La Turchia dopo il mancato golpe (original) (raw)

Abstract

Il mancato golpe del 15 luglio è stato un fulmine in un cielo oscuro. Ha sconvolto un paese già straziato da molti attentati, che hanno reso tutti vulnerabili, e non più solo alcune regioni, come quelle del Sud-est già stremate da mesi di coprifuoco e di guerriglia, o solo alcuni gruppi della società, come quando le bombe avevano fatto saltare in aria militanti e sostenitori della sinistra, riunitisi per una manifestazione per la pace (Ankara, ottobre 2015) o per portare aiuti alla popolazione di Kobane (Suruç, luglio 2015). L’aria in Turchia era già pesante. Quando le elezioni politiche dello scorso giugno si sono risolte in un nulla di fatto per il mancato accordo sulla coalizione di governo che avrebbe rispecchiato un voto plurale, non più compatto sul partito di maggioranza Akp, era già chiaro che ci sarebbe stata una virata, anche se i fatti sono andati ben oltre. Allora i toni dello scontro politico sono diventati più che aspri e un clima di violenza diffusa ha cominciato a guastare anche la quotidianità più distratta dallo stordimento della metropoli. La vittoria del partito di Recep Tayyip Erdogan nella tornata elettorale successiva in novembre ha dato ragione a un’idea, purtroppo sempre più diffusa, che la stabilità, dicasi anche tranquillità, ha bisogno di una figura forte, dal pugno duro e alcuna capacità dialettica. Se su questo c’è stato in Turchia un ritrovato consenso, ci si dovrebbe però meglio intendere su cosa sia la tranquillità. Perché il quieto vivere non può esistere in un paese inquieto.

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