Intervista a Giorgio Carella, narratore a 360 gradi (original) (raw)

Fotografie e intervista di Sebastiano Leddi

Un regista, un fotografo, un direttore della fotografia e adesso anche un attore. Non è facile identificarti dentro un unico ruolo, come ti piacerebbe essere definito?

Più che essere definito mi piacerebbe vedere che le persone considerino che si possono avere molti modi di raccontare e raccontarsi. A me l’idea di autodefinizione sembra qualcosa da crisi di adolescenza. Provo la costante necessità di raccontare. Storie, situazioni, intuizioni, considerazioni. E il Cinema da solo non mi è mai bastato. In più, regia, direzione della fotografia, recitazione, scrittura, fotografia pura sono cose che nella mia testa si alimentano. Una serve all’altra. Ad arricchirla, nutrirla. Pulirla a volte. Sono molto affascinato dai suoni, da sempre. Mi piacerebbe iniziare a fare qualcosa che abbia a che fare solo con l’acustica prima o poi. La recitazione è nata come esperienza didattica ed è diventata una grande passione. Mi ha dato nuove possibilità come regista, aprendomi anche le porte delle regia teatrale e facendomi scoprire lati di me stesso assolutamente sconosciuti. Se proprio dovessi trovare degli aggettivi che possano definirmi mi piacerebbe che fossero “Curioso” e “Spregiudicato”.

Hai frequentato per tanti anni il cinema indipendente a Milano, com’è cambiato negli ultimi anni?

Quando ho iniziato a lavorare c’era effettivamente un movimento di giovanissimi autori (e qualche personalità più grande) che partecipava alla sensazione di creare un “Cinema Indipendente” qui a Milano. Poi le cose sono cambiate. Molte persone hanno fatto altre scelte, cambiato lavoro. O fatto altre scelte artistiche e professionali. Ci abbiamo provato però e per alcuni anni c’è stata la sensazione di creare qualcosa di particolare. Ci si vedeva ai festival, agli aperitivi, si organizzavano cene, si parlava di come poter realizzare film diversi, a basso budget ma che volessero entrare nel mercato. Ci si confrontava molto e c’era sempre una certa complicità. Un forte aiutarsi e considerarsi a vicenda. Per un cinque anni abbiamo fatto molte cose. Alcuni film di quel periodo penso siano stati passi importanti. Credo che nel nostro piccolo si sia partecipato alla concezione che ci possono essere modi diversi di realizzare un film rimanendo nell’ambito di un effettivo mercato commerciale. Poi non è nato il Cinema indipendente milanese, però molti di noi sono diventati effettivamente degli autori o semplicemente sono diventati grandi. Adulti migliori delle difficili periferie da cui molti di noi venivano. Oggi non mi sembra di vedere un movimento simile. Però la sensazione che si cerchi sempre una serie di modus operandi diversi dal cinema “romano” si, mi sembra che continui. C’è questa associazione, AIR3, di cui Carlo Sigon è l’anima, di giovani e meno giovani registi di varie provenienze artistiche e geografiche e con varie anime e aspirazioni che ha però il suo centro a Milano. Non è simile a quello che facevamo nei primi anni duemila con quella idea di creare un Cinema indipendente, però sta diventando un luogo di scambio, di incontro, di possibilità molto fertile.

Trovi che Milano sia una città interessante dal punto di vista cinematografico? Perché pensi sia stata così poco raccontata?

Milano è una città difficile da riprendere, fotografare, raccontare. Un po’ sembra che non sia abituata, un po’ le manca quella fiducia che danno a Roma, Venezia, Napoli. Milano è una città che crede di se molte cose, ma di essere anche bella, ci ha sempre creduto un pò poco. E fa male. Io la trovo invece molto interessante, proprio perchè è difficile. Lo diceva anche Gabriele Basilico, con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Io per esempio, che sono molto affascinato dai panorami urbani, di fare foto qui non mi stanco mai. I cambiamenti sono molti e ho sempre la sensazione che siano quasi silenziosi. A me è una città che piace molto e che voglio continuare a raccontare. Però dovrebbero dirle di essere anche bella e non solo efficiente e divertente quando si lascia andare nelle ore dell’aperitivo.
Milano si racconta poco e la raccontano poco perchè rimane il mito che oltre al lavoro e a una certa superficialità non c’è molto altro. Agli altri fa vedere la sua vetrina. però di se parla poco.

Mercoledì 22 Gennaio verrà presentato al cinema anteo il tuo ultimo film, una produzione durata 10 anni. Qual è stata la spinta che ti ha dato la forza di portarlo a termine senza una produzione alle spalle?

Storia degli uomini che volevano Bruciare new York è stata una esperienza lunga, complessa. Non tanto per questioni tecniche o stilistiche o per necessità di sviluppare maggiormente il senso del film. E’ stata un’odissea produttiva per il fatto che il suo soggetto ha delle pericolosità politiche esplicite. E nessuno si voleva prendere la responsabilità di passare da Fascista o revisionista. Anche se il film non è ne l’una né l’altra cosa. Per me fare il regista non è un lustro da portarsi in giro, una cosa che si dice per fare il figo. E’ una responsabilità. Verso di te, verso la fatica che fai e che fanno le persone che ti seguono in queste avventure sconsiderate, le persone che si concedono nelle interviste, o gli attori, il resto della troupe, le loro energie. Nel senso che le difficoltà, anche le peggiori, non possono essere un limite quando si fa un film. Se non ti sta bene fai un altro lavoro. Ce ne sono assolutamente anche di più utili.
Per fare i film bisogna essere caparbi. Lucidi e fiduciosi. Sapere perchè si fa una cosa e portarla avanti con intelligenza. E in più credo che se non lo avessi finito non si sarebbe aperta questa possibilità di comprendere che la Storia, soprattutto quella che ci fa più paura, deve essere affrontata e la si può raccontare in maniera avvincente oltre che profonda. Ho continuato a fare questo film anche nei momenti più difficili perchè sentivo che se lo avessi mollato avrei fatto la cosa facile da fare. La cosa che segna la sconfitta con il proprio mondo interiore. Non si poteva non finirlo. Era una questione di onestà intellettuale e non era solo una questione privata. Punto. Ne andava della mia vita.

Hai deciso di girare un film-documentario sulla strategia militare. Da quello che ti conosco mi verrebbe da pensare che hai un approccio alla vita che ha qualcosa di militaresco, sbaglio?

Sono un ex studente di Storia e tutti gli studenti di storia sono attratti dalle questioni militari. Credo anche che sia una costante dei registi. La guerra è un’esperienza radicale della nostra specie. E io non nego di esserne attratto. Nella vita però non sono un militarista né uno militaresco. Sono una persona disciplinata però, questo è vero. Una specie di samurai. Chi mi conosce bene lo sa. Mi riconosco più in un combattente con un codice etico che in un militare. E sicuramente sono una persona che professionalmente ha un atteggiamento strategico. Chi lavora con me sa che esigo molto, sia nella creatività che nella affidabilità. Però poi sono anche un cazzone e mi piacciono le ragazze, bere e andare a ballare. Moltissimo.

Stai lavorando a qualcosa di nuovo? Hai un altro film nel cassetto?

Sto lavorando parecchio. Il prossimo film in produzione è stato fra i selezionati al Premio Solinas dello scorso anno. Sarà sempre un film documentario che avrà come centro del racconto la Famiglia. In senso di nucleo base della società e in senso di relazione con il mondo mafioso. Oltre a questo mi hanno chiesto di scrivere il soggetto per un lungometraggio di finzione. E’ una storia a cui tengo molto e che ha per protagonista una ragazzina greca di 17 anni. Sto lavorando alla prossima mostra fotografica personale dal titolo BLACK MILANO e sto facendo l’attore in due spettacolo teatrali in allestimento. Ah, sto anche facendo la regia di un spettacolo teatrale che si chiama “YOGA”. Però riesco anche a dormire, giuro.