La Campania nella letteratura Giapponese (original) (raw)
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Il Giappone nelle conoscenze storico-letterarie dell'Italia tra Cinquecento e Settecento
Altre notizie, giunte in Italia attraverso il padre portoghese Luis Frois e lo spagnolo Cosmo di Torres, contribuirono con ulteriori dati ad accrescere le conoscenze sul paese. Dalle loro le ttere derivarono nozioni essenziali sulla geografia e lo stato politico del Giappone. che tradizionalmente veniva suddiviso nelle tre isole di Honshu, Shikoku e Kyushu, le sole allora note agli Europei. Essi davano intanto desctizione dei principali regni e i tentidei quali se ne rile
Il Giappone nelle conoscenze storico-letterarie dell'Italia fra Cinquecento e Settecento. In: Italia-Giappone 450 anni, Roma-Napoli, 2003, 2003
Altre notizie, giunte in Italia attraverso il padre portoghese Luis Frois e lo spagnolo Cosmo di Torres, contribuirono con ulteriori dati ad accrescere le conoscenze sul paese. Dalle loro le ttere derivarono nozioni essenziali sulla geografia e lo stato politico del Giappone . che tradizionalmente veniva suddiviso nelle tre isole di Honshu, Shikoku e Kyushu, le sole allora note agli Europei. Essi davano intanto desctizione dei principali regni e i tentidei quali se ne rile-Mario Pagano, Vol .
La scrittura etrusca in Campania
Vetulonia, Pontecagnano, Capua. Vite parallele di tre città etrusche, 2013
Costanza Quaratesi per la collaborazione all'allestimento e alla preparazione del catalogo. Un ringraziamento speciale a: Marica Rafanelli per lo studio compositivo delle vetrine.
2020 - Umberto PAPPALARDO, "La cultura classica in Giappone", Cronache Ercolanesi 50, 2020, pp. 297-309, 2020
Questo «BOLLETTINO» pubblica in volumi annuali articoli di papirologia e archeologia ercolanesi. La Direzione si impegna a procedere alla selezione qualitativa dei contributi da pubblicare sulla base di una valutazione formalizzata e anonima di cui è responsabile il Comitato Scientifico. Tale sistema di valutazione si avvale anche di esperti esterni al suddetto Comitato. L'indirizzo e-mail al quale l'autore desidera ricevere le bozze va indicato in calce al contributo. I testi, anche se non pubblicati, non si restituiscono. Per garantire l'uniformità della stampa l'editore si riserva, d'accordo con la redazione, la determinazione dei caratteri e dei corpi tipografici che pertanto, ad evitare confusioni, non vanno indicati sui testi. I collaboratori riceveranno una sola volta le bozze ed è opportuno che conservino una copia del testo per il riscontro. La rivista infatti non restituirà il testo originale, per eventuali collazioni all'atto della stampa.
Gli studi sul fumetto giapponese a Napoli
Mazzei Franco - Carioti Patrizia (a cura di), Oriente, Occidente e dintorni. Scritti in onore di Adolfo Tamburello, 2010
In Italia, l’interesse scientifico per il fumetto giapponese è andato emergendo gradualmente a partire dagli anni Novanta. Il più delle volte, tuttavia, si è trattato di studi sulle implicazioni sociologiche del fumetto nella cultura italiana. Poco o niente, all’interno di queste opere, riguardava la cultura giapponese e le implicazioni storiche del manga nella società del Giappone e, anche lì dove si tentava un approccio storiografico e letterario al fumetto, era offerto un quadro piuttosto scarno e superficiale a riguardo. Ne è conseguita una produzione spesso ridondante di luoghi comuni e di analisi affrettate, basate più su una riflessione occidentalizzante che su una comprensione approfondita del fenomeno, attraverso elementi propri della cultura giapponese. Soltanto negli ultimi anni e grazie al contributo di una nuova generazione di studiosi si è assistito alla graduale affermazione di una risposta orientalistica che, attraverso un’analisi storica e letteraria delle più recenti produzioni di genere e della loro ingerenza culturale nella società giapponese contemporanea, ha proposto un adeguato strumento di lettura di un aspetto inscindibile dalla cultura del Giappone allineandosi, peraltro, a un mangaron giapponese. Vale la pena sottolineare, tuttavia, che il primo studio italiano sul fumetto giapponese risale alla fine degli anni Settanta, in pieno clima di invasione dei teleschermi con storie a cartoni animati di orfani e robot, ed è pubblicato a Napoli sulle pagine de 'Il Giappone', prestigiosa rivista di studi orientalistici curata da Adolfo Tamburello.
Il Giappone visto dai letterati italiani e il caso di Dino Buzzati
Il presente lavoro nasce da una personalissima passione per il Giappone: un mondo a sé, ricco di cultura, fascino, magia, un mondo estremamente diverso dall’Occidente e dall’Italia, a cominciare dalla lingua, dagli usi e costumi e dalle tradizioni. Da questa premessa ha quindi preso vita un’attenta indagine all’interno del panorama letterario italiano del Novecento nel tentativo di ricercare quali autori si siano recati in Sol Levante e quali di questi ne abbiano narrato all’interno del proprio percorso letterario. Un’attenzione particolare è stata rivolta al viaggio del 1963 di Dino Buzzati in occasione delle Olimpiadi di Tokyo del 1964 e di cui tutt’oggi è ignota la precisa data di partenza del giornalista bellunese. Buzzati, come corrispondente del «Corriere della Sera» realizza in terra nipponica 15 articoli: quattordici per la rubrica «Un provinciale in Giappone» e uno per il supplemento «La Domenica del Corriere». Negli articoli, Buzzati racconta Tokyo e tutto ciò che lo colpisce con un atteggiamento umile e il suo stile di scrittura inconfondibile. Di questi articoli soltanto quattro sono stati ripubblicati nell’opera Cronache terrestri nel 1972 a cura di Domenico Porzio ed edita da Mondadori; i rimanenti sono stati affidati alle pagine del quotidiano milanese. Sono quindi stati recuperati presso la Biblioteca della Facoltà di Economia dell’Università degli studi di Genova, sede scelta per mera comodità e vicinanza e riportati nella sezione «Appendice» con l’aggiunta di un altro articolo datato 28 Luglio 1964 intitolato «Un Giappone nel Tigullio» e che crea un ponte di collegamento tra il Giappone e la Riviera ligure. Buzzati infatti, incontra un ex diplomatico dell’Ambasciata italiana a Tokyo: Antonio Widmar conosciuto durante il viaggio in Giappone dell’anno precedente. Widmar sceglie proprio la Liguria come meta di riposo per il proprio pensionamento dopo ben 17 anni di onorabile servizio. Il primo capitolo ricostruisce dal punto di vista storico la modalità con cui gli scrittori italiani hanno visitato e narrato il Giappone e di conseguenza ciò che è stato affrontato in letteratura e ciò che al contrario è rimasto più in ombra. La letteratura italiana da viaggio corrisponde a un filone minore, di meno impatto culturale e con un annesso mercato di scarso riscontro rispetto alla narrativa. Fino gli anni Sessanta inoltre è inopportuno parlare di “libro di viaggio”, gli editori infatti compiono una semplice operazione di rilegatura degli articoli pubblicati sui quotidiani. Manca l’elemento di continuità, a causa della frammentazione tipica della pubblicazione a puntate; nello specifico, manca la narrazione del progredire del viaggio e il come si è arrivato in quel posto. Per questo motivo, l’Italia non possiede nella sua tradizione letteraria una letteratura da viaggio che possa reggere il confronto con le corrispettive degli altri paesi. Occorrerà attendere gli inizi degli anni Sessanta, anni in cui si smuoveranno le acque e verranno realizzati reportage di particolare rilievo e importanti testi scritti. Esiguo è poi il numero di scrittori che partono in direzione del Sol Levante all’inizio del Novecento e ne narrano all’interno delle loro opere, in alcuni casi sono viaggi nati per caso. Il Giappone è inoltre una nazione particolare, diversa, un vero e proprio mondo a sé stante; I rapporti tra le due nazioni infatti sono tutt’oggi ancora lacunosi e poco approfonditi. Cronologicamente, dagli anni della Seconda Guerra Mondiale in poi vi furono: Giovanni Comisso (nel 1930) ed Ercole Patti (1932), seguiti da Alberto Moravia nei suoi due viaggi compiuti nel 1957 e nel 1967 e Dino Buzzati nel 1963. Successivamente vi furono Alberto Arbasino (1971) Italo Calvino (1976) e Goffredo Parise (1980).
Tesi di laurea triennale in Lingue e Civiltà Orientali presso La Sapienza di Roma. Tema: il matriarcato nei culti animisti del Giappone pre-buddhista. Attenzione: potrebbero essere presenti errori di visualizzazione dovuti alla conversione in pdf o ad alcune sviste di battitura che non ho fatto in tempo a correggere prima della pubblicazione. Il tema del matriarcato o della figura femminile nella yamatologia è sempre presente, ma spesso anche i libri più autorevoli vi dedicano solo pochi paragrafi, con la motivazione che ne sappiamo troppo poco. Il mio intento in questa tesi è stato quello di raccogliere, quanto possibile, testimonianze di studiosi che hanno trattato del tema, unendole ad altre che riportassero la percezione dei giapponesi stessi nei confronti della figura di un arcaico femminile sacro. Durante la ricerca sono emerse numerose somiglianze con i culti matriarcali dei popoli del sud-est asiatico, ed alla fine si è resa possibile anche una comparazione con i popoli della Vecchia Europa ricostruita dalla grande archeologa lituana Marija Gimbutas. L'ipotesi che ho cercato di dimostrare in questa breve ricerca sostiene che sia possibile tracciare un'unica linea di riferimento che unisce i culti di natura animistico-sciamanica di tutto il mondo, dove spesso la componente femminile è centrale. In questa comparazione tra animismo giapponese e culti matriarcali si è reso fondamentale definire il concetto di kami e le sue possibili relazioni con figure delle culture vicine come il khwan dei popoli della Thailandia. Secondo Motoori Norinaga il significato esatto del termine kami è difficile da definire, ma è certo che includa esseri umani come bestie, piante, mari e monti. La mediatrice suprema nel Giappone pre-buddhista, tra il mondo degli spiriti e gli esseri umani era la sciamana Miko, oggi relegata a semplice assistente rituale del prete shinto. La figura della sciamana è però rimasta nei culti del popolo più vicino ai giapponesi tra quelli dell'Asia: i ryūkiani, che considerano ancora tutte le donne incarnazioni divine (kamichu) e conservano una figura di alta sacerdotessa/incarnazione della divinità (nuuru) ed una di medium (yuta). Secondo Massimo Raveri con la patriarcalizzazione della società ad opera della figura mitologica di Susanowo (che storicamente forse rappresenta l'introduzione della cultura cinese) la società matriarcale si separa da quella della comunità, e viene rilegata nel mondo divino dove è una divinità donna, Amaterasu, ad essere la più importante del pantheon. L'equivalente di Amaterasu presso i popoli ryūkyū è Amamikyu, responsabile sia delle nuuru che delle yuta. Data la sua nascita mitologica, "dalla testa" del padre, Matsumura Kazuo paragona Amaterasu ad Atena, che essendo una divinità femminile del pantheon greco sappiamo, grazie alla Gimbutas, quanto fosse influenzata dai culti pre-indoeuropei matriacali. A questo punto se l'animismo, per come lo definiscono Wundt, Freud e Frazer, può essere collegato tanto allo sciamanesimo quanto alla figura del femminile, che essendo come madre-terra, sacra in quanto responsabile della generazione, allora bisogna anche comprendere la percezione di questo animismo. Partendo da Jung ho tracciato un'identità dell'energia spirituale "mana" dei popoli austronesiani, che Lehman definisce "straordinariamente efficace" ed il concetto di "mono", che secondo Oka Masao indica uno spirito vitale che non può abbandonare il corpo che vivifica. In questo si differenzia dal Tama, concetto che oggi è accomunato a quello di Kami ma che secondo Orikuchi Shinobu era originariamente ben distinto da esso. Secondo Ebersole infatti i Kami come gli umani (Hito) possiedono entrambi il Tama. In quanto "essenza" vitale, il Tama può abbandonare il corpo ed impregnare gli oggetti. In questo contesto ho riportato ad esempio il mito della sposa di Takeru di Yamato, morta suicida in mare, che lasciò il proprio pettine "pregno" del proprio Tama. Secondo Codrington il mana è un flusso di energia che "si attacca" e dunque può pregnare anche oggetti. A parte dunque un lieve mutare di significato, a terminologie simili si associano culti molto simili che vanno dal Giappone al sud-est asiatico. Secondo Mikiharu le credenze animistiche di tutti questi popoli, Giappone compreso, erano originariamente le medesime. Iwata Keiji approfondisce meglio il concetto di khwan dei popoli del Laos e della Thailandia ed arriva ad affermare che esso sia una manifestazione benefica di una forza spirituale più generica, il Ṣāsnā phī, che può essere benevolo o malevolo. Finché queste forze abitano le persone o gli oggetti vi è salute, ma con l'abbandonare dello spirito allora si incorre in malattie. In Giappone si crede che anche il riso abbia un suo spirito, la stessa credenza riguarda il khwan del riso presso i popoli del Laos e della Thailandia. L'ipotesi di Iwata Keiji è la seguente uguaglianza tra i concetti nipponici e sud-asiatici: Mono = Phī Tama = Khwan Mentre le associazioni fonologiche ci permettono di ipotizzare che originariamente i concetti di Kami e Khwan fossero più vicini, e lo stesso dicasi per Mono e Mana, ma ovviamente stiamo discutendo solo a livello di ipotesi, ricordandoci però che l'antropologia, in quanto scienza dell'umano, non può pretendere di seguire categorie scientifiche. L'anima non è matematica. A questo punto la mia ricerca si conclude con un paragone tra la cultura giapponese pre-buddhista e quella dei popoli della Vecchia Europa scoperti da Marija Gimbutas, con particolare riferimento alle rappresentazioni steatopigie delle statuette ritrovate in entrambi i luoghi che seguono i medesimi canoni artistici di "fertilità" e "maternità", ed il culto del serpente, presente in entrambe le culture matriarcali come simbolo dell'infinita potenza vitale, simbolo che segna anche la fine dei culti della terra, documentata in Giappone dalle cronache della regione di Hitachi, che ci parlano della guerra del governo contro i kami-serpentiformi durante la bonifica di Namegata, oppure dello scontro tra Susanowo, che rappresenta le forze caotiche (ara) poi organizzate nel nuovo Giappone ed armonizzate (nigi), con il distruttore dei villaggi (sato) e signore della natura incontaminata (yama), appunto un kami-serpente o dragone: "Yama-ta no Orochi". La stessa sposa di Jinmu, il primo imperatore del Giappone, si narra essere nata dall'unione di una donna e di un kami serpente che assunse le forme di freccia rossa ingravidandola, chiamato Oyamakuhi e venerato poi sul monte Miwa. Tutte queste testimonianze ci parlano di un periodo arcaico ed archetipico in cui il Giappone era terra di spiriti divini e sede di riti sciamanici di stampo animistico e matriarcale.