Poesia e autobiografia. La sezione leopardiana del Terziere (original) (raw)
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L'inizio di un'opera autobiografica di Giacomo Leopardi è stato ravvisato nel manoscritto di un'opera incompiuta nota come "Abbozzi della vita di Lorenzo Sarno", parole con le quali lo stesso poeta allude a quelle pagine nello Zibaldone. La disomogeneità delle carte vergate con un ductus irregolare, il silenzio sul nome del protagonista, l'allusione a fatti e personaggi noti solo al poeta, l'abbreviazione dei nomi personali ed infine il ricorso ad episodi mitologici per mascherare la realtà dimostrano le forti remore dell'autore a parlare apertamente della sua vita per evitare la chiara denuncia nei confronti del suo soffocante ambiente familiare.
Radici e risonanze. Il riverbero dell'esperienza traduttiva giovanile nella poetica leopardiana.
L’atto del tradurre richiede un intimo intendimento, uno slancio dentro di sé alla ricerca delle parole perfette, tanto più intenso quanto più il testo da tradurre è amato. Ben noto è l'amore del poeta di Recanati per i classici (o meglio per gli antichi, come usava chiamarli), e proprio all'interno delle parole scelte per trasportarli nella propria lingua e nel proprio sentire la traduzione si fa gradualmente strada verso la composizione. La domanda che questa ricerca si pone è la seguente: senza il Leopardi traduttore avremmo mai avuto il Leopardi poeta? Sebbene la vitalità del suo “pensiero poetante” scoraggi l’idea di trovare una risposta certa, rinvenire fra i versi tradotti da Leopardi appena quindicenne le stesse immagini che palpitano nelle sue poesie è come guardare un vecchio album di fotografie di una persona amata, nella riscoperta delle affascinanti sfumature di un percorso umano ancor prima che poetico.
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Il leopardismo di Alvaro: l’istanza finzionale nella narrazione diaristica
vol. del progetto editoriale da determinare, Limina Mentis Editore, Villasanta; consegnato, e accettato per la pubblicazione con la conferma dell’Editore
Lo spunto per l’articolo è tratto dall’utilizzo dell’espressione programmatica 'favola di vita', posta significativamente ad incipit e a incorniciare circolarmente il testo diaristico profilato in "Quasi una vita", già di memoria leopardiana (poiché attestata nelle "Operette morali"), e intesa ad alludere alla maniera in cui nella narrazione viene messo in atto il dinamismo tra veridicità e finzione. Mentre la costruzione del primo giornale alvariano si avvia in tal senso con una constatazione sulla scarsezza dell’elemento mitopoietico, in consonanza con il principale ruolo testimoniale, dall’ulteriore ricorrenza di questa categoria nozionale si evince invece una rinnovata disponibilità a potenziare miticamente il senso del vissuto. Così viene tratteggiato il tema del leopardismo letterario dello scrittore calabrese, presentandone alcuni tratti particolarmente determinanti. Anche dal punto di vista formale, i diari di Alvaro in cui si persegue l’obiettivo di inquadrare i minimi fatti ritenuti di primaria importanza e circoscrivibili per lo più all’ambito civile, si situano sulla scia dello "Zibaldone di pensieri", in quanto uno dei modelli per quel che pertiene all’articolazione del discorso e alla fondamentale maniera in cui vi è intrapresa un’analisi poetologica e speculativa.
Come molti, ho seguito la storia del ritrovamento del nuovo manoscritto dell'Infinito dalle eco sulla stampa e (soprattutto) su internet, non avendo la possibilità di recarmi a Macerata per assistere alla presentazione della scoperta; come parecchi, sono stato subito colpito dagli ampi margini di azzardo e, diciamo così, limitata verosimiglianza che contornano l'oggetto -una riproposizione paro paro dello stato del testo presente nell'autografo 'napoletano' (AN C.L. XIII 22, p. 2), varianti incluse -e la sua contestualizzazione; come forse qualcun altro (ho immaginato) mi sono incuriosito al punto da volerne capire qualcosa di più, lavorandoci un po' sopra. Con piacere, e un certo sollievo, trovo ora effettiva conferma di non essere stato il solo a seguire un tale percorso, ritrovando caricato su Academia un secco e reciso articolo di Pasquale Stoppelli, dal titolo che lascia pochi dubbi (Su un falso "Nuovo autografo dell' «Infinito»" di Leopardi). L'intervento coniuga alla lucidità analitica l'intonazione amara dello sfogo, e si può ben capire: è davvero difficile, abituati a ragionare en philologue, comprendere come si possa anche solo ammettere un'ipotesi di lavoro fondata su proiezioni mentali prive di ogni riscontro. Come ben rammentato da Stoppelli, e senza per ora entrare sul piano paleografico, prive di riscontro nella pratica leopardiana sono infatti a) la pratica di conservare copie conformi, b) la modalità di rappresentazione della progressione del lavoro, c) la stessa mise en page del nuovo testimone. A tali evidenze si potrebbe solo ribattere che uno scrittore, e magari ancor più un genio come Leopardi, fa quel che vuole, anche se in altre occasioni non lo ha mai fatto: genio e sregolatezza, tanto per cambiare. Beata ingenuità degli umanisti vecchio stile, che rifuggono sdegnosi ogni tentazione formalizzante, o anche solo razionale! Anche a voler concedere a ciascuna delle 'sregolatezze' citate un valore probabilistico maggiore di zero -mostriamoci generosi e facciamo pure un esagerato 1%, tanto non ci costa niente -la probabilità che si verifichino tutte e tre insieme è data dal prodotto delle singole probabilità, e fa un numero molto piccolo: una su un milione, dunque appena un po' più facile di fare 5 al SuperEnalotto; e il garrulo ottimismo dei proponenti non fa certo onore alla spietata razionalità di Giacomino.