Attraverso i tempi. Il brefotrofio di Roma e i suoi esposti nella prima metà del Novecento (original) (raw)
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Gli uomini e le cose. Figure di restauratori e casi di restauro in Italia tra XVIII e XX secolo, atti del convegno nazionale di studi (Napoli 18-20 aprile 2007), 2007
Gli uomini e le cose. I. Figure di restauratori e casi di restauro in Italia tra XVIII e XX secolo : Atti del Convegno Nazionale di Studi (Napoli: 18-20 aprile 2007) / a cura di Paola D' Alconzo. -Napoli : ClioPress, 2007. -468 p. ; 24 cm (Saggi ; 7) Accesso alla versione elettronica:
2022
In copertina Chromatisme (dettaglio), esposizione Pas besoin d'un dessin di Jean-Hubert Martin © Genève, Musée d'art et d'histoire (MAH) Photo: Julien Gremaud Si ringrazia Carlotta Nardi per la creazione del logo Pensieri ad Arte
Architettura del Novecento a Roma
Un percorso che si sviluppa nel quartiere Flaminio per assaporare il clima di rinascita che ha caratterizzato la città di Roma negli anni '60. Attraverso l'opera di alcuni tra i progettisti più importanti dell'epoca tra cui Nervi, Libera e Moretti al servizio delle Olimpiadi, si avrà la possibilità di misurare il grado di sperimentazione tecnico e formale dell'architettura italiana uscita dalla drammatica esperienza della guerra. Un'esplorazione di una zona particolare della città, sviluppata dagli anni venti fino ad oggi: a partire dal quartiere ICP del Flaminio, dove è possibile ammirare il linguaggio del barocchetto sperimentato su vasta scala, il viaggio ripercorre le trasformazioni urbane attuate negli ultimi anni in una zona militare diventata polo della politica culturale e scientifica cittadina con il Maxxi e il progetto Flaminio di Paola Viganò Nell'immaginario comune Ostia è il luogo di villeggiatura di Roma e, in quanto estensione della città sul mare, da questa subisce influssi continui. A partire dagli anni venti, con la costruzione dei primi insediamenti, il litorale romano viene considerato un terreno di sperimentazione per l'architettura razionalista che contribuisce a formare l'identità culturale e formale del luogo Architettura da record Il Villaggio Olimpico_Flaminio parte I Dalle armi alla cultura Dal quartiere ICP del Flaminio al MAXXI_Flaminio parte II
Dal molteplice all’uno. L’archivio storico del Brefotrofio di Milano (1483-1897)
Storia in Lombardia, 2010
La sezione Brefotrofio rappresenta il segmento principale di un corpus documentario-l'Archivio Istituti provinciali assistenza infanzia Milano 1-formato da molteplici complessi, alcuni dei quali sono ancora in corso d'inventariazione. Tale sezione costituisce, a sua volta, il prodotto parziale dell'azione storica dei diversi istituti milanesi che, dal XV fino al XX secolo, si avvicendarono nel soccorso all'infanzia e alle partorienti. La documentazione è in gran parte nominativa: circostanza, questa, riconducibile in primo luogo-ma non certo esclusivamente, come vedremo-sia alla fisionomia assunta dal brefotrofio milanese all'epoca delle grandi concentrazioni ospedaliere quattrocentesche 2 , sia alla posizione assegnata agli ospizi per gli esposti dopo l'unificazione nazionale. Nell'uno e nell'altro caso, infatti, la struttura andò a costituire la "costola" istituzionale di enti più grandi e polifunzionali che continuarono a sussistere come tali, nonostante i passaggi di competenze e le soppressioni degli enti dipendenti. Ciò significa che, per gli aspetti amministrativi generali e patrimoniali, i vari complessi della sezione trovano parziale completamento negli archivi storici di altri soggetti: in quelli dell'Ospedale Maggiore di Milano e dell'Ospedale Maggiore di Lodi 3 , per il periodo che va dal XV secolo fino al 1866-68; in quello della Provincia di Milano (Via Vivaio), per gli anni successivi. Vediamo dunque, innanzi tutto, il percorso storico compiuto dal nucleo principale
2018
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Roma Medievale, 2022
Roma Medievale. Il volto perduto della città (Roma, Museo di Roma 21 ottobre 2022 – 5 febbraio 2022), a cura di Marina Righetti e Anna Maria D’Achille, De Luca Editori d’Arte, Roma 2022
Tempo della storia, tempo senza storia. Sul libretto di Roma capomunni
2020
È noto che la preoccupazione, e meglio si direbbe l'assunto espressivo, di Nino Rota, nell'accingersi a comporre la sua Cantata intitolata bellianamente a Roma capomunni (1972), era quello di rifuggire ogni tonalità celebrativa o accademica, per restituire invece «in modo vivo», libero dai gravami ideologici o retorici di ottiche convenzionali, gli «aspetti più significativi e, per così dire, universali della Città eterna». Così, infatti, il compositore milanese dichiarava-e lo ha opportunamente evidenziato uno specialista di Rota come Pierfranco Moliterni 1-nel testo riprodotto sulla retrocopertina dell'edizione discografica di Roma capomunni. Ed era una dichiarazione, nella sua linearità, assai significativa: non solo perché confermava le peculiari inclinazioni intimiste e speculative-sottolinea Moliterni 2-della poetica rotiana, ma pure perché dava conto della singolare visione di Roma sottesa alla scelta dei testi che dovevano costituire il tessuto narrativo e orientare il «tono poetico» (come lo stesso Rota scriveva 3) dell'opera. Una visione partecipe e insieme disincantata, storica e tuttavia non mitografica, cui l'assunzione dei sonetti belliani-a Rota suggerita dal suo sodale e «correligionario della setta rosacrociana risalente a Giuliano Kremmerz», 4 «Vincenzo Vinci» Verginelli, che la disponeva come asse portante e cornice tematica dell'opera-offriva una angolazione prospettica per la quale la grandezza proverbiale dell'Urbe poteva essere originalmente declinata (pur forse non senza l'afflato palingenetico di qualche nuance misteriosofica sottesa alla partitura 5) nel chiaroscurale realismo di una variegata e però iterativa contingenza quotidiana-come, entro un diverso codice estetico di cui peraltro proprio la musica di Rota costituiva un elemento decisivo e indispensabile, Federico Fellini contemporaneamente la dipingeva nel film ad essa intitolato: sontuosa e misera, universale e quotidiana, splendente e degradata, caduca ed eterna. Analogo, per certi suoi tratti e, più, per la focalizzazione esistenziale che, in misure pur diverse, li sottende e sommuove, può risultare infatti, e non per caso, l'affresco trans-storico rotiano a quello dell'artista riminese: entrambi intesi a coniugare la dimensione epica del tempo inscritta nella città di Roma, la sua linea comunque continua ancorché scandita da mutazioni paradigmatiche, la sua monumentale istituzionalità, per così dire, con quella, antiepica e frammentaria, della sua molteplice e immutevole fenomenologia quotidiana, della sua eticità esistenziale. Ma se l'affresco del Fellini pasticheur cresceva tutto nella proliferante accensione visionaria dello sguardo filmico, nella Cantata rotiana le escursioni temporali transcodificate dalla silloge testuale nella partitura derivano da un sapiente assemblaggio di materiali letterari e linguistici esibitamente eterogenei, che la sequenza dei sonetti belliani è demandata non solamente a tenere insieme, ma a risemantizzare, in un pastiche storico-espressivo nel quale ciò che viene messo primariamente in gioco, e fa problema, è appunto il senso del tempo, la prospettiva dalla quale traguardare la rappresentazione musicale della città «capomunni». Per un verso, infatti, i brani 6 tratti da Virgilio, Orazio, Plutarco , dal Venerabile Beda, e da Servio, Dante, Macrobio, Goethe, Byron, da cori popolari medioevali o risorgimentali, e infine dal classicheggiante preziosismo lirico di un raffinato contemporaneo come Giorgio Vigolo, peraltro insuperato editore di Belli, andavano a costituire le stazioni di una sconfinata parabola diacronica, in quanto reperti e voci di una complessa ma unilineare temporalità storica, testimonianze emerse dalle vicende e dalle età che Roma visse e in sé racchiude. D'altro canto, l'Ottocento dialettale e plebeo istoriato nei sonetti belliani, più che evocare un secolo, e oltre che sceneggiare, dietro al fasto, il degrado e la violenza del corrotto potere del Papato,