la nostra: l'orientalistica ne fu un esempio. Il cosiddetto "Oriente"-nel nostro caso l'Islamentra perciò da protagonista nel racconto; ma tutto ciò sarebbe rimasto confinato nel mondo fané dell'Accademia senza gli imprevisti sviluppi degli ultimi decenni. A partire dalla data simbolica del 1914, un secolo di lenta erosione della forza colonizzatrice dell'occidente si è riflesso nel dubbio sulla sua stessa "Ragione", che aveva pensato l'Occidente come traguardo del pianeta. L'indebolimento dell'Occidente non deve quindi pensarsi soltanto sul piano ristretto della "forza", esso si riflette anche sul sostegno ideologico del quale nessuna forza può fare a meno. Le due crisi si rinviano: lo svanire, per mancanza di forza, di un ipotetico futuro occidentale del pianeta revoca in dubbio il valore paradigmatico della Ragione occidentale autoreferenziale. Nasce così il sospetto di una "crisi dell'Occidente" in grado di coinvolgere gli stessi "valori" che connotano il fenomeno, tutto occidentale, della "Modernità". Si può persino sospettare che la "Modernità"-forse già vecchia-sia soltanto l'approdo di una Ragione autoreferenziale e perciò senza fondamento, di una Ragione che ha perduto quindi la propria razionalità; e che l'Islam, che fonda esplicitamente la propria razionalità sul contenuto di un messaggio, possa ricordare all'occidente qualcosa che l'Occidente ha dimenticato. Su questi dubbi s'interroga, senza pretendere di poter dare risposta, la sesta edizione dell'opera; e poiché il rapporto col presente è ciò che genera lo sguardo sul passato e la comprensione che ne nasce è anche un'ipoteca sul futuro, pensare un passato diverso da quello pensato dalla Vulgata occidentale costituisce il fondamento per immaginare e costruire un futuro diverso da quello che la nostra ideologia pretende; testimoniare una verità che si crea, che non è adeguamento alla cosa. Pensare il concetto di "Occidente" come un'ideologia, una tra le altre all'interno di una storia più problematica; intravvedere l'ipotesi di un collegamento tra la sua nascita e la nascita dell'Islam; porre il fondamento di un possibile passato nello scontro tra il Messaggio testamentario e la Ragione classica; interpretarne gli sviluppi alla luce di questa inconciliabilità sempre viva e del suo sottofondo sociale, ha avuto esattamente questo scopo. Queste conclusioni sono state oggetto di verifica nei Marginalia, con riferimento ad eventi del XX-XXI secolo che sono sembrati un significativo approdo del percorso delineato: da un lato il fenomeno del neo-liberismo considerato una deriva della Ragione; dall'altro la Rivoluzione iraniana interpretata come una sconfitta ideologica dell'ideologia di "Occidente", come tale rivelatrice della sua fragilità. Storia di un altro occidente appoggia le proprie considerazioni su una Bibliografia di oltre 4000 titoli.
Storia di un altro occidente pp. 165-188, 2020
Storia di una altro occidente pp. 783-810, 2020
Storia di un altro occidente pp. 721-782, 2020
Storia di una altro occidente pp. 715-720, 2020
Storia di una altro occidente pp. 702-714, 2020
Storia di un altro occidente pp. 680-701, 2020
Storia di una altro occidente pp. 575-679, 2020
Storia di un altro occidente pp. 537-574, 2020
Storia di una altro occidente pp. 502-536, 2020
Storia di un altro occidente pp. 474-501, 2020
Storia di un altro occidente pp. 418-473, 2020
Storia di un altro occidente pp. 377-417, 2020
Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuov... more Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuova direzione. Così, tutto ciò che mi è venuto incontro nei decenni trascorsi, seguendo la nascita dell'ideologia occidentale attraverso le vicissitudini di un altro occidente, accende nuovi riflessi verso altro spazio. Mi scuso se saranno giudicati una futile distrazione da chi guarda altrove. Al Curato di Meudon che seppellì i morti con uno sberleffo
"L'OCCIDENTE" L'Occidente-quello ideologico-è morto. È morto a Gaza e non è il caso di farne l'el... more "L'OCCIDENTE" L'Occidente-quello ideologico-è morto. È morto a Gaza e non è il caso di farne l'elogio funebre, giace in una fossa comune accanto a tutti gli imperialismi. Da qualche tempo già, non era certo in buona salute, ma da quando la sua protesi mediorientale si è resa ingestibile, si è capito che il corpo non rispondeva più ai comandi del cervello, un sintomo gravissimo. I burrattini impazziti non obbediscono più ai fili dei burrattinai e se le danno di santa (?) ragione, si fanno a pezzi e riempiono di cadaveri-sfortunatamente non di legno-il palcoscenico della storia. L'occidente-quello reale, che fa parte del pubblico-protesta per lo spettacolo indecente e teme di finirne vittima. L'ultima impresa coloniale del colonialismo colonizzante ha generato una piaga che infetta il mondo. Ciò che accade non è causa, è sintomo del disfacimento di un ordine, ordine innaturale come tutti quelli pretesi dalla Ragione e dalle sue regole: l'ordine "basato sulle regole", non sulla ragionevolezza, che è pattizia. Le religioni non ne hanno colpa: né gli Ebrei religiosi-che non vogliono avere nulla a che spartire con uno Stato coloniale-né l'Islam, che non ha nulla a che spartire con i luoghi comuni "à la Fallaci", buoni per gli ignoranti e i benpensanti (che sono poi la stessa cosa). Fu un banale episodio, un colpo di coda di quel colonialismo che in Occidente ha avuto a supporto la pretesa di sentirsi più "progrediti" di altri le cui ragioni non coincidevano con la Ragione, cui si doveva insegnare a vivere da parte di chi rappresentava il culmine della Storia. Si ripercorra la vicenda del supporto culturale (meglio dire: ideologico) che ebbe sempre il colonialismo in Occidente, si pensi a quella disciplina razzista che fu l'Orientalismo. E dall'Occidente vennero i coloni, come tutti i coloni, a prendersi la Palestina, come i cowboys nel Far West: un vecchio vizio, con i Palestinesi nel ruolo degli Amerindi, noti con l'icastico nome di "Pellerossa". Strana assonanza con i "culi neri" dell'Africa. Che i coloni fossero Ebrei è un accidens: la substantia è che erano occidentali, e da allora furono esponenti dell'ordine occidentale del mondo, che nel Medio Oriente aveva azzerato l'ordine ottomano e aveva deciso come ridistribuire le carte. Esponenti utilissimi poi dal 1979, quando l'ideologia di Occidente fu rifiutata dall'Iran, cui gli U.S.A. giurarono eterna ma irrealistica guerra. Il disfacimento dell'ordine trasuda dalla quotidianità. Non si riflette a sufficienza (i gazzettieri fanno di tutto per anestetizzare i benpensanti) sulla correlazione esistente tra le manifestazioni filopalestinesi in Occidente-etchettate come antisemitismo-le crescenti diseguaglianze sociali e l'aumento ormai semisecolare della povertà nell'Occidente stesso, così evidente da tappezzarne le strade con gli homeless: è la contestazione di quel medesimo ordine che regola i rapporti sociali ed economici all'interno, internazionali all'esterno. Eppure i maggiori studiosi dei sistemi-mondo e delle economie-mondo (Braudel, Wallerstein, Arrighi) pongono l'inizio del declino occidentale negli anni ʼ70, gli anni nei quali le serie statistiche raccolte e diffuse da Piketty mostrano l'inizio delle odierne diseguaglianze. Il contemporaneo risorgere di umori protofascisti un po' dovunque non induce a riflettere sulla lezione di Polanyi per il periodo tra le due Guerre: eppure qualcuno ha ristampato il suo libro dopo più di settant'anni. L'ideologia di "Occidente" ammorba l'aria degli occidentali: l'aria che si respira non è delle migliori perché c'è un cadavere nella stanza, come nell'insopportabile transito di Luigi XV. Ha fatto scalpore il successo, specialmente tra i giovani negli U.S.A., della vecchia lettera di Bin Laden ripubblicata dopo oltre vent'anni e creduta da molti, privi di memoria, una critica dell'attuale politica filoisraeliana dell'Occidente: perché anche allora, come ora, si parlava di quello. Gli affezionati dei "valori" occidentali definiscono il dissenso "antisemitismo", parola chiave per tenere la testa sotto la sabbia: penso piuttosto all'emergere di un occidente reale che, col declino inarrestabile del benessere sociale, non ama più l'Occidente ideologico, con grande disappunto e voluta sottovalutazione da parte dei suoi trombettieri. È il sintomo di una ruota che gira, nella storia: l'esercito marcia cantando una canzone triste e marcia verso un sole che tramonta: ma abbandonare un'ideologia, in politica, non si può, è recitare un mea culpa, è ritirarsi dal gioco, ammettere la sconfitta. Perciò: avanti! sperando di allontanare ciò che non si può evitare, il momento di voltarsi e contare ciò ch'è rimasto, dell'esercito. L'Occidente piace sempre meno agli occidentali. L'aspetto più significativo dell'attuale crisi è però questo: la sua verosimile causa scatenante sembra sia da ricercarsi nei cosiddetti accordi di Abramo (l'ho ricordati in "Quel ch'è troppo è troppo") la cui lontana prospettiva sarebbe stata l'assunzione, da parte di Israele, della gestione diretta del Medio Oriente (G. Dottori, su Limes, 10, 2023) perché gli U.S.A., affaticati e sempre più impegnati nel settore del Pacifico con la faccenda di Taiwan, loro primario interesse, non vogliono e non possono più gestirlo da soli in chiave anti-iraniana. Detto in termini più espliciti: hanno crescente difficoltà a gestire da soli il pianeta, come ha capito da tempo Erdoğan memore dell'antico assetto mediorientale ottomano. Le carte si rimescolano, Arrighi definiva situazioni analoghe "chaos sistemico", sintomo del declino di un'egemonia. Il convitato di pietra è la Cina,* che però ha anche lei i suoi problemi: grande è dunque la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente per capire che c'è da ripensare una cultura. E che la faccenda trascende i suoi stessi protagonisti. Nel chaos sistemico le semiperiferie e le periferie cercano altre aggregazioni; già con la vicenda ucraina "l'Europa", cioè "l'Unione" europea si rivelò più trina che una, prima del rappel à l'ordre; figuriamoci se qualcuno volesse trascinarla in avventure asiatiche. In Palestina invoca le buone maniere, il baccano la impensierisce. Il Presidente U.S.A., preoccupato per le elezioni, dà un colpo al cerchio, uno alla botte, un terzo dove non dico: per non perdere l'occasione dà del dittatore a Xi Jinping al quale chiede aiuto. È anziano, forse rimpiange il bel tempo della gioventù, quando U.S.A. e U.R.S.S. facevano la faccia feroce mentre si sorreggevano a vicenda e, come Atlante, sorreggevano il mondo. C'è un bell'aforisma di Kafka, su Atlante che può anche pensare di lasciar cadere
estratto da "Crisi dell'ideologia occidentale"
Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuov... more Che cos'è un riflesso? Una luce batte su una superficie, si trasforma in nuova luce e prende nuova direzione. Così, tutto ciò che mi è venuto incontro nei decenni trascorsi, seguendo la nascita dell'ideologia occidentale attraverso le vicissitudini di un altro occidente, accende nuovi riflessi verso altro spazio. Mi scuso se saranno giudicati una futile distrazione da chi guarda altrove. Al Curato di Meudon che seppellì i morti con uno sberleffo 159 INDICE ANALITICO ' 'Abbâsidi 41, 118 'Ain al-Qudât 41 ' 'En Soph 15, 66
Mi ero interessato di alcuni aspetti dell'opera di Arrighi nel capitolo dedicato all'imperialismo... more Mi ero interessato di alcuni aspetti dell'opera di Arrighi nel capitolo dedicato all'imperialismo economico della mia Storia di un altro occidente (Immaginario del dominio e dominio dell'immaginario, alle pp. 1648-1656). Arrighi, come noto, è morto precocemente nel 2009: una perdita per gli studi, perché gli eventi intercorsi da allora avrebbero potuto costituire per lui materia di riflessione alla luce della sua teoria sui cicli del capitalismo. Si trattava di una teoria che poneva interrogativi sull'evidente declino dell'egemonia U.S.A. e sugli sviluppi che avrebbero potuto conseguirne; le pagine che seguono, nelle quali non ripeterò quanto scrissi a suo tempo, costituiscono un tentativo di esaminare la possibilità comprendere quanto sta accadendo-l'attualità è costituita dall'invasione russa dell'Ukraina, dalla successiva reazione, ma anche dalle criticità dell'Occidentealla luce del suo schema articolato sulla rilettura dell'analisi marxiana del capitalismo nella longue durée di Braudel. Do per scontato che il lettore conosca nell'essenziale lo schema accennato da Marx in alcune righe de Il capitale, sviluppato poi nella ponderosa opera di Braudel (Civiltà materiale, economia e capitalismo) e ripreso da Arrighi: secondo questo schema il capitalismo avrebbe conosciuto nella storia vari centri di sviluppo-le città marinare italiane, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna, infine gli U.S.A-tra i quali sarebbe migrato all'esaurirsi di ogni suo ciclo di economia-mondo alla ricerca della creazione di uno Stato-mondo, in accordo con la propria legge interna di crescita obbligata. Gli sviluppi dati da Braudel alla storia del capitalismo sono significativi di un sostanziale cambio di prospettiva perché se Marx, analizzando il fenomeno del capitalismo industriale, aveva considerato il capitalismo come un modo di produzione, Braudel, risalendo al tempo nel quale l'egemonia del capitale si era manifestata come fenomeno connesso al dominio dei commerci, considerò il capitalismo come modo di accumulazione, e, ovviamente, di dominio. L'analisi di Braudel appare particolarmente utile alla comprensione del fenomeno quale si è materializzato negli ultimi cinquant'anni in Occidente sotto forma di finanziarizzazione; chi scrive ha più volte ricordato nelle pagine precedenti la polemica di Bentham vs. Smith sul tema dell'usura per ricordare che l'investimento del capitale nello sviluppo dell'industria rappresenta soltanto un particolare momento di sviluppo del capitale stesso, che di per sé è e resta un momento della fisiologia della finanza. Quanto a Marx, ho ricordato più volte quanto sovente egli stesso abbia constatato e affermato che il fine del capitale non è la produzione, ma il profitto; la produzione industriale non è e non fu che un modo di realizzare il profitto; per il capitale un mezzo, non un fine; un'opportunità offerta da particolari sviluppi del mercato apertisi con il dominio dell'Asia. Per questa ragione mi è sembrato lecito affermare che Marx e Braudel non si contraddicono. La comprensione di quanto sta accadendo è fondamentale non soltanto per giudicare gli eventi e formulare previsioni sia pure nei limiti dell'ipotetico, ma anche per orientare l'azione. Si tratta infatti di comprendere gli eventi non semplicemente nella loro attualità e apparente accidentalità, ma nella logica di un trend con una più ampia dimensione temporale: di capire cioè entro quale flusso stiamo navigando, dove ci sta portando la corrente della storia e, poiché la storia tentiamo di farla noi poveri protagonisti del moto browniano, di prendere le nostre decisioni. Per questa ragione, e poiché è evidente che da mezzo secolo si è invertito, per le società occidentali, un moto ascendente del welfare che si era protratto sino agli inizi degli anni '70, sembra opportuno fare anche qualche riferimento all'opera di Hobsbawm, Il secolo breve. È noto infatti, oltreché evidente, che il titolo di uno dei principali testi di Arrighi, Il lungo XX secolo, fu pensato in risposta alla periodizzazione dello storico inglese che vedeva nel crollo dell'U.RS.S. il terminale di un ciclo storico iniziato con la rivoluzione borghese sul finire del XVIII secolo; Arrighi, al contrario, assunse, sulla scorta di Braudel, l'inizio degli anni '70 come inizio del declino degli U.S.A. quale centro dell'economia-mondo (Braudel aveva considerato quegli anni come momento di inversione dello sviluppo entro un ciclo secolare). Entrambi, Braudel e Arrighi, interrogavano il futuro come momento del ritorno (Braudel) o dell'avvento (Arrighi) alla centralità, dell'oriente asiatico nello sviluppo del pianeta. Poiché dunque il pensiero di Arrighi fa parte di una generale riflessione sul nostro tempo che ha coinvolto illustri storici, iniziamo occupandoci di Hobsbawm e delle ragioni della brevità del suo XX secolo. Per comprenderle farò riferimento al primo e all'ultimo capitolo del suo libro, che ne costituiscono l'introduzione e la conclusione; naturalmente non senza qualche occasionale riferimento al corpo del testo. Il quale corpo del testo è suddiviso in tre parti che costituiscono la ripartizione temporale e concettuale del secolo breve, secondo Hobsbawm. La prima s'intitola: L'età della catastrofe, e copre i trentuno anni di guerra conclamata o strisciante dal 1914 al 1945. Fu catastrofe perché ne andò distrutto l'equilibrio che si era formato nel corso del XIX secolo. Segue L'età dell'oro, tale per Hobsbawm, storico di formazione marxista, perché dal 1945 al 1973 si assistette alla crescita e alla diffusione del welfare. Chiude il secolo breve, e con esso l'omonimo testo, il terzo periodo (1973-1991) intitolato La frana, che deve il giudizio negativo al progressivo smantellamento, sotto i colpi del neoliberismo, del welfare conquistato. Di questa deleteria dottrina-deleteria perché socialmente irrealistica, quindi pericolosa, e tale da autodistruggersi-mi ero occupato diffusamente nel capitolo Derive della Ragione della mia Storia di un altro occidente: perciò non mi ripeterò.
Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'... more Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'indagine "relativamente spassionata" e un passato personale che risale a monte della nostra stessa infanzia-risale anche al familiare più anziano che di quell'infanzia fece parte apportandovi le proprie tradizioni ancora vive. In questo periodo la memoria degli eventi è vissuta in una commistione inestricabile di vicende pubbliche e private che si condizionano reciprocamente. Hobsbawn definisce "crepuscolare" questo spazio temporale, a causa della percezione oscura che lo caratterizza: la natura "storica" degli eventi in esso accaduti è quindi la più difficile da decifrare, anche per lo storico che non può prescindere dal proprio Erlebnis. Quanto afferma Hobsbawn è incontestabile, anche se avrei qualcosa da dire sulla pretesa asetticità-sinonimo per molti di "oggettività"della storia, sulla possibilità, cioè, di rivolgersi a qualunque storia, anche a quella degli Assiri, senza un proprio Erlebnis e una valutazione-personale-della prospettiva di chi scrisse i documenti che interpretiamo: ma non è questo che qui m'interessa. La puntualizzazione serve comunque ad Hobsbawn per sottolineare che il mondo nel quale viviamo (Hobsbawn scrive nel 1987) è stato fatto da uomini e donne vissuti nelle due generazioni alle nostre spalle; nella fattispecie, parlando del XX secolo, da uomini e donne nati nell'Età degli Imperi, cioè tra il 1875 e il 1914: Hobsbawn cita al riguardo le date di nascita di Lenin, Stalin, F.
compare un articolo dal titolo vagamente heideggeriano (ma senza punto interrogativo) di V. Giacc... more compare un articolo dal titolo vagamente heideggeriano (ma senza punto interrogativo) di V. Giacchè (pp. 297-319): Che cos'è l'economia. È un articolo interessante, utile a tanti economisti mainstream per un esame di coscienza e offre l'occasione di qualche commento anche a me, che, pure, non ho nulla da obbiettare né da aggiungere. Ne offre l'occasione perché c'è qualche retroterra da esplorare. L'articolo si apre con un'obbiezione di fondo all'economia neoclassica e alla sua astrattezza, cioè alla sua astrazione dalla realtà sociale (ah, sì, qui aggiungo: e umana) nel cui ambito avviene il fatto "economico". Il desiderio di fare dell'economia una "scienza" nel senso fisico-matematico della parola (e forse anche di togliersi dai piedi Marx) trasformò infatti il fenomeno economico in una "scienza pura priva di dimensioni politiche (e pertanto etiche)" (p. 298) scienza "del comportamento razionale di agenti razionali" (ivi). Già quest'ultimo punto merita un'osservazione. La vicenda della coincidenza tra la scelta economica e la scelta razionale risale notoriamente a Bentham e al suo utilitarismo, figlio dell'astratto Razionalimo trionfante nel XVIII secolo, illuminista o deista che fosse. Questa vicenda l'ho narrata diffusamente nella Storia di un altro occidente, non soltanto come "cattiva secolarizzazione", ma anche come necessità, intrinseca al Razionalismo, di dover naufragare nell'economicismo. Lo homo oeconomicus non è che un'icona della deriva della Ragione postilluminista, quella che fonda il pensiero (si fa per dire) borghese. Che però ci fosse di mezzo anche qualche piccolo interesse lo si nota da quanto segnala Giacchè sempre a p. 298: l'economia politica si rinominò, con l'occasione, semplicemente "economia", una scelta precisa per negare ciò che è ovvio-e ho ripetutamente fatto notare: l'economia politica è politica. Togliere l'attributo non cambia la realtà, se non nella chiacchiera neoliberista che spaccia per soluzioni "scientifiche"-quantomeno tecniche-le proprie scelte politiche. Dice però Giacchè che questa presenza dell'ideologia nell'economia (p. 302) non deve essere confusa con il prospettivismo di Nietzsche; sia pure così, una precisazione mi sembra necessaria. La prospettiva è, per definizione, lo sguardo che viene da un punto di vista, nel nostro caso umano: da un Erlebnis; e l'ideologia che cos'è, se non la razionalizzazione di un Erlebnis? Non posso sapere se a Giacchè sia antipatico Nietzsche; poche righe più in basso sembra tuttavia che il problema sia quello di voler comunque salvaguardare dal relativismo le critiche di Marx al capitalismo, forse uno scrupolo eccessivo, perché quelle critiche sono motivate e restano. Dall'ideologia però, per il significato che le ho attribuito, nessuno è esente: anche la scienza (quella fisica) è figlia di un pensiero dell'epoca non esente da ideologia, come ha mostrato Hübner in generale e come è ben noto per il darwinismo: ciò che comunque non consente, oggi, di sostenere il modello tolemaico. Il punto sostenuto da Giacchè è però questo (p. 303): la concezione dell'economia è relativa al contesto storico-sociale, tuttavia essa può essere "scientifica". Sia pure, ma in tal caso si tratterebbe di una scienza transeunte, come di fatto lo furono il modello copernicano e quello newtoniano. Attenzione dunque all'uso delle parole, altrimenti si torna ai dogmi del veteromarxismo. A questo punto tuttavia Giacchè s'inoltra in un ragionamento che ci conduce altrove, a un punto chiave del pensiero-più precisamente dell'ideologiaborghese. La prospettiva della ricerca economica, dice, va vista in un contesto storico, mentre l'attuale impostazione-che lui definisce "psicologica" e che si deve riferire al semplicistico homo oeconomicus di Benthampensa di poter fare a meno della storia; peggio ancora, la prospettiva borghese pensa la società attuale come punto d'arrivo della storia (p. 304). Di questa presunzione borghese ho parlato sin troppo nella Storia di un altro occidente, per sentire la necessità di ripetermi; qualcosa la voglio però ricordare. È una vicenda eurocentrica che ha un illustre caposaldo nella Storia (con la maiuscola) di Hegel, trascinamento in terra del Dio in divenire di Böhme e, prima ancora, si attesta nel "Progresso" illuminista trasformato dalla borghesia in un eterno accrescimento del sempre-eguale; andando a ritroso-o al fondo-si può rivolgere il pensiero al ruolo che fu conferito alla storia per dare uno stemma di nobiltà alla borghesia come classe generale; a una storia teleologica che sostiene l'ideologia stessa di "Occidente". Giustamente notava quindi Pareyson che la crisi dell'Occidente manifesta la crisi del pensiero hegeliano. In questo senso, crisi del capitalismo (borghese) e crisi dell'Occidente (ideologico, con la maiuscola) hanno tratti comuni. E, in proposito di crisi, sono interessanti le considerazioni di Giacchè a p. 304, sviluppate nelle pagine successive a proposito della crisi del 2008. Interessanti non soltanto perché sottolineano l'incapacità previsionale degli economisti neoclassici (questo può accadere a tutti) ma soprattutto perché è risultata evidente la falsità del loro dogma principale, la tendenza del sistema economico ad autoequilibrarsi. Per inciso: per loro-l'ho ricordato altrove-quando ciò non avviene è sempre colpa di qualche improprio intervento governativo, se così non fosse crollerebbe il dogma. In altre parole: l'economia neoclassica è infondata, cosa della quale non ho mai dubitato considerandola espressione di una generale deriva (della Ragione). Tra le manifestazioni palesi, emergenti dalle statistiche, degli squilibri in atto, Giacchè sottolinea poi (p. 306, grafici 2 e 3) l'enorme espansione del debito privato U.S.A.-un trend inarrestabile dal 1946-e lo sviluppo anomalo delle attività finanziarie, il triplo dello sviluppo del PIL mondiale, negli anni che vanno dall'avvento del neoliberismo (1980) all'inizio della crisi (2007).
Storia di un altro occidente, 2020
Storia di un altro Occidente narra le vicende di un mito, quello di un mondo finale perfetto, sot... more Storia di un altro Occidente narra le vicende di un mito, quello di un mondo finale perfetto, sottratto ai disagi della storia, e di come esso abbia alimentato per molti secoli le speranze della marginalità nell'occidente cristianizzato, sotto forma di devianze religiose che costituirono l'antecedente delle utopie sociali del mondo secolarizzato. Narra dell'opposizione che conobbe la scelta iniziale, fatta dalla nascente Chiesa di Roma, di istituzionalizzare la propria dottrina entro gli schemi della cultura egemone-e dei ceti egemoni; d'interpretarla cioè alla luce del Razionalismo classico. Un messaggio profetico collideva necessariamente con la Ragione classica, ed era quindi destinato ad aprire un dissenso religioso, veicolo del dissenso sociale; quella scelta si mostrò tuttavia vincente e restò al fondamento di ciò che, con la secolarizzazione, divenne l'ideologia di "Occidente": con la O maiuscola nel testo, per distinguerla dalla ben altrimenti complessa e contraddittoria realtà dell'occidente geografico. Quella scelta ebbe due conseguenze. La prima fu, per l'appunto, il fenomeno specificamente occidentale della secolarizzazione, frutto dell'identificazione dei principi etici e sociali maturati in lunghi secoli di Cristianesimo, con i principi di una "Ragione" erede di quella classica, valida erga omnes, pilastro dell'ideologia di "Occidente": una Ragione che non riconosce la propria genesi in una particolare storia, ma s'identifica con il compimento della Storia tout-court, con il télos del pianeta, rivelando così la propria natura di ierostoria calata in terra. L'altra fu che quel mito, cacciato alla periferia dell'Impero e delle due neocostituite "ortodossie" testamentarie, ma in sé inesauribile, rimase comunque ben vivo. Un messaggio profetico ha infatti una valenza simbolica che non si esaurisce negli schemi del Razionalismo; d'altronde esso era ormai uscito dal chiuso di un popolo, e s'era fatto universale. Fu così che esso dette origine a un nuovo e originale esito: l'Islam. Un filo segreto sembra dunque legare la formazione dell'ideologia occidentale e il costituirsi, ai suoi margini, di un modello sociale alternativo; un legame che appare più in chiaro una volta decostruita l'ideologicità di due vulgatae, quella occidentale e quella islamica. Non sembra un caso che, nel corso del XX secolo, vi siano state generiche convergenze tra questa alternativa religiosa all'Occidente, e le correnti di pensiero che, in occidente, si ponevano in dissenso con gli sviluppi dell'Occidente ideologico. In tutto ciò, l'assolutizzazione della nostra storica ragione in una Ragione universale fondata su se stessa, non ci fu d'aiuto nella comprensione di altre ragioni fondate in altre storie, divergenti eppure intrecciate sin dalle origini con la nostra: l'orientalistica ne fu un esempio. Il cosiddetto "Oriente"-nel nostro caso l'Islamentra perciò da protagonista nel racconto; ma tutto ciò sarebbe rimasto confinato nel mondo fané dell'Accademia senza gli imprevisti sviluppi degli ultimi decenni. A partire dalla data simbolica del 1914, un secolo di lenta erosione della forza colonizzatrice dell'occidente si è riflesso nel dubbio sulla sua stessa "Ragione", che aveva pensato l'Occidente come traguardo del pianeta. L'indebolimento dell'Occidente non deve quindi pensarsi soltanto sul piano ristretto della "forza", esso si riflette anche sul sostegno ideologico del quale nessuna forza può fare a meno. Le due crisi si rinviano: lo svanire, per mancanza di forza, di un ipotetico futuro occidentale del pianeta revoca in dubbio il valore paradigmatico della Ragione occidentale autoreferenziale. Nasce così il sospetto di una "crisi dell'Occidente" in grado di coinvolgere gli stessi "valori" che connotano il fenomeno, tutto occidentale, della "Modernità". Si può persino sospettare che la "Modernità"-forse già vecchia-sia soltanto l'approdo di una Ragione autoreferenziale e perciò senza fondamento, di una Ragione che ha perduto quindi la propria razionalità; e che l'Islam, che fonda esplicitamente la propria razionalità sul contenuto di un messaggio, possa ricordare all'occidente qualcosa che l'Occidente ha dimenticato. Su questi dubbi s'interroga, senza pretendere di poter dare risposta, la sesta edizione dell'opera; e poiché il rapporto col presente è ciò che genera lo sguardo sul passato e la comprensione che ne nasce è anche un'ipoteca sul futuro, pensare un passato diverso da quello pensato dalla Vulgata occidentale costituisce il fondamento per immaginare e costruire un futuro diverso da quello che la nostra ideologia pretende; testimoniare una verità che si crea, che non è adeguamento alla cosa. Pensare il concetto di "Occidente" come un'ideologia, una tra le altre all'interno di una storia più problematica; intravvedere l'ipotesi di un collegamento tra la sua nascita e la nascita dell'Islam; porre il fondamento di un possibile passato nello scontro tra il Messaggio testamentario e la Ragione classica; interpretarne gli sviluppi alla luce di questa inconciliabilità sempre viva e del suo sottofondo sociale, ha avuto esattamente questo scopo. Queste conclusioni sono state oggetto di verifica nei Marginalia, con riferimento ad eventi del XX-XXI secolo che sono sembrati un significativo approdo del percorso delineato: da un lato il fenomeno del neo-liberismo considerato una deriva della Ragione; dall'altro la Rivoluzione iraniana interpretata come una sconfitta ideologica dell'ideologia di "Occidente", come tale rivelatrice della sua fragilità. Storia di un altro occidente appoggia le proprie considerazioni su una Bibliografia di oltre 4000 titoli.
Storia di un altro occidente pp. 165-188, 2020
Storia di una altro occidente pp. 783-810, 2020
Storia di un altro occidente pp. 721-782, 2020
Storia di una altro occidente pp. 715-720, 2020
Storia di una altro occidente pp. 702-714, 2020
Storia di un altro occidente pp. 680-701, 2020
Storia di una altro occidente pp. 575-679, 2020
Storia di un altro occidente pp. 537-574, 2020
Storia di una altro occidente pp. 502-536, 2020
Storia di un altro occidente pp. 474-501, 2020
Storia di un altro occidente pp. 418-473, 2020
Storia di un altro occidente pp. 377-417, 2020
Pretendere che l'economia sia una scienza, e non il prodotto di rapporti sociali, è fondamentale ... more Pretendere che l'economia sia una scienza, e non il prodotto di rapporti sociali, è fondamentale per ogni possibile ideologia liberista (neo/paleo/ordo e quant'altro). Lo è perché sottrae alla politica il dibattito sulle scelte economiche e lo riconduce alla sfera di competenza dei "tecnici"; significa pensare la possibile esistenza di un meccanismo "oggettivo", una "legge razionale" la cui eventuale mancata esatta definizione può esser causa di eventuali esiti indesiderati; significa perciò demandare agli "esperti" l'accertamento di eventuali errori e la formulazione di opportune correzioni, per poi sottomettersi di buon grado alla diagnosi e alla terapia secondo un processo destinato tuttavia a ripetersi. Implicita, vi è l'assenza di dubbio circa la corrispondenza speculare tra il pensiero "scientificamente" pensato e la realtà, tra la "theoria" e il proprio oggetto: come se la scienza-si veda Hübner, Kritik der wissenschaftlichen Vernunft-non fosse anch'essa condizionata dal tempo e dal luogo (sociale) nel quale viene pensata, salvo imporsi-è accaduto nel XIX secolo-come pensiero egemone e sinonimo dei "verità certa" in quella specifica circostanza storica e nell'assetto sociale che la contraddistinse. La coincidenza di pensiero "scientifico" e "verità"-lo scientismo-è infatti una convinzione del tutto recente ubicata, per l'appunto, nel XIX secolo borghese, cioè in una contingenza storica e sociale, nella quale la "scienza" ha partorito-in perfetta buona fede, ma precisamente qui è il punto-dottrine infondate ma dettate da specifici interessi, come, per citarne soltanto una, il razzismo, "giustificazione" della violenza colonialista e di note tragedie del XX secolo. Questa convinzione ha dunque un fondamento ideologico, l'invenzione di una particolare storia, la Storia-un Assoluto-come percorso verso un télos della Ragione raggiunto con la formazione della società borghese, che da essa riceve dunque la patente del proprio diritto, un diritto a pieno titolo sostitutivo del vecchio diritto divino della Nobiltà. Fu la cattiva secolarizzazione, il trascinamento in terra, nel luogo del contingente, dell'Assoluto, ciò che fece dell'eterno immutabile il traguardo del mutevole transeunte (al quale appartiene anche la scienza, eterna ricerca): realizzando l'antica pretesa del pensiero classico che pensava una società immobile, ideologia del dominio che concepiva il moto soltanto come allontanamento o ritorno allo stato edenico della quiete; nostalgia (nel senso etimologico) dello status quo. Ritengo necessario riflettere sulla conseguenzialità di questi tre capoversi, perché la trasformazione dell'economia in una (pretesa) scienza è premessa ideologica indispensabile all'eternizzazione dello status quo, della società borghese dei mercatores e del (presunto) "libero" mercato, sia pure con tutti gli aggiustamenti che i "tecnici" suggeriranno di volta in volta. Lo è perché, sottraendo l'economia-in quanto "scienza"alla scelta politica, ne fece un hortus conclusus degli "esperti" che non consente di mettere in discussione il presupposto del liberismo (quale che ne sia il prefisso) cioè il mercato come epifania della libertà, una sciocchezza strettamente imparentata con la pretesa esistenza di un fantasticato libero arbitrio, dunque un presupposto culturale. Di fatto, si sceglie soltanto tra quel che c'è da scegliere, ma il campo delle scelte non lo predisponiamo noi e non è il medesimo per tutti: quel presupposto è soltanto un'astrazione razionalista, non rispecchia la realtà. Nella realtà il mercato è epifania della forza, il luogo ove questa si materializza come legge, cioè regola, norma, vincolo-si veda l'etimola ben nota "legge del mercato", che fa della "libera" scelta un forzato assoggettamento. La società liberista, una società fondata sulla competizione darwinista per il survival of the fittest, non è precisamente il teatro della democrazia o delle scelte condivise; è una società che crea vincitori e perdenti ma dove i vincitori hanno necessità dei perdenti; una società, quindi, nella quale lo squilibrio delle forze viene istituzionalizzato facendo aumentare progressivamente la diseguaglianza, rendendo sempre più dissimile il campo delle non libere scelte individuali. Ad una legge-non importa se scritta in cielo o misteriosamente iscritta nella fisicità della "natura"non è tuttavia possibile sottrarsi*: perciò, nell'ideologia liberista e della sua "legge del mercato" pensare o progettare una società diversa con una diversa economia, può costituire soltanto il preludio di un disastro, è un proposito irrazionale. La società liberista si prospetta come un carcere a vita, coerentemente con la propria convinzione di costituire un télos imprescindibile, come tale da preservarsi, sia pure con i continui aggiustamenti gestiti dai "tecnici". Anche questo, per usare parole di Streeck, è però soltanto un tempo guadagnato, perché la perfezione logica della necessità, espressa nel circolo, fa della società liberista quanto di più simile al mitico ouroboros, il serpente simbolo dell'eternità che, avvolto su se stesso, si mangia la coda. Il liberismo divora la società stessa sulla quale è germinato, lo abbiamo visto nel nascere e dissolversi della sua middle class; la crisi gli è implicita e connaturata. Il processo può essere contrastato soltanto con la gestione politica dell'economia. Lo specchio deformante che restituisce un'immagine inverosimile della realtà può, per effetto inverso, anche attribuire una forma verosimile al bizzarro che vi si specchia; così la società liberista, per assumere un aspetto razionale, deve riflettersi nello specchio deformante della sua "scienza" economica. *Per l'origine del concetto di "legge" nella sfera del divino, espressione dell'ordine cosmico che tutto regola e al quale tutto è assoggettato, si veda Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, pp. 358-362 nell'edizione Einaudi
Pretendere che l'economia sia una scienza, e non il prodotto di rapporti sociali, è fondamentale ... more Pretendere che l'economia sia una scienza, e non il prodotto di rapporti sociali, è fondamentale per ogni possibile ideologia liberista (neo/paleo/ordo e quant'altro). Lo è perché sottrae alla politica il dibattito sulle scelte economiche e lo riconduce alla sfera di competenza dei "tecnici", e significa pensare la possibile esistenza di un meccanismo "oggettivo", una "legge razionale" la cui eventuale mancata esatta definizione può esser causa di eventuali esiti indesiderati; significa perciò demandare gli "esperti" l'accertamento di eventuali errori e la formulazione di opportune correzioni, per poi sottomettersi di buon grado alla diagnosi e alla terapia secondo un processo destinato tuttavia a ripetersi. Implicita, vi è l'assenza di dubbio circa la corrispondenza speculare tra il pensiero "scientificamente" pensato e la realtà, tra la "theoria" e il proprio oggetto: come se la scienza-si veda Hübner, Kritik der wissenschaftlichen Vernunft-non fosse anch'essa condizionata dal tempo e dal luogo (sociale) nel quale viene pensata, salvo imporsi-è accaduto nel XIX secolo-come pensiero egemone e sinonimo dei "verità certa" in quella specifica circostanza storica e nell'assetto sociale che la contraddistinse. La coincidenza di pensiero "scientifico" e "verità"-lo scientismo-è infatti una convinzione del tutto recente ubicata, per l'appunto, nel XIX secolo borghese, cioè in una contingenza storica e sociale, nella quale la "scienza" ha partorito-in perfetta buona fede, ma precisamente qui è il punto-dottrine infondate ma dettate da specifici interessi, come, per citarne soltanto una, il razzismo, "giustificazione" della violenza colonialista e di note tragedie del XX secolo. Questa convinzione ha dunque un fondamento ideologico, l'invenzione di una particolare storia, la Storia-un Assoluto-come percorso verso un télos della Ragione raggiunto con la formazione della società borghese, che da essa riceve dunque la patente del proprio diritto, un diritto a pieno titolo sostitutivo del vecchio diritto divino della Nobiltà. Fu la cattiva secolarizzazione, il trascinamento in terra, nel luogo del contingente, dell'Assoluto, ciò che fece dell'eterno immutabile il traguardo del mutevole transeunte (al quale appartiene anche la scienza, eterna ricerca): realizzando l'antica pretesa del pensiero classico che pensava una società immobile, ideologia del dominio che concepiva il moto soltanto come allontanamento o ritorno allo stato edenico della quiete; nostalgia (nel senso etimologico) dello status quo. Ritengo necessario riflettere sulla conseguenzialità di questi tre capoversi, perché la trasformazione dell'economia in una (pretesa) scienza è premessa ideologica indispensabile all'eternizzazione dello status quo, della società borghese dei mercatores e del (presunto) "libero" mercato, sia pure con tutti gli aggiustamenti che i "tecnici" suggeriranno di volta in volta. Lo è perché, sottraendo l'economia-in quanto "scienza"alla scelta politica, ne fece un hortus conclusus degli "esperti" che non consente di mettere in discussione il presupposto del liberismo (quale che ne sia il prefisso) cioè il mercato come epifania della libertà, una sciocchezza strettamente imparentata con la pretesa esistenza di un fantasticato libero arbitrio, dunque un presupposto culturale. Di fatto, si sceglie soltanto tra quel che c'è da scegliere, ma il campo delle scelte non lo predisponiamo noi e non è il medesimo per tutti: quel presupposto è soltanto un'astrazione razionalista, non rispecchia la realtà. Nella realtà il mercato è epifania della forza, il luogo ove questa si materializza come legge, cioè regola, norma, vincolo-si veda l'etimola ben nota "legge del mercato", che fa della "libera" scelta un forzato assoggettamento. La società liberista, una società fondata sulla competizione darwinista per il survival of the fittest, non è precisamente il teatro della democrazia o delle scelte condivise; è una società che crea vincitori e perdenti ma dove i vincitori hanno necessità dei perdenti; una società, quindi, nella quale lo squilibrio delle forze viene istituzionalizzato facendo aumentare progressivamente la diseguaglianza, rendendo sempre più dissimile il campo delle non libere scelte individuali. Ad una legge-non importa se scritta in cielo o misteriosamente iscritta nella fisicità della "natura"non è tuttavia possibile sottrarsi*: perciò, nell'ideologia liberista e della sua "legge del mercato" pensare o progettare una società diversa con una diversa economia, può costituire soltanto il preludio di un disastro, è un proposito irrazionale. La società liberista si prospetta come un carcere a vita, coerentemente con la propria convinzione di costituire un télos imprescindibile, come tale da preservarsi, sia pure con i continui aggiustamenti gestiti dai "tecnici". Anche questo, per usare parole di Streeck, è però soltanto un tempo guadagnato, perché la perfezione logica della necessità, espressa nel circolo, fa della società liberista quanto di più simile al mitico ouroboros, il serpente simbolo dell'eternità che, avvolto su se stesso, si mangia la coda. Il liberismo divora la società stessa sulla quale è germinato, lo abbiamo visto nel nascere e dissolversi della sua middle class; la crisi gli è implicita e connaturata. Il processo può essere contrastato soltanto con la gestione politica dell'economia. Lo specchio deformante che restituisce un'immagine inverosimile della realtà può, per effetto inverso, anche attribuire una forma verosimile al bizzarro che vi si specchia; così la società liberista, per assumere un aspetto razionale, deve riflettersi nello specchio deformante della sua "scienza" economica. *Per l'origine del concetto di "legge" nella sfera del divino, espressione dell'ordine cosmico che tutto regola e al quale tutto è assoggettato, si veda Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. I, pp. 358-362 nell'edizione Einaudi
Il futuro è inconoscibile, questa è sapienza spicciola; ma per essere più preciso vorrei notare c... more Il futuro è inconoscibile, questa è sapienza spicciola; ma per essere più preciso vorrei notare che ciò non dipende da qualche nostra manchevolezza intellettuale, è un dato strutturale: possiamo certamente agire per creare il futuro che vorremmo, questo è in nostra facoltà, ma poi, di fatto, gli eventi saranno altra cosa, perché la storia procede sempre secondo un moto browniano determinato dalle conseguenze necessarie di scontri casuali tra le forze in gioco: sicché, quali che siano le direzioni che tali forze tendono ad imporle, si assisterà sempre all'eterogenesi dei fini. Neppure i Profeti si sottraggono a questa inconoscibillità del futuro: affermare, come dice il nome loro attribuito, che il loro sguardo abbia saputo penetrarlo, è conseguenza di un errato posizionamento prospettico. Ciò che i Profeti "vedono", per limpidezza di giudizio, non è il futuro che verrà, ma l'irrimediabile stato di putrefazione del presente che li costringe ad immaginare un mondo altro e a proporlo, quindi a tentare di determinarlo sia pure nei limiti sia di una mera negazione del presente, sia in quelli propri di un'umanità che è quel che è, legno storto postlapsario al quale viene additato un nuovo, possibile modello. Non v'è infatti alcun possibile mondo che possa darsi se non nell'ambito di un'ideologia, e in questo senso ogni mondo formalmente strutturato è sempre in ritardo nei confronti della realtà che diviene, perché ogni ideologia altro non è se non la razionalizzazione di uno stato di fatto divenuto egemone (o come tale proponibile) e che si tenta di eternizzare così contravvenendo alla realtà del moto. Per inciso: non per nulla il pensiero classico, che era anche classista, della herrschende Klasse, contestava questa realtà del moto che continuamente corrode ogni status quo; al massimo accettava il moto come próodos ed epistrophé, viaggio storico d'andata e ritorno dall'ordine ontologico della "Verità Una" contemplato nella rappresentazione del "filosofo". Mi viene in mente questa riflessione perché, se c'è una realtà con la quale dobbiamo confrontarci, questa è il palese tramonto dell'ideologia che conforma il cosiddetto "Occidente" e che s'era pensata valida erga omnes per il banalissimo fatto-transeunte e variamente traguardabile come tutti i "fatti" della storia-che all'inizio del XX secolo l'Occidente di allora (che col tempo ha anche cambiato forma e collocazione geografica) aveva sottomesso tutto, o quasi, il pianeta. Il fatto appariva tanto più convincente in quanto giungeva a convalidare una precedente lettura della Storia (con la maiuscola) detta eurocentrica, che vedeva nell'ascesa di questa penisola dell'Asia il culmine di un processo teleologicamente orientato il quale, serpeggiando da un continente all'altro secondo un misterioso, ma certo e prestabilito itinerario, raggiungeva là il proprio traguardo destinale. Molte sciocchezze dette in seguito su questa scorta-l'ultima fu la "fine della Storia"-traggono origine da questo modello, largamente accantonato dagli storici, che da tempo indagano ormai una possibile world history*. Un modello, è bene aggiungere, che nel XIX secolo aveva trovato la propria ragion d'essere come fondamento metafisico e metastorico per l'affermazione della società borghese (e del suo capitalismo liberista, ça va sans dire). Un fondamento così convincente che lo stesso Marx condivideva la funzione "civilizzatrice" dell'Europa-anglosassone, borghese e capitalista, videlicet: colonialista-nel continente asiatico: salvo pretendere un'ulteriore tappa per giungere al vero traguardo della Storia, la società comunista. Il suo successo può forse ricondursi alla convergenza di fattori diversi che vanno dalle sue radici nel pensiero classico tornato a dominare in Europa tra l'Umanesimo e l'Illuminismo, al suo ricalcare, secolarizzandole, le strutture di un pensiero religioso introiettato, peraltro anch'esso conformato nelle strutture del pensiero classico; nel prestarsi, sul piano ideologico, al perfetto giustificazionismo dello status quo. Una Storia intesa come "Der Gang Gottes in der Welt" e "Die Rechtfertigung Gottes" è una storia guidata da un'inappellabile Ragione i cui scopi-imperscrutabili come nella teodicea, forse indagabili come nella Ragione cosmica erede della Prónoia stoica da quando Dio diventò un orologiaio-perseguono comunque un misterioso ma certo Bene: dunque ciò che è ha una ragion d'essere che è anche giustezza. Che il Bene fosse tale perché rispondente alla Volontà divina o perché rispondente al corretto funzionamento dell'Orologio, non ha importanza: si era comunque confezionato uno splendido diploma di nobiltà per chi al potere era giunto e doveva pur esibire un qualche merito.** Per inciso: era la banale secolarizzazione del Dio in divenire pensato da un ciabattino di Görlitz, architettata da chi fu giustamente definito "creatura filosofica ministeriale"; dove l'attributo "ministeriale" non va pensato semplicemente in rapporto al modesto progetto esistenziale del nostro filosofo (si ricordi la sua lettera a Niethammer) ma a quella visione armonica sempre pretesamente imposta alla storia dai vincitori, superamento (Aufhebung?) della crisi romantica: perché i romantici, nella loro disperata ricerca dell'armonia del mondo, erano riusciti a scoprire soltanto l'evidenza del conflitto (che di tutto è padre).*** Questo mito di una Ragione che governa le cose del mondo, cioè la nostra modesta storia terrena elevata pertanto a Storia, manifestazione dell'Assoluto, versione volgarizzata e terrena di una zoroastriana Storia di Salvezza (Zoroastro vive ancora nel Cristianesimo e in certe correnti dell'Ebraismo, come la Qabbalah) non fu soltanto un parto di filosofi. Questa fine di un viaggio che vuol essere un ritorno ad uno stato immaginario di perfezione (per Herder, primo "filosofo" della "Storia" l'Eden era alla fine, non all'inizio dell'avventura umana) ha conosciuto anche forme più pedestri, "pratiche", oserei dire: terragne. Fu il caso del Sadduceismo rispolverato da Calvinisti e Puritani, un'eredità della Teologia del Patto secondo la quale Dio premia in terra (videlicet: nel portafoglio) i "Giusti". Fu anche il caso del Deismo, la religiosità astratta che venerava l'Orologio cosmico, eredità
L'ideologia occidentale è inadeguata a mondo attuale
VIGILIA DI CASSA INTEGRAZIONE Ducunt volentem fata, nolentem trahunt Una rivista di geopolitica c... more VIGILIA DI CASSA INTEGRAZIONE Ducunt volentem fata, nolentem trahunt Una rivista di geopolitica che denuncia "la notte dell'Occidente" con alti lai per lo stato preagonico dell'illustre infermo, così descrive in un suo articolo l'attuale Papa Francesco: "pontefice convintamente non occidentale e impegnato nella decostruzione dell'equazione tra Chiesa ed emisfero euratlantico, dal quale vuole sradicare il cattolicesimo per renderlo, quello sì, davvero globale. Conscio dello statu moriendi in cui si trova l'Occidente". Della faccenda m'ero interessato, peraltro in toni non così lugubri, in Quando la nave affonda i topi scappano-"al destino che vien/rassegnarsi convien" sospirava con disincantata leggerezza il fine dicitore nei tabarins di cent'anni or sono; d'altronde, che cosa volete che faccia se non porre i propri "distinguo", un'istituzione religiosa per statuto e ragione sociale universalista, se l'Occidente è ormai una piccola minoranza nel globo, per giunta non troppo in buona fama per ciò che ha fatto e fa-o non fadal Cile alla Palestina? Questa impossibilità di elaborare il lutto sembra però permeare molti articoli della nostra rivista; siamo quindi in presenza di un fenomeno diffuso che deve pur avere una propria ragione. Certo, molto può dipendere da uno sguardo sbilenco, come quando, a proposito del conflitto in corso, si parla della "lotta senza quartiere degli ebrei per vivere nella terra di Palestina": dimenticando quella non meno spietata dei sionisti per non farci vivere i palestinesi-che, pure, ci vivevano da tredici secoli-sorvolando quindi sulla storia di una occupazione iniziata nel ventesimo secolo. Il punto però non è qui, questa è soltanto una presa di parte per la quale ciascuno è responsabile delle proprie sviste, è soltanto un indizio e altri ne servono per tentar di capire il non-detto che può esserci dietro ciò che vi si afferma. Un non-detto non necessariamente personale-anche perché tante sono le voci e gli Autoripiù verosimilmente qualcosa di fiutato nell'aria che si respira; o l'avvertimento d'un suono di campana flebile e lontano. Cerchiamoli dunque, questi indizi, negli umori che si avvertono tra le righe allorché indagano l'universo mondo, o quasi: non soltanto il generico "Occidente" ma le sue singole parti (Europa geografica ed "Europa" bruxelloise, U.S.A. e Giappone) e i suoi rivali Cina e Russia; nonché il caso della Turchia. Mancano però il Medio Oriente-se non per quello che ho segnalato della Palestina-l'Africa e il Sud America nella loro specificità. La loro globalità è tuttavia presente come "mondo contro". Per inciso: un certo non-detto appare tra le righe sotto forma di una sotterranea propensione muscolare (letteraria) rafforzata dalla comparsa del nome di Carl Schmitt che, a sua volta, dà senso al concetto di "mondo contro"; nessuno però si chiede perché mai quel mondo, che costituisce gran parte del mondo, sia "contro": forse si immagina un Occidente-ciliegina-sulla-torta-del-Creato secondo un obsoleto storicismo post-illuminista (non è polemica, è invito a un minimo di aggiornamento storiografico). In tutto ciò appare interessante la ripartizione operata nel mondo studiato. Ci siamo "noi" (la vecchia "Europa" franco-tedesca di Bruxelles) giudicati fuori del tempo; a parte ci sono quei Paesi "occidentali"-Giappone incluso, dunque occidentali in senso ideologico, non geografico-ritenuti "quasi vivi", infine quelli "vivi". Procediamo per ordine. Francia e Germania (Paesi nei quali è pensata tutta "l'Europa" di Bruxelles, Polonia esclusa) appaiono come nazioni, meglio, come popoli, ormai decotti: non fosse per l'imbarazzo che genererebbe la parola a causa di chi ne fece grande uso, un ammiratore di Le Bon, potrebbero essere definiti panciafichisti. Per la Francia suonano le parole di De Gaulle; per la Germania si sottolinea l'antica propensione biedermeier a pensare il commercio come antidoto alla guerra (non citato, Kant dixit). Per inciso: un articolo usa espressioni come "la storia dimostra" dimenticando che la storia non dimostra assolutamente nulla salvo quello che ciascuno pretende di farle dimostrare; e, già che siamo in Germania, dimenticando anche tutto ciò che ha scritto Koselleck sull'argomento. "L'Europa" è anche analizzata in generale da un tale che si definisce "filosofo" (ohibò! sarà certamente laureato in filosofia, magari Professore di filosofia, ma di qui ad auteleggersi "filosofo" c'è di mezzo un doppio salto mortale carpiato senza rete, roba da rompersi il collo). Quel che più colpisce è che il nostro "filosofo" fa riferimento al più volte citato Gustave Le Bon, inventore-si dice-di uno strumento per la misurazione dei crani e noto capostipite della psicologia delle masse cara ai dittatori: siamo in pieno positivismo ottocentesco con il suo corredo di colonialismo europeo e darwinismo sociale. Il nostro filosofo cita poi anche Spengler e argomenti da "tramonto dell'Occidente" (vedi Al di là dello specchio). Al riguardo trovo interessante notare che questo obsoleto accostamento ideologico tra crisi dell'Impero Romano e crisi dell'impero U.S.A. è riemerso recentemente anche altrove dall'archivio dei gazzettieri, anche se, di certo, non sui testi di storia: è l'aria che tira. Tornando al nostro "filosofo", colpisce, tra le sue varie affermazioni, l'accostamento avanzato tra le attese escatologiche del Cristianesimo e il marxismo, un argomento del vecchio occidentalismo laicheggiante, razionalista e post-illuminista, che accusava il marxismo di essere una religione: come se escatologia, assiologia, apocalitticismo e millenarismo, che sono al fondamento di tutte le tre "religioni del libro", non fossero riemersi più volte in tante epoche come voce degli emarginati, e, soprattutto, non fossero stati un problema da eliminare sin dai primi eresiologi per la Chiesa Romana, poi cattolica: sinché Tommaso spiegò a Gioacchino che il Regno della Grazia esiste sì, ma non in questo mondo, altrove. Qui, l'evidente precaria tenuta dello status quo planetario appare recepita dal Nostro come timore, non come semplice constatazione: altrimenti in sua difesa avremmo avuto argomentazioni ragionate, non vecchi attrezzi di una vecchia propaganda ideologica.
IL VERBO FATTO CARNE Coelum autem in Scripturis sanctis ideo firmamentum vocatur, quod sit cursu ... more IL VERBO FATTO CARNE Coelum autem in Scripturis sanctis ideo firmamentum vocatur, quod sit cursu siderum et ratis legibus fixisque firmatum Isidoro, Etymologiae, XIII, IV, De Coelo au plan de l'ontologie (scil: préexiste) le plan de l'étique Lévinas, Totalité et infini Il verbo essere condiziona lo sviluppo del pensiero occidentale-vi sono lingue nelle quali quel verbo non esiste-ma forse è vero anche il reciproco: il pensiero occidentale pone a proprio fondamento quel verbo-lo ha persino sostantivato nella propria metafisica-per articolare la "dimostrazione", stabilire la collocazione di X a partire da quella di Y (de-monstrare, de-ducere): creare un ordine, insomma, ancorché fondato sull'astrazione della grammatica. E gestirlo, esserne padrone. Il pensiero di "essere", anche come copula, implica infatti un substrato stabile e permanente di ciò che si dà nella propria mutevolezza, tende a mettere al riparo dalle prospettive nelle quali il reale si manifesta, cosicché la realtà, nella sua mutevolezza, viene sostituita dalla propria ipostasi nella rappresentazione che, per esser tale presuppone l'ipotesi dell'invariabilità. Implicito vi è dunque il rifiuto della realtà della vita, se non come apparenza del substrato nel proprio manifestarsi, cioè come inevitabile modo di apparire di ciò che è, cioè permane, ancorché necessariamente nascosto e attingibile soltanto nella rappresentazione; in questa rappresentazione il mutamento è dunque ipostatizzato come modo di manifestarsi di quell'immutevole substrato. Siamo quindi in presenza di un pensiero che è volontà di dominio sulla vita e sulle "cose", pensate in contrapposizione con il pensiero che le pensa nella rappresentazione: le pensa, "le" è complemento oggetto (infra). "Essere"-sostantivato o come copula-diventa quindi il fondamento metafisico di un reale "esistere": tutto ciò che si dà nella propria irriducibile realtà diviene oggetto di rappresentazione, "ridotto" e posto in un ordine ontologico grazie al postulato fantastico di un mondo che sta "dietro il mondo" (Nietzsche); viene "ordinato" e modellato nella rappresentazione del "soggetto" che "pensa". "Essere" diviene, duplicando il reale che viene traguardato nella propria rappresentazione, il fondamento logico e ontologico di ogni "esistere": sicché "esistere" (ek-sistemi) è costituirsi fuori di quel substrato immaginato e presupposto; da un Essere che a questo punto però s'identifica con il Nulla di una mera parola, di un verbo, abisso sottaciuto che inghiotte le fondamenta del pensiero occidentale. L'invenzione verbale diviene il fondamento oscuro-tautologico come quello del celebre Barone che usciva dalla palude tirandosi per i codino-del reale manifesto, che però presenta ora il vantaggio di partecipare di un ordine: l'ordine delle parole diviene l'ordine delle cose, parola e "cosa" si identificano come nel mitico linguaggio di Adamo. Straordinario è il caso di Isidoro che pretese di ordinare il mondo a partire dalle parole (nisi enim nomen scieris, cognitio reum perit: Etymologiae, I,VII, De nomine) In tal modo il pensiero tende indirettamente a stabilire il dominio del soggetto pensante sul reale: emblematico il caso di scissione del'Io di Cartesio, che ha necessità di "pensare" per avere coscienza di esistere, di esser-ci (cogito, ergo sum). Probabilmente Cartesio, per aver fame, doveva quindi pensare di aver fame, non avrebbe mai detto: exurio, ergo sum: e questo non vuol essere umorismo dozzinale o banalità gratuita, perché addita un non-detto: la riduzione del disordine della vita all'ordine del "pensiero", della vita vissuta alla vita pensata, ha una precisa valenza di classe, come vedremo in conclusione. Stabilire il dominio del pensiero sul reale significa disciplinare l'oggetto disturbante; disturbante precisamente perché ob-iactum, hypokeiménon, Gegenwurf, "gettato contro", con ciò ponendo un limite obbligato all'assolutezza del soggetto. L'oggetto non ricondotto all'ordine ontologico è l'ostacolo imprevisto che continuamente ridimensiona chi l'incontra; perciò deve divenire altro, non l'incircoscrivibile manifestazione di un inesauribile medesimo (con la maiuscola per le religioni); deve essere pensato affinché possa divenire "cosa" ed entrare a far parte del dominio stabilito nelle parole. Emerge l'ideologia. Le parole stesse, tuttavia, non possono procedere in disordine; anche loro, per stabilire un ordine (delle cose) debbono possedere un ordine: grammatica e sintassi; soltanto così la follia di Isidoro può tradursi in una sintassi del mondo. Ecco quindi nascere l'esigenza di una téchne che ne stabilisca l'uso corretto e ne bandisca ogni altro uso che della téchne non sia rispettoso. Nominare, "dar nome", diviene così attività professionale. Nell'uso corretto, alla parola corrisponde la cosa secondo l'ordine prefissato che però, ora, è anche ordine delle cose; perciò la rappresentazione del mondo (identificata con la sua realtà) può essere correttamente espressa soltanto nelle strutture di quella téchne. Qui emerge la logica del dominio come domino di classe, della herrschende Klasse. La persona comune, priva di particolari titoli o qualifiche (idiótês) è lo "ydiota illitteratus", così definito dagli eresiologi, e, in quanto tale, in quanto illetterato, non possiede la téchne che consente essa sola di articolare correttamente il ragionamento; nel caso specifico non può permettersi opinioni religiose che non avrebbero alcun fondamento. Soltanto la classe dei letterati lo può, può esprimere cioè la propria ideologia che diviene pensiero dominante, per non dire il solo possibile pensiero. Come conseguenza, il pensiero è tale in quanto possiede *Come riferimenti, si vedano, in Crisi dell'ideologia occidentale: La realtà non è come la descrive la fisica classica; Il difetto sta nel manico; Dao e Dio della Bibbia, ovvero: gli essenti e gli esistenti, gli eterni e i transeunti
In una Lectio brevis tenuta all'Accademia dei Lincei nel Marzo 2011 (La teoria economica dominant... more In una Lectio brevis tenuta all'Accademia dei Lincei nel Marzo 2011 (La teoria economica dominante e le teorie alternative, che si può trovare sul web in https://docente.unife.itpaolo.pini>view>) diceva Lunghini: "L'economia è una disciplina che non progredisce nel senso in cui progrediscono la fisica e la medicina, etc.". Lunghini è stato una persona di cultura, rifiutava la cogenza delle technichalities senza prima metterne in evidenza e in discussione il fondamento, perché affermava, saggiamente, che ogni "economia" dipende da una "filosofia"; in altre parole, non è ideologicamente neutrale. Per inciso: quanto sia rozza e contraddittoria, nella sua presuntuosità, la "filosofia" di Von Hayek (per non dire del suo più rude maestro Von Mises) credo di averlo mostrato a sufficienza nelle pp. 1440-1452 (Mises) e 1452-1470 (Hayek) della mia Storia di un altro occidente. Credo perciò sia lecito affermare che quelle parole non siano state pronunciate a caso, perché esse ricalcano deliberatamente quelle della Prefazione di Kant al suo Prolegomena zu jeder künftigen Metaphysik die als Wissenschaft wird auftreten können, nel quale il passeggiatore di Königsberg affermava (traduzione mia): "Sembra quasi ridicolo che, mentre ogni altra scienza progredisce incessantemente, in questa (scil.: la metafisica), che vuol essere la Sapienza stessa il cui oracolo ciascuno interroga, ci si rigiri continuamente su se stessi senza fare un passo avanti". Kant proseguiva quindi affermando che, perciò, ogni persona di talento deiderosa di costruirsi una carriera evitava di dedicarsi alla metafisica: esattamente il contrario di ciò che accade per l'economia, con prestigiose Università private, per lo più anglosassoni, pronte a conferire prestigiosi titoli accademici, possibile viatico a futuri Nobel. Non è tuttavia su questa differenza che intendo soffermarmi-chiunque ricordi l'equazione marxiana tra pensiero dominante e classe dominante può trarre facili conclusioni; m'interessa viceversa quella citazione che non credo inconscia, anzi, conoscendo il giudizio di Lunghini sulla scuola neoclassica la direi perfida. Il suo accostamento dell'economia alla metafisica nonostante la sua pretesa di presentarsi come "scienza" obliterando il proprio fondamento ideologico negli sviluppi algebrici, ricorda tanto la vicenda del suo fondatore, Genovesi, che divenne protoeconomista dopo una lunga carriera di metafisico. "Metafisica" è però lemma di uso controverso; può ricordare Aristotele ma anche contenere allusioni ironiche all'irrealtà; preferisco perciò parlare di patafisica, "scienza delle soluzioni immaginarie" (Jarry) come quelle che gli economisti mainstream si affannano a fornire per uscire dalla crisi del capitalismo. Infatti ci sono altri punti che Lunghini mette in evidenza, e che ci riconducono alle citate premesse "filosofiche" dell'economia neoclassica, non a caso consustanziali all'immaginario ideologico che fonda la società borghese al quale non sfugge, l'ho affermato più volte, la stessa contestazione marxiana. L'immaginario stesso che fonda l'ideologia occidentale. Significativo è perciò il paragone che egli introduce tra questa concezione dell'economia e la meccanica razionale del XIX secolo, vale a dire la fisica classica, della quale si può dire quel che ha detto Hübner di tutte le teorie scientifiche, cioè che esse, lungi dall'essere ideologicamente neutrali, sono condizionate dalla cultura dell'epoca. Quando Lunghini constata che nella distribuzione sociale non v'è armonia, ma conflitto; quando afferma che il processo economico vi è osservato in astratto, in particolare astratto dalla storia; egli mette in luce la presenza, a monte, di una cultura (una "filosofia") che è quella del Razionalismo post-illuminista. Quel che non dice però-ed è un vero peccato, perché consentirebbe di risalire davvero alle radici "filosofiche" dell'economia neoclassica-è che questa spontanea armonia degli eventi in una pretesa assenza di condizionamenti storici, che generò il laissez faire, è figlia della Ragione cosmica del Deismo che di quel Razionalismo fu espressione, eredità dello Stoicismo trasmessa tramite una teodicea malamente secolarizzata. È la pretesa razionalità della Storia che si rivela nel Progresso; è l'eredità del pensiero classico, che non per nulla definii "ideologia del dominio" e che pretende di giustificare lo stato di fatto (di conferirgli "giustezza"); di dargli "Ragione". Non è un caso che tutta la vicenda nasca nel mondo anglosassone in particolare, europeo in generale, del XVIII secolo, come rappresentazione ideologica dei fenomeni in atto. Questa astrazione dell'economia dalla realtà storica (sociale, culturale e dei rapporti che generano l'economia stessa) fa sì che il modello sia condizionato dal presupposto che "lo stato delle cose esistente continuerà indefinitamente", come afferma Lunghini in un'altra delle sue relazioni presentata all'Accademia dei Lincei (La teoria generale e i keynesiani, un'eredità giacente, sul medesimo sito). Ciò rappresenta una conferma di quanto sopra argomentato, perché corrisponde agli esiti della cultura sopra denunciata: la società borghese rappresenta il punto d'arrivo della storia. In altre parole: un pensiero nel quale è del tutto assente l'ipotetsi della crisi: ne abbiamo parlato più volte a proposito della crisi dell'ideologia occidentale (già a p. 1 in L'anno zero, ma più specificamente a p, 30 in Il progresso è l'oppio della storia; a p. 39 in Castelli di sabbia e alle pp. 222 e 223 in Il cane si morde la coda). Ciò significa-e questo è un tema sollevato più volte-che la crisi, precisamente perché esclusa dalle ipotesi, non è soltanto una crisi economica e sociale, ma anche, e in primo luogo, di una ideologia e soprattutto di una cultura: la cultura che fonda l'ideologia dell'Occidente, così come maturata dal XVIII-XIX secolo. In questa cultura, in caso di fallimento, si potrà evocare, al più, il "caso", implicitamente sottolineando ed esplicitamente ignorando che il "caso" altro non è, da sempre, se non la dichiarazione di bancarotta della Ragione. Di quella calcolante, di matrice illuminista, e di quella cosmica, di matrice deista. In questo secondo articolo citato, Lunghini esplora da par suo il fondamento "filosofico" della dottrina economica di Keynes ben al di là dei keynesiani dell'ultim'ora. Ciò che egli mette in evidenza è la negazione
World History e crisi dell'Occidente
IL COLONNELLO GABI SIBONI Una lunga intervista in due puntate sul quotidiano La Stampa (6 e 7 Feb... more IL COLONNELLO GABI SIBONI Una lunga intervista in due puntate sul quotidiano La Stampa (6 e 7 Febbraio 2024, intervistatrice Lucia Annunziata) ha fatto conoscere anche a noi ydioti illitterati la persona-soprattutto le "idee"-del colonnello Gabi Siboni, in servizio attivo come dirigente del Comando Meridionale dell'Idf, nonché specialista in varie dottrine relative alla Sicurezza Nazionale nell'Università di Tel Aviv. Metto le "idee" tra virgolette non per sottovalutarle, ovvero ironizzarle, ma perché già qualcuno notò che le idee non son altro che i fatti filtrati attraverso il cervello degli uomini, e come tali rivelano una prospettiva. Della sua prospettiva, verosimilmente in parte strettamente personale ma di certo maturata entro quella del gruppo, ceto, classe o popolo, cioè della "storia" alla quale il Colonnello appartiene, voglio dunque parlare; parlare di come alcuni fatti sono stati filtrati attraverso il suo cervello, direttamente o per la mediazione del collettivo. Il Colonnello esordisce dicendo cose molto giuste, quasi filosofiche ancorché cibo quotidiano per i moderni servizi di Intelligence: non si può capire una diversa cultura (lui dice "il nemico"-6 Febbraio, p.2, colonna 4) sul fondamento della propria logica. Per conseguenza i Palestinesi, per lui, non sono affatto irrazionali, sono semplicemente cattivi (ivi: "non esistono Palestinesi buoni") perché i loro valori-così li definisce-si compendiano in un "niente Ebrei" (ivi). Debbo dire che il Colonnello non ha torto; noto però che non si chiede il perché: il 1948, la Nakba, e chi fossero al tempo gli abitanti maggioritari della Palestina, di chi fosse quella terra, sembrano fatti non filtrati. A meno di non averli obliterati con la vecchia leggenda della Terra Promessa, cosa che non oso pensare per rispetto alla razionalità del Colonnello. A onor del vero e a conferma della razionalità del suo discorso, debbo dire infatti che lui non ne parla. Dell'invasione di coloni in Cisgiordania neppure parla, e non posso dire se si tratti di fatti non pervenuti al suo filtro oppure considerati da lui tanto ovvi da non essere necessario parlarne. Questo è un punto che mi preoccupa perché contraddice le stesse premesse del Colonnello che sosteneva l'esigenza di immedesimarsi nella logica degli altri; a meno che questa esigenza non fosse pensata nell'ambito di una "ragione calcolante" come arma per sconfiggerli (ciò che per un militare è anche comprensibile). In tal caso si tratterebbe però di un uso strumentale della razionalità che perde il proprio carisma per trasformarsi in arma contundente; il sospetto è forte, stante il suo giudizio sui buoni e sui cattivi, giudizio etico che rientra perciò nei giudizi di valore, legati quindi a una specifica cultura e alle sue prospettive, non necessarimente cogenti erga omnes. A meno di non ricadere nella prospettiva occidentale di considerare se stessi il culmine della "civiltà", quindi un Assoluto cui gli "altri" debbono adeguarsi, giustificando così la semplificazione (non esistono Palestinesi buoni) del nostro Colonnello. Per dirla tutta però, tra i "valori" dell'Occidente ci sarebbe anche la statua della Democrazia, e qui sorprende il rimprovero del Colonnello a Bush che "portò Israele a lasciare che Hamas partecipasse alle elezioni" (ivi) generando "l'appoggio che ha raccolto Hamas e che raccoglie ancora ora" (ivi). La logica dei militari, si sa, è sbrigativa, ma qui mi trovo dinnanzi a percorsi del pensiero difficili a sdipanare. Infatti, come abbiamo visto, considerare cattivi i Palestinesi è possibile soltanto applicando loro i giudizi di valore occidentali, ma il Colonnello condanna il valore universale-occidentale-della democrazia perché a suo giudizio ha dato, con i Palestinesi, pessimi risultati (la vittoria di Hamas). Una simile contorsione sembra potersi sciogliere qualora si considerino i Palestinesi inadeguati agli usi della civiltà, le cui regole, quindi, sarebbero loro inapplicabili. Si tratterebbe di tornare alla distinzione tra "civiltà" e "selvaggi", categorie notoriamente applicate nel colonialismo occidentale. Il Colonnello non lo dice, ma dovrebbe liberarci dal sospetto. Dice ancora il Colonnello: i Palestinesi "vogliono liberarsi di noi" (6 Febbraio, pag. 3, col. 1). Davvero non si può dargli torto, salvo chiedersi perché. Di certo i rapporti non erano così ostili nell'anno del Signore 638, quando i Musulmani entrarono a Gerusalemme: allora i cattivi rapporti erano infatti con i Cristiani, sconfitti dal nascente Islam. Qualcosa dev'essere intervenuto, ma il Colonnello non dice nulla in merito, è un militare, non uno storico. Non è neppure un Rabbino, quindi si guarda bene dal discettare sulla storiella della Terra Promessa; o forse usa prudenza perché ha letto qualcosa della Bibelforschung. La strana conclusione che se ne trae è che la razionalità del suo discorso zoppichi per motivi esogeni, ma non sarebbe corretto fare un processo alle intenzioni. Le intenzioni esplicitate sono tuttavia queste: "dobbiamo stare a Gaza 50 anni" (ivi, col. 2) e inseguire Hamas "sino alla fine del tempo" (ivi); qui però davvero il suo discorso assume gli accenti biblici di un'attesa millenaristica e assiologica, forse profetica, ma che di certo ha poco a che vedere con la razionalità dell'esordio: a meno che la razionalità non risieda in un trionfo della tecnica sulla presenza di un popolo. Il Colonnello non dice questo, ma dovrebbe liberarci dal sospetto. Lo dovrebbe anche perché il Colonnello esprime poi anche alcune personali considerazioni sulla possibile risoluzione del conflitto, cioè sull'ipotetico documento sottoscritto dai belligeranti con il quale, di solito, ogni conflitto termina, ma che ha il difetto-non esplicitato ma incombente-di legalizzare con ciò anche la parte sconfitta. Gli U.S.A., nota il Colonnello, "sono disposti a che Hamas sopravviva" (7 Febbraio, p. 7, col. 2); quanto però alla propria opinione, dopo aver correttamente dichiarato la propria incompetenza su eventuali decisioni spettanti ad altri, si dichiara disponibile alla sopravvivenza dei capi di Hamas, purché "portati in altri Paesi non confinanti con Israele" (ivi). Qui però mi permetto di mettere in evidenza un paio di contraddizioni logiche. La prima riguarda la richiamata valutazione della democrazia, che si ripresenta con maggiore evidenza: in fondo, Hamas si è affermato a Gaza "democraticamente". La seconda è che, nonostante l'esilio dei capi che dovrebbe rendere Hamas politicamente impotente, il Colonnello aggiunge che "non gli daremo (scil.: ai capi)
L'occidente in crisi si specchia nella caduta dell'Impero Romano
Wallestein è stato uno dei più attenti osservatori della crisi in atto dali anni '70, una crisi s... more Wallestein è stato uno dei più attenti osservatori della crisi in atto dali anni '70, una crisi sulla cui definizione sono costretto a sorvolare perché, come notavo in Rileggere Arrighi nel 2022, mi sembra difficile stabilire, in mancanza di Profeti, se si tratti di una crisi dell'egemonia U.S.A., di una crisi del capitalismo toutcourt, ovvero di una crisi dell'attuale capitalismo produttivo, che attrae ancora, anche se non più come prima, il capitale finanziario. Wallerstein (si veda World System Analysis. An Introduction, Durham and London, Duke Un. Press, 2004) propendeva per una crisi del capitalismo tout-court; e la sua definizione di "crisi", sulla quale concordo pienamente, a p. 76, è: "le crisi sono quelle difficoltà che non possono essere risolte nel quadro strutturale del sistema, ma possono essere risolte soltanto uscendo da, o andando oltre, il sistema che presenta delle difficoltà". In parole povere: crisi del capitalismo sta a significare una situazione della quale si può venire a capo soltanto abbandonando il capitalismo. "Crisi del capitalismo" senza aggettivi, significa dunque che qualcosa nell'attuale congiuntura storica, sociale, economica, impone la fine di una produzione pensata per la logica del capitale; la quale logica-è una banalità, non una scoperta-non può esssere altra se non il proprio infinito accrescimento.
Un articolo molto ben ragionato e documentato, opera del Direttore, apre l'ultimo numero (Luglio ... more Un articolo molto ben ragionato e documentato, opera del Direttore, apre l'ultimo numero (Luglio 2023) di una rivista di geopolitica. Esaminando gli interessi in gioco nella vicenda ucraina, i fatti noti, le informazioni note o riservate in suo possesso; basandosi anche sulla conoscenza degli umori degli establishments e procedendo con pacato rigore, l'Autore trae un'elaborata previsione sugli sviluppi del caso e sulla possibile, certamente ipotetica ma molto ragionevole, sua conclusione. La conclusione ipotizzata e adeguatamente argomentata, è la seguente. Premesso che la sconfitta della Russia potrebbe causarne la disgregazione previa guerra civile, della quale la marcia della Wagner fece temere l'inizio; e che la disgregazione si tradurrebbe in un'espansione dell'impero e dell'influenza mondiale della Cina-il vero incubo degli U.S.A.-è essenziale, per gli U.S.A., evitare, prevenendolo, un simile esito. Per inciso: altri commentatori avevano già sottolineato una singolare ambiguità di posizionamento degli U.S.A. in occasione di quella marcia: diciamo pure, una certa comprensione per Mosca, quantomeno freddezza con Kyiv. Si preannuncia dunque necessario, secondo l'analisi, trovare una via di accordo che tenga in piedi la traballante eredità degli Zar per pilotare uno sperato, artificioso ritorno allo status quo ante: necessario ma, mi si consenta, alquanto irrealistico dietro la sorridente facciata diplomatica, perché ciò che accadde è accaduto e nulla potrebbe più essere davvero come prima; sarebbe dunque un tentativo di esorcizzare con un rattoppo la rottura di un vecchio ordine nella speranza di tornare a giocare i vecchi giochi. L'articolo esamina comunque tutta la vicenda Wagner alla luce dei timori degli U.S.A. e della loro necessità di non turbare assetti la cui rottura avverrebbe ad esclusivo vantaggio cinese; e della loro convenienza a salvaguardare la stabilità della Russia e di Putin (almeno per ora) e a calmare gli ardori ucraini, rinviando la consegna dei necessari armamenti (i chiacchierati F16) e l'ufficializzazione dello stato di fatto "occidentale" dell'Ukraina. L'obbiettivo finale sarebbe quello di costringere le due parti alla mediazione. Questa l'analisi, e, nei limiti di ogni previsione (che è sempre al netto degli imprevisti, cioè di ciò che non si è potuto o saputo prevedere) l'ipotesi di soluzione finale. Se questo è davvero l'obbiettivo degli U.S.A. (io non ho elementi per giudicare, relata refero) c'è di che preoccuparsi: o è mancanza di lungimiranza politica, o è espressione di grave difficoltà di posizionamento e di conseguente scelta per il tirare a campare; oppure, peggio, è nascondere la testa sotto la sabbia per negare l'esistenza di un processo in corso-il logoramento del vecchio assetto-contro il quale è illusorio difendersi mettendovi una toppa: peggio la toppa del buco. Già in premessa non si vede infatti la possibilità logica di una mediazione; per conseguenza, ogni possibile mediazione potrebbe avvenire soltanto come presa d'atto di una cogente force majeure fatta rilevare all'Ukraina dal cosiddetto Occidente. All'Ukraina, più che alla Russia, perché lasciare quest'ultima a bocca asciutta riproporrebbe lo scenario temuto: crisi interna e possibile implosione; dunque si tratterebbe di ipotizzare sacrifici territoriali dell'Ukraina dopo tanta tragedia, in cambio di promesse economiche e garanzie politiche varie. Nulla da obbiettare dal punto di vista della Realpolitik cara ai geopolitici e ai politici mediocri, che traggono le proprie conclusioni dall'analisi ragionata della "realtà"; peccato che la Realpolitik non sia mai realista, perché guarda, sì, alla realtà (immediata) ma non alle conseguenze della realtà, che vanno oltre i "fatti" e sono destinate a generare altre, impreviste realtà: impreviste ma non imprevedibili per sguardi un po' meno miopi capaci di intuire anche l'immateriale che della "realtà" è parte, pur se ignorato o sottovalutato dai "realisti". Una simile conclusione azzererebbe infatti, e non per la prima volta, tutti i proclami ideali sui "valori" del cosiddetto Occidente, riducendoli a pura chiacchera: in altre parole, verrebbe a configurare l'ennesima crisi dell'ideologia occidentale dopo l'ultima, vergognosa, vicenda afghana (per non parlare dell'Iraq e dell'Iran). Gli U.S.A. hanno sempre iniziato le proprie guerre proclamando una cosa, e le hanno concluse facendone un'altra: il mondo sembra dimenticare, fa parte delle convenienze, ma resta un rumore di fondo che si traduce in dubbio, se non anche in sfiducia. Secondo gli "esperti", al di là dei proclami hanno contrastato la Russia essenzialmente per togliere alla Cina cattive idee su Taiwan, ma non ne vogliono la crisi per non rendere più forte la Cina. Agli U.S.A., a ciò che proclamano, credono ormai in pochi; se il nostro analista ha visto giusto (come sembra anche dall'eco britannica a his master's voice) dopo quest'ultima giravolta a crederli sarebbero ancor meno: ma essere credibili è essenziale per essere egemoni. Dubbi e sfiducia non riguardano la politica U.S.A, che avrà certamente le proprie buone ragioni allorché farà ciò che farà e che il nostro analista di geopolitica ritiene di prevedere, ma la sua utilità per altri che è ciò che la rende egemone: perché non tutti i Paesi europei potrebbero scorgervi le convenienze materiali o ideologiche-con le prime a premessa delle seconde e le seconde a sostegno delle prime-che strutturano un sistema coeso attorno a un centro. Detto in parole più semplici e dirette: saremmo in presenza di una crisi dell'ideologia di "Occidente" che ha il proprio centro negli U.S.A. Se l'ideologia dei "valori" si riducesse a chiacchiera si potrebbe assistere-col tempo, certamente-al ridisegnarsi della periferia europea in direzione di un nuovo "centro", secondo lo schema di Arrighi. Ad esempio, l'Europa orientale e baltica ha un'esperienza storica della Russia che si traduce nel sogno della sua disintegrazione; altri Paesi d'Europa non considerano un'idea brillante la politica anti-cinese che, pure, è essenziale agli U.S.A. la cui area egemonica si è ridimensionata dal tempo nel quale fu immaginata planetaria.
Addì 31 Gennaio dell'anno di Grazia 2023, il giornalone dei benpensanti sembrò molto preoccupato ... more Addì 31 Gennaio dell'anno di Grazia 2023, il giornalone dei benpensanti sembrò molto preoccupato (non saprei dire se per l'Europa o per la Chiesa) nel timore che la Chiesa stesse perdendo l'Europa (letterale). Il Cristianesimo non può permetterselo, diceva il Professore chiamato a giudicare del caso; affermando poi, pensoso, che dopo la seconda Guerra mondiale la Chiesa ha cessato di considerare l'Europa come centro della Storia mondiale. Se mi è consentito sussurrare un suggerimento vorrei aggiungere: non soltanto la Chiesa. D'altronde, quando l'Europa e la sua Chiesa si sentirono al centro della Storia mondiale (di una Storia eurocentrica e con la maiuscola, che ha perso credito da tempo, tra gli storici) e perciò di una missione "civilizzatrice" ereditata dall'Impero Romano del quale l'Europa si considerava continuazione, ne nacquero vicende non precisamente edificanti come la colonizzazione delle Americhe. Perdere questa Europa sembra dunque sempre meglio che trovarla, come recita un vecchio adagio. Il fatto è che, dice il Professore, la Chiesa è divenuta terzomondista: d'accordo, ma che c'è di strano? Il Cristianesimo non nacque di certo come voce della herrschende Klasse e si è sempre considerato-come l'Islam, che al Professore dispiace-religione universalistica. Se mai, il fraintendimento sembra ubicarsi altrove: è nel fatto che, da quando la Chiesa si istituzionalizzò nell'Impero Romano, ci fu, da parte sua, la propensione a universalizzare piuttosto una cultura che, ereditata com'era dalla società classica, era tutt'altra cosa dalla propria originaria. La società classica era pagana e anche l'Europa secolarizzata di oggi flirta da un paio di secoli con uno strisciante neopaganesimo. E poi, il Cristianesimo, all'anagrafe, risulta esser stato un movimento nato in un Medio Oriente non precisamente amante dell'Impero: nell'Impero si fissò soltanto l'Istituzione, ma il Cristianesimo fu una cosa un po' più complessa e meno definibile nel suo ampio spettro già sin dall'inizio pieno di controversie; lo testimoniano le infinite "altre opinioni"-in gergo tecnico, eterodossie-che lo afflissero sin da quando volle legittimarsi in versione unica. Eterodossie che contestavano l'Istituzione perché portavano in sé la memoria delle origini: un millenarismo, un'attesa di giustizia che fomentava turbolenze nel mondo "eukykléos" della società classica. Un'attesa escatologica ed assiologica sopravvissuta così a lungo fuori dall'Europa-dove le sue risorgenze vennero messe a tacere per secoli-da partorire poi, dall'originrario Giudeocristinesimo, quell'Islam che segnò la fine del Tardo Antico. E che un Professore non dovrebbe analizzare come una Fallaci qualunque. Certo, ci viene detto, in una prospettiva universalistica l'Europa scompare: ma questa fu la prospettiva iniziale del Cristianesimo, tant'è che Ippolito, nel suo commentario a Daniele, considerava l'universalismo imperiale romano (del quale fu erede l'Europa) una parodia dell'universalismo cristiano. Ippolito, come noto, non ebbe molta fortuna contro l'erigenda Istituzione, che mirava piuttosto ad accomodarsi con le vicende ancillari dell'entourage imperiale: e, come Istituzione, non aveva torto. Anche l'Islam rivoluzionario dovette adattarsi nel nascente potere Omeyyade, poi 'Abbȃside, dal quale però nacque il suo successo istituzionale: e anche le sue infinite "eterodossie". In una logica cristiana è dunque, se mai, l'Europa, che non può pretendersi universale; perché mai un Cristiano, che s'identifica con Cristo, dovrebbe propagandare l'Europa? Cristo non era mica europeo! non soltanto per l'anagrafe ma anche perché, come Figlio di Dio, la Sua patria era un po' più vasta, il Suo regno non di questo mondo. Secondo il Professore dunque, dopo il Wojtyla antisovietico e ultraeuropeo che rappresentò soltanto una breve parentesi; e dopo Ratzinger che non riuscì a cambiare l'orientamento di cattolici ed ecclesiastici, Papa Bergoglio ha accentuato la scelta conciliare con una predicazione contro le diseguaglianze e l'oppressione (ohibò: e di che cosa si occupava Gesù?) e nutre diffidenza verso l'Occidente. Dimentichiamo per un attimo la religione, pensiamo all'Istituzione che, nella sua natura tutta terrena, deve necessariamente pensare alla propria sopravvivenza, in assenza della quale diverrebbe difficile proclamare il Messaggio. Santa Madre Chiesa, nella sua bimillenaria sapienza, deve aver probabilmente fiutato qualcosa: e il suo fiuto politico è sempre stato ottimo. Così come scelse la Roma imperiale per costituirsi ϰαϑ'ὄλον, così ora sta forse pensando che l'Occidente (dell'Europa, neanche parlarne) come luogo ideologico del centro, non rappresenti più un buon investimento per il futuro. L'ideologia di "Occidente" è sempre meno credibile, non è più buona compagna di viaggio, per affrontare nuovi/vecchi percorsi è meglio accompagnarsi a chi ha gambe migliori. Per un'Istituzione chiamata alla rappresentanza legale di un eterno Vero il cui regno è altrove, ogni sede è transitoria, secondo le circostanze e le opportunità: il Regno è eterno, la rappresentanza un po' meno, ma fu comunque creata per durare quanto il mondo; l'Europa è transitoria. Un cambiamento di sede può preoccupare l'Europa che perde un prestigioso inquilino, non la Chiesa. Il risultato è che il Professore nota nella Chiesa-cristiana, cattolica-non soltanto una certa diffidenza verso l'Occidente, ma persino una certa indulgenza verso la Cina (che cosa intende? un Cinese non può essere un buon cristiano? e gli europei lo sono forse ancora? senza contare le dimensioni del bacino d'utenza!). Tutto ciò lo scandalizza perché, pur considerando che l'universalismo è prerogativa cristiana, ritiene che esso venga alla Chiesa dalla cultura pre-cristiana dell'Europa (voleva dire dalla cultura classica? greca? romana? o che altro? l'Europa, a quel tempo, era soltanto una giovenca). Cristianesimo ed Europa avevano così convissuto per secoli plasmando reciprocamente le proprie identità: come può ora la Chiesa fare a meno dell'Europa? E poi, agli europei la prospettiva "irenico-universalista" appare sempre più irreale.
qualcosa sta cambiando, nel mondo
Mi è giunto, tramite Academia.edu, un interessante articolo denso di equazioni e diagrammi, a mag... more Mi è giunto, tramite Academia.edu, un interessante articolo denso di equazioni e diagrammi, a maggior gloria della scuola neoclassica.* L'articolo, datato ma non per questo meno significativo ai miei scopi, espone in modo convincente le ragioni della politica economica italiana tra il 1945 e il 2015 in rapporto ai mutevoli vincoli esterni ai quali fu sottoposta nel periodo, sino al malpasso dei vincoli attuali-quelli imposti dai trattati europei. "Malpasso" perché non è un mistero che le norme vigenti sono state imposte dalla Germania, alla quale giovano, mentre sono deleterie per l'Italia; ma l'articolo non si occupa tanto di questo-anche se la realtà emerge dallo sfondo-quanto, piuttosto, di enucleare le possibili vie d'uscita che consentirebbero all'Italia di rispettare le regole realizzando al tempo stesso quel ragionevole tasso di sviluppo che i vincoli assunti le negano. Ora, le possibili soluzioni algebriche al problema che, come affermano gli Autori a p. 16, "-presto o tardi-deve essere affrontato", sono tre, delle quali trovo interessante la prima (pp. 15-16). La espongo per esteso riprendendo il testo, perché rappresenta uno specchio dei tempi (culturalmente palando): si potrebbero "incentivare" i comportamenti di consumo e di investimento, remunerando ad esempio maggiormente gli individui/i percettori di reddito con più elevata propensione al consumo e all'investimento e "penalizzare" invece gli individui/i percettori di reddito con limitata propensione al consumo e all'investimento, etc.
Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'indagine... more Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'indagine "relativamente spassionata" e un passato personale che risale a monte della nostra stessa infanzia-risale anche al familiare più anziano che di quell'infanzia fece parte apportandovi le proprie tradizioni ancora vive. In questo periodo la memoria degli eventi è vissuta in una commistione inestricabile di vicende pubbliche e private che si condizionano reciprocamente. Hobsbawn definisce "crepuscolare" questo spazio temporale, a causa della percezione oscura che lo caratterizza: la natura "storica" degli eventi in esso accaduti è quindi la più difficile da decifrare, anche per lo storico che non può prescindere dal proprio Erlebnis. Quanto afferma Hobsbawn è incontestabile, anche se avrei qualcosa da dire sulla pretesa asetticità-sinonimo per molti di "oggettività"della storia, sulla possibilità, cioè, di rivolgersi a qualunque storia, anche a quella degli Assiri, senza un proprio Erlebnis e una valutazione-personale-della prospettiva di chi scrisse i documenti che interpretiamo: ma non è questo che qui m'interessa. La puntualizzazione serve comunque ad Hobsbawn per sottolineare che il mondo nel quale viviamo (Hobsbawn scrive nel 1987) è stato fatto da uomini e donne vissuti nelle due generazioni alle nostre spalle; nella fattispecie, parlando del XX secolo, da uomini e donne nati nell'Età degli Imperi, cioè tra il 1875 e il 1914: Hobsbawn cita al riguardo le date di nascita di Lenin, Stalin, F.
Un articolo di Brett Stephens sul New York Times è apparso in traduzione italiana sul sito web de... more Un articolo di Brett Stephens sul New York Times è apparso in traduzione italiana sul sito web de "Il Foglio" del 31 Marzo 2022 (trad. E. Cicchetti). In esso si avanza un sospetto: che il vero scopo della guerra di Putin all'Ucraina sia molto più serio-e, al tempo stesso, banale-del fumo etico-ideologico gettato sugli occhi del mondo e dei propri villici, tutti "Dio, Patria e Famiglia". Lo scopo sarebbe quello assai terreno di impadronirsi di enormi riserve di idrocarburi liquidi e gassosi esistenti nel sottosuolo dell'Ucraina orientale e del suo offshore, sottraendone l'accesso all'occidente europeo. Ci sarebbero poi altri vantaggi marginali per la Santa Madre Russia, ma di questi non sembra interessante parlare, sia perché mere ipotesi del Sig. Stephens, sia perché costituirebbero tutt'al più la ciliegina, la torta essendo gli idrocarburi sottratti all'Occidente. Putin non sarebbe quindi in preda ai fantasmi, sarebbe una vera e propria volpe. L'articolo è molto più inquietante di quanto già non sembri perché, se l'articolo cogliesse nel vero, segnalerebbe un ulteriore arretramento dell'Occidente, che già si vede superato sul piano economico dalla Cina, sfidato nell'egemonia sul Pacifico, malvisto e in parte già soppiantato da Cina e Russia in Africa, nel Medio Oriente e in Sud America, dove paga per il colonialismo e per i propri errori, quelli storici e quelli più recenti (primo tra tutti quello colossale con l'Iran). Il suo capitalismo, che per foia di profitto aveva delocalizzato la produzione in Asia dando il via alla crescita della Cina come potenza economica, potrebbe trovarsi costretto alla retromarcia reimportando la produzione, impresa praticamente impossibile a meno di non affrontare crisi sistemiche e sociali. Il suo tenore di vita, il suo benessere, che si basano sugli attuali rapporti di forze, potrebbero diventare un ricordo da raccontare a future generazioni impoverite. Le tensioni generate dalle diseguaglianze create dal liberismo, potrebbero esplodere con effetti imprevedibili; del resto, già ora costituiscono un dubbio interno sulla bontà del modello e la convenienza a difenderlo: di qui una sua non dichiarata ma palese debolezza. In alternativa, un appeasement dell'Europa, dei suoi mercanti e della sua finanza, con la Russia (e con la Cina)-sempreché gli U.S.A. accettassero di subirlo: a loro una guerra in Europa può far comodo-costituirebbe l'inizio dell'implosione dell'Occidente come storicamente lo conosciamo. Soprattutto, le esigenze di una crisi economica toglierebbero ogni giustificazione ideologica al mantenimento del suo attuale modello sociale e, poiché il centro dell'Occidente e del suo modello è negli U.S.A., forte potrebbe essere la tentazione U.S.A. di affidare il mantenimento dello status quo alla loro supremazia militare, che ancora c'è ma che, di questo passo, potrebbe venir meno. Un Occidente messo alle corde potrebbe essere tentato di trovare il pretesto per una terza Guerra mondiale, magari in nome della "libertà"; ma la crisi dell'Occidente è la crisi di un mondo che, al di là dei diversi percorsi degli Stati Uniti e dell'Europa (quale? quante "Europe" ci sono?) ha pensato in termini di profitti a breve termine, quelli della sua finanza; ha pensato il presente ignorando il futuro. Un presente modellato sulla vista corta di quei mercanti che, come notava Ferguson, al di là dei propri particolari commerci non capiscono nulla del mondo. Chi, viceversa, sembrò nutrire grande fiducia, e ancor più grandi speranze, nel mondo dei mercanti, fu Kant, allorché nel 1795* diede alla luce il suo Zum ewigen Frieden, opera celebre e celebrata per la sua nobile utopia. Per verità, qualche dubbio potrebbe sorgere dinnanzi all'ipotesi di affidare alla Ragione (in questo caso una Ragione inerente alla Natura) la realizzazione dell'Utopia, anche perché nessuna Ragione ha mai convinto qualcuno a far qualcosa contro la propria volontà e le proprie passioni (Hume docet); ed è anche noto che chi ha voluto fare la guerra ha sempre avuto dalla propria parte molte "buone" ragioni. Kant, verosimilmente fidando sulla natura calcolante della Ragione illuminista, e identificando quindi il calcolo con la ricerca dell'utile (la logica di Kant era notoriamente ferrea) riteneva perciò il commercio portatore di una Ragione così cogente da por fine alle guerre: "Auf dieser Art garantiert die Natur, durch den Mechanism in den menschlchen Neigungen selbst, den ewigen Frieden" (corsivi miei). La premessa a tutto ciò è che il commercio internazionale unisce i popoli contro la guerra in virtù dell'utile reciproco: "Es ist der Handelgeist der mit dem Kriege nicht zusammen bestehen kann".** La frase è rimasta celebre; è rimasta anche una frase. Sembra infatti che lo spirito dei commerci abbia avuto un certo ruolo nel preparare lo scenario che portò alla prima Guerra mondiale, della quale la seconda fu soltanto la continuazione e la conclusione; quanto alla globalizzazione attuale, le sue conseguenze non sembrano annunciare un futuro sereno. Il mercato non è innocente, lasciato libero a se stesso non produce un utile "reciproco" ma, attraverso la necessità, accentua le diseguaglianze. L'utile dell'uno nasce dalla necessità dell'altro: il "libero mercato" è la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Non è vero ciò che diceva Kant, che la Natura garantisce la pace eterna grazie al meccanismo delle inclinazioni umane: quelle verso l'utile derivante dai commerci non sono le sole inclinazioni dell'umanità; non c'è una Ragione calcolante immanente alla Natura e i calcoli umani tengono conto di molti fattori, non soltanto del registro della partita doppia. Tutt'al più può esserci, nella storia, il solo luogo nel quale vive l'uomo, non nella metafisica "Natura", l'uso della ragionevolezza.
La tragedia scatenata dall'invasione russa dell'Ucraina ha sollevato un quasi unanime riflesso di... more La tragedia scatenata dall'invasione russa dell'Ucraina ha sollevato un quasi unanime riflesso di condanna tra noi poveri ydioti illitterati. Non così tra i Professori, che hanno profondamente argomentato sia per illustrarci l'inevitabile conseguenzialità dell'atto ad una situazione geopolitica che s'era creata, sia per ricordarci che s'era fatto altrettanto altrove dai Paesi stessi che oggi moraleggiano. Benché in quest'ultimo argomento si debba rilevare una piccola distrazione logica, perché usarlo per giustificare la Russia in Ucraina significa giustificare indirettamente e involontariamente anche altre invasioni sul fronte opposto, i fatti addotti sono inoppugnabili-i Professori non parlano mai se non documentati. Una cosa tuttavia colpisce: si cercano le cause di un gesto per sviluppare un'argomentazione razionale che ne spieghi le origini, non ci si sofferma a sufficienza sulla natura del gesto; l'apparato logico-deduttivo oblitera il giudizio etico, lo ius, la norma che è a monte di qualsiasi campo argomentativo, lo delimita: delimita l'ambito del lecito e dell'illecito. C'è dunque qualcosa nel loro argomentare che non sollecita tanto una critica di merito quanto, piuttosto, di metodo. Premesso che il fenomeno non si è verificato soltanto in Italia, riguarda molta intellighentzia occidentale; ma che io mi fermo al solo caso italiano e a qualche modesto esempio; riducendo il dibattito ai soli punti di stretto interesse per una critica di metodo, noterò questo. Una Professoressa di filosofia ha manifestato il proprio disappunto per il frastuono di un pensiero volgare che impedisce l'ascolto del pensiero di chi pensa in profondità; sul medesimo versante un Professore di sociologia ha evocato le differenze tra pensiero e pensiero, sottolineando che soltanto l'Università insegna a ragionare. Un notissimo storico dell'antichità (e non soltanto) fedele alla propria acribia, ha puntualizzato i fatti-indubbi-che hanno portato all'aggressione, implicitamente considerata, quindi, motivata (post hoc, ergo propter hoc). Un fisico-matematico di fama mondiale ha ignorato (a quel che ho letto) il senso comune che dovrebbe restare a monte di qualunque argomentazione, sostenendo che non si debbono in alcun modo aiutare gli ucraini a resistere……per il loro stesso bene-come se gli ucraini fossero degli sprovveduti cui va spiegato che cosa debbano volere; ha poi avanzato la singolare proposta di ospitare i disertori di entrambe le parti in lotta. Proposta singolare per un logico, quale è necessariamente un fisico-matematico, perché in Ucraina sembra che non vi siano disertori, e portar via eventuali disertori dalla Russia significherebbe fare un favore all'aggressore. In ogni caso, porre sul medesimo piano aggressore e aggredito, ciò che ci riporta ai casi si di cui sopra. In tutti i casi la razionalità dell'argomentare appare fine a se stessa, cioè contemporaneamente mezzo e fine; un aggirare il reale, cioè il fatto, il suo esser tale indipendentemente da ogni contestualizzazione, per non dire esorcismo. Certamente un "fatto" è di per sé un sacco vuoto che da solo non sta in piedi-come notava Pirandello; ma, curiosamente, a renderlo tale sembra sia precisamente la strumentalizzazione della Ragione che vorrebbe riempirlo di contenuti, i propri. I contenuti della Ragione sono parole organizzate nelle regole della sintassi e della grammatica che ne certificano la logica; sono dunque mere strutture che di per sé possono accogliere tutto, anche il contrario, come ben mostrarono i razionalissimi Scettici. Può sembrare un paradosso, ma non lo è, che sia precisamente la Ragione a lasciar vuoto quel sacco; da qui la critica di metodo; e insisto su questo corsivo per ribadire che la critica non è rivolta agli argomenti che non contesto (ad rem) o alle persone che non ho nominato (ad hominem) ma, ripeto, al metodo. Il grande limite della Ragione è che il suo fondamento (arché)-come notava Aristotele in Eth. Eud., 1248a, 27-28-non può cercarsi nella Ragione stessa, ma in qualcosa che le sta a monte; tant'è che, come lui stesso aveva spiegato in Met., 1006a, 6-9, il non saper distinguere ciò che dev'essere dimostrato da ciò che non lo deve perché non lo si può, è frutto della mancanza di una corretta educazione (apaideusía). Quanto ai ragionamenti, essi non rendono di per sé onesto chi li pronuncia (Eth. Nic., 1179b, 4-5) perché gli uomini obbediscono a comportamenti in loro radicati (ivi, 17-18) sicché la nostra verità si legge soltanto nelle nostre concrete scelte di vita (ivi, 1179a, 18-20). Questo limite fu marcato in modo più preciso da Hunayn ibn Ishâq (famoso medico arabo cristiano, padre dell'ancor più famoso traduttore Ishâq ibn Hunayn). Come noto, i primi Califfi ‛Abbâsidi alle prese con un impero multietnico e mutireligioso, amavano far tenere dibattiti tra i sapienti delle varie religioni affinché, in base alla logica, si stabilisse quale religione fosse quella "vera". Ora, ciò che contestò Hunayn fu la possibilità e il senso stesso di un tale dibattito, perché in ciascuno di noi è presente, per tradizione ricevuta, l'assenso ad una determinata dottrina, che costituisce a sua volta l'a-priori di ogni possibile ragionamento, rendendo perciò strumentale l'uso della Ragione in tali dibattiti. A prescindere dalla specificità religiosa cui si riferiva Hunayn, c'è comunque in noi un irriducibile non-detto (e anche non dicibile, perché costitutivo del nostro Erlebnis; tant'è che Giacomo, in Lettere, 2, 18, diceva: con le mie opere-non con le parole-ti mostrerò la mia fede) un non-detto che rimane a fondamento di ogni nostra esposizione razionalizzata, nella quale la Ragione diviene strumento (la ragione senza la maiuscola è altro, è ratio, rapporto, capacità di accedere empaticamente all'altrui Erlebnis: è ragionevolezza, è apertura a un campo semantico che eccede la sintassi). Se, nel merito, si deve concedere che il mondo tutto, sia nei rapporti individuali che in quelli tra gli Stati, è irrimedibilmente conflittuale, e che perciò i conflitti nascono sempre per qualche "buona" ragione (anche il lupo di Fedro pensava di averne di sue) si deve pur sempre ricordare che per questo esiste il Diritto. Il quale Diritto altro non è se non mantenimento della conflittualità all'interno di regole. Stabilire delle regole significa:
Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'indagine... more Hobsbawn introduce una distinzione tra storia e memoria, cioè tra un passato aperto a un'indagine "relativamente spassionata" e un passato personale che risale a monte della nostra stessa infanzia-risale anche al familiare più anziano che di quell'infanzia fece parte apportandovi le proprie tradizioni ancora vive. In questo periodo la memoria degli eventi è vissuta in una commistione inestricabile di vicende pubbliche e private che si condizionano reciprocamente. Hobsbawn definisce "crepuscolare" questo spazio temporale, a causa della percezione oscura che lo caratterizza: la natura "storica" degli eventi in esso accaduti è quindi la più difficile da decifrare, anche per lo storico che non può prescindere dal proprio Erlebnis. Quanto afferma Hobsbawn è incontestabile, anche se avrei qualcosa da dire sulla pretesa asetticità-sinonimo per molti di "oggettività"della storia, sulla possibilità, cioè, di rivolgersi a qualunque storia, anche a quella degli Assiri, senza un proprio Erlebnis e una valutazione-personale-della prospettiva di chi scrisse i documenti che interpretiamo: ma non è questo che qui m'interessa. La puntualizzazione serve comunque ad Hobsbawn per sottolineare che il mondo nel quale viviamo (Hobsbawn scrive nel 1987) è stato fatto da uomini e donne vissuti nelle due generazioni alle nostre spalle; nella fattispecie, parlando del XX secolo, da uomini e donne nati nell'Età degli Imperi, cioè tra il 1875 e il 1914: Hobsbawn cita al riguardo le date di nascita di Lenin, Stalin, F.
È noto che Aristotele, prudente estimatore della mesótes in ogni circostanza, dedicò un lungo pas... more È noto che Aristotele, prudente estimatore della mesótes in ogni circostanza, dedicò un lungo passaggio della sua Politica (1295b, 34-1296a, 5) all'elogio della classe media (dêlon ára óti kaì he koinonía he politikè aríste he dià ton méson-così inizia) quale fondamento ineludibile della stabilità di ogni regime. La lezione non è stata dimenticata, fa parte della saggezza spicciola di ogni aspirante Specchio del Principe, sicché oggi sembra di stringente attualità tastare il polso e scrutare la lingua alla cosiddetta classe media, nel timore di una qualche sua infreddatura. I tempi si son fatti difficili per le classi medie dell'occidente, queste travi portanti dell'ordine che scricchiola e non si sa bene dove, anche perché non c'è nulla di più difficile da localizzare del "giusto mezzo": dunque, per prima cosa, dove precisamente esso si trovi. Di "medie", si sa, ce n'è tante: c'è la media aritmetica e quella geometrica (tralascio la media ponderata); la statistica contempla poi anche la mediana e la moda, tanto per ingarbugliare ancor più le idee ai medici in affanno. Viene quindi da pensare che possa esserci una medietà utile e una inessenziale ai fini della cura perché agli esperti-sicuramente affidabili nel maneggiare gli strumenti offerti loro dalla scienza-viene demandato il compito di trovare una cura politica contro i rischi di instabilità. Di questa difficoltà si è fatto interprete Göran Therborg in un articolo dal titolo ironico: Dreams and Nightmares of the World's Middle Class, apparso nel 2020 sul numero 124 della New Left Review, il cui scopo dichiarato è esaminare "le variabili definizioni della Middle Class". Variabili, oltretutto, nelle varie lingue, nelle quali si sottintende qualcosa di non sempre comparabile (la Middle Class non è il nostro "ceto medio", nella concezione anglosassone è l'insieme di coloro che vivono esclusivamente o prevalentemente del proprio lavoro o pensione, quale che sia la loro retribuzione). Qui, comunque, ci si riferisce soltanto al reddito (i redditi "medi") e questo semplifica le cose anche se poi sorge il problema dei variabili parametri entro i quali viene racchiuso quest'oggetto del desiderio, che ha comunque qualcosa a che vedere con la nascita, meglio, con l'evoluzione, della società borghese. Parametri che hanno anche a che vedere con criteri valutativi non necessariamente o non del tutto convergenti: reddito e "stile di vita". O forse, ancora, con la vita sognata: un sogno che con il neoliberismo rischia un amaro risveglio (Therborn, p. 75, citando Fukuyama). Qui Therborn inizia l'esame dell'ampio studio della OECD (2019) dal titolo: Under Pressure. The squeezed Middle Class. "To squeeze" è un verbo interessante: lo si dice con riferimento alla spremitura di un limone e, si sa, quando si spreme un limone, da una parte va il prezioso succo, dall'altra l'inutile scorza. Lo studio, dice Therborn, "non è apocalittico", e ciò contrasta con le lamentele dei molti per i quali "il sogno della Middle Class è sempre più soltanto un sogno" (p. 76). Qui egli s'inoltra nella storia di ciò che accadde all'occidente a partire dagli anni '70, una storia che è stata oggetto di tanti studi di Piketty e dei suoi tanti diagrammi; nonché di tanti altri saggi tra i quali mi limito a citarne uno di Streeck (The Crisis of Democratic Capitalism, New Left Review, 71, 2011) del quale ho scritto nella mia Storia di un altro occidente e che narra, con cronachistica acribia, le vicende dal dopoguerra alla crisi del 2007 (o 2008). È la storia di un capitalismo in crisi che, per trovare una nuova giovinezza, divora, come Crono, i propri figli. In quella situazione di spremitura, dice Therborn, ai tempi di Obama si dovette ridefinire la Middle Class (p. 77) in termini, più che altro, di aspirazioni, posto che delocalizzazione e finanziarizzazione avevano operato una netta cesura nel generico corpaccione della vecchia Middle Class. A mio parere quindi "splitted" sarebbe definizione più appropriata di "squeezed" anche se, a dirla tutta, grazie alla formazione di una nuova "Middle Class" nell'ex Terzo mondo grazie alla delocalizzazione e alla finanziarizzazione, viene obliterata, nei calcoli globali, la sua contemporanea crisi in occidente per il medesimo fenomeno. Ciò comporta comunque una sconcertante (bewildering) diversità nei parametri di definizione (p. 78). Di fatto, segnala Therborn con riferimento ai dati macroeconomici, mentre nell'ex Terzo mondo la povertà, grazie ai parametri usati, sembra in forte diminuzione, lo strato inferiore della Middle Class occidentale è ora a rischio povertà (p. 80) per la crescita delle diseguaglianze (dati presi da Piketty). In tutto questo le trombette dei gazzettieri innalzano squilli all'espansione della borghesia destinata a divenire classe unica del pianeta (p. 63); un fenomeno di pura propaganda ideologica (p. 85) ma che, come ho ricordato altrove sino alla nausea (anche mia) è centrale nell'idelogia di Occidente-destino-del-pianeta. Segnalo comunque, per inciso, un particolare passaggio del testo a p. 66: Therborn vi ricorda il ruolo del '68 come fattore di dissoluzione sociale che aprì la strada all'affermazione neoliberista; e poiché analogo giudizio si può trovare più volte in Streeck, ne approfitto per ricordare la mia identica affermazione a p. 1765 della Storia di un altro occidente. Torniamo però a Streeck, che già nel 2011 con The Crisis of Democratic Capitalism aveva tracciato un lucido percorso di questo cammino epocale dell'occidente, a partire dalla svolta neoliberista; di questo articolo avevo già parlato alle pp. 1635-1645 del mio testo, in quanto incluso in How will Capitalism end (Verso, 2016). Delle sue affermazioni ivi riportate, tre cose mi preme ricordare: stiamo assitendo alla distruzione della piccola borghesia; le masse sono le più interessate alla conservazione dell'attuale sistema economico, perché altre prospettive apparirebbero ancor più fosche; i consumatori rappresentano l'ultimo alleato del capitale. Su quest'ultima sua affermazione dovremo ritornare, perché è qui la chiave delle preoccupazioni del regime.
Stori di un altro occidente, Tomo II, 2020
Questo è il Commiato che conclude 'edizione finale di Storia di un altro occidente nel Novembre 2... more Questo è il Commiato che conclude 'edizione finale di Storia di un altro occidente nel Novembre 2019 (pp. 1761-1768). Lo propongo come testo a sé e come riflessione su un futuro ignoto