L'etnofilologia ci salverà? (original) (raw)

Qualche idea sul possibile futuro delle nostre antropologie

Etnoantropologia, 2014

La gravità della situazione attuale delle discipline antropologiche, sia nelle Università e nei prossimi concorsi (a causa della drastica diminuzione dei Professori, per i numerosi pensionamenti), sia nell'ambito più vasto dei numerosi cultori delle nostre discipline (titolari in massima parte di Dottorati specifici) che hanno grandi difficoltà a trovare una occupazione stabile nel nostro campo, impone la opportunità, anzi la necessità, di serrare le fila e trovare di comune accordo vie d'uscita dalla contingenza di questi anni. E non v'è dubbio che si debbano fare carico delle responsabilità della promozione di un rilancio degli studi, e delle forme di occupazione pubblica nel nostro campo, soprattutto i componenti della generazione anziana, come si dice, "strutturata". Come anche non v'è dubbio che bisogna tenere nel massimo conto, senza che siano necessarie meticolose confutazioni di singoli e marginali punti, il documento presentato dai 126 "non-strutturati", che ci ricorda molte delle cose che converrebbe fare, che magari non sono state fatte nel passato, e che risultano essere urgenti. Penso ad alcuni obiettivi praticabili, che richiedono certo grande impegno, e che possono configurare una strategia di medio-lungo periodo, destinata, a mio parere, ad avere successo:-1. Innanzitutto, poiché spesso si fa riferimento al "merito" della nostra attività professionale, alla sua "qualità", da mantenere alta attraverso un potenziamento (teoricometodologico e di intensità di ricerca) dei nostri studi, dirò subito che l'unica forma che mi sembra praticabile ed efficace è quella del potenziamento dei contatti, degli scambi, e del dibattito interno, soprattutto "orizzontale" e non "verticale", cioè quello che si svolga tra i pari di una generazione. In molti casi recenti ho potuto osservare un miglioramento della

Le parole dell'etnopsichiatria

Scuola ICP Padova settembre 2011 Sintesi ragionata a cura di Iside Baldini, a partire dalla lezione alla seconda edizione del Master in Etnopsichiatra e Etnomedicina Università di Genova, Aprile 2008 di Emmanuel Seyni Ndione, direttore di ENDA Graf Senegal, e dagli scritti di Piero Coppo

L'etnografo e il narratore

2020

Walter Benjamin is a perfect interlocutor for cultural anthropology, which has often taken inspiration from his thought to widen its critical stance. In particular, in this article I aim to show the affinities between the figure of the storyteller, as described in Benjamin's famous essay on Leskov, and the ethnographer. In the first part of the article, I argue that ethnography is one of the main heirs of Benjamin's "art of storytelling", sharing with the latter the dialogical roots, the handcraft nature and the moral dimensions. To this aim, in the last part of the article I present and discuss the works of Lila Abu-Lughod, Steven Caton and Stefania Pandolfo, whose narrative and experimental forms testify clearly the deep assonances between ethnography and Benjamin's thought.

L’osservazione etnografica

L'osservazione costituisce uno strumento classico della ricerca sociale, fondativo in particolare dell'etnografia e dello sguardo "naturalistico" che essa si propone di esercitare sulla società. Implicita in questo iniziale programma di ricerca era anche l'idea che le rappresentazioni degli attori potessero essere osservate non meno delle loro pratiche, o meglio attraverso queste ultime. Più lento è stato il riconoscimento che il lavoro etnografico stesso -incluso dunque il lavoro di osservazione etnografica -fosse esso stesso produttore di rappresentazioni. Di qui, inevitabilmente, una riflessione sul "potere" inerente allo sguardo, ai suoi presupposti, ai suoi assunti irriflessivi. Dopo la critica del positivismo etnografico classico e dopo una vera e propria "destituzione della fede nello sguardo" -accusato di sessismo, razzismo, voyeurismo e così via -oggi la questione del ruolo dell'osservazione nella ricerca sociale pare tuttavia non essere ancora risolta. In questo contributo parto dalla constatazione che, esauritosi ormai il discorso postmodernista, l'osservazione continua ad essere una delle principali pratiche etnografiche utilizzate dai ricercatori sociali, nonostante -o forse invece proprio perché, e in questo senso persino fintanto chel'epistème dell'osservare non appaia "fondabile" nel senso classico. In ultima analisi, è in quest'apparente contraddizione che mi propongo di rinvenire una delle principali fonti della potenzialità euristica e, più in generale, conoscitiva dell'osservazione rispetto alle altre attività o momenti che compongono il movimento della ricerca (quali ad esempio descrivere, interpretare, spiegare e prevedere).

Può l’ermeneutica interculturale fare a meno della storia?

2016

Articolo sottoposto a peer-review. Ricevuto il 18/09/2014. Accettato il 02/04/2015. Can intercultural Hermeneutics give up history? Intercultural Hermeneutics does not have as its object the universal history, but the plurality of stories. The intercultural comprehension of the plurality of stories replace the goal of the final conciliation with the memory of those who are oppressed. *** «Nessuno è perfetto, se non aspira a una maggiore perfezione» 1 «La storia è sempre qualcosa di più o di meno di ciò che viene detto su di essa e il linguaggio fa sempre qualcosa di più o di meno di ciò che è contenuto nella storia reale» 2 «La redenzione è il limes del progresso» 3