Recensione di Abram de Swaan, Reparto assassini, Einaudi 2015, in Cambio. Rivista sulle trasformazioni sociali (original) (raw)
Il Novecento è stato il secolo della guerra come fenomeno globale: il secolo di due guerre mondiali, ma anche il secolo in cui il potenziale distruttivo della guerra è arrivato a minacciare la stessa sopravvivenza del genere umano. E, tuttavia, la guerra non è stata la forma di violenza che nel corso del Secolo breve ha fatto più vittime. Stermini e genocidi – l'annientamento di massa come forma asimmetrica di violenza in cui vittime indifese e carnefici si trovano a contato ravvicinato – hanno, infatti, provocato la morte di un numero di persone da tre a quattro volte superiore a quello delle guerre. Nel tentativo di comprendere le radici e le condizioni di possibilità di questa forma al tempo stesso così diffusa e così estrema di violenza si sono impegnate una pluralità di discipline – dalla storia alla filosofia, dalla scienza politica all'antropologia, dalla psicologia sociale alla sociologia-e alcune fra le migliori intelligenze del Novecento. Si è trattato di uno sforzo collettivo che ha ampliato considerevolmente la nostra conoscenza sia dei singoli episodi, sia di alcune dinamiche politiche e sociali ricorrenti. Eppure nella comprensione delle diverse forme di annientamento di massa qualcosa ancora sfugge, qualcosa che riguarda la dimensione interiore degli attori, le loro motivazioni, le loro dinamiche psicologiche, la loro coscienza morale. Insomma: come è stato possibile che migliaia, decine di migliaia di persone abbiano voluto abbiano partecipato deliberatamente e attivamente allo sterminio di centinaia di migliaia, in qualche caso milioni, di altre persone indifese. Come è possibile ricondurre queste esperienze all'interno della nostra autopercezione come esseri morali? Sono questi gli interrogativi intorno ai quali si sviluppa anche l'indagine di Abram de Swaan in Reparto assassini. La mentalità dell'omicidio di massa, Einaudi, Torino 2015. Sulla scia delle tesi avanzate da Norbert Elias in I tedeschi: lotte di potere e ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e XX e, più in generale, della sua interpretazione del processo di civilizzazione, de Swaan affronta il tema generale dell'annientamento di massa da una prospettiva dichiaratamente sociologica che tuttavia valorizza sapientemente anche i contributi di altre discipline – storia e psicologia sociale in primo luogo-soprattutto in funzione del tentativo di cogliere il piano delle motivazioni soggettive dei perpetratori. Il principale bersaglio critico-polemico del lavoro di de Swaan è costituito dal " situazionismo " , o meglio dal ricorso al contesto microsociologico della situazione genocidaria come fattore unico di spiegazione della disponibilità soggettiva a trasformarsi in carnefici. È il tipo di approccio al quale, sia pur con significative differenze, possono essere ricondotti gli studi di Milgram e di Zimbardo, ma anche il lavoro di Browning sul battaglione 101, e che può essere riassunta nella tesi della normalità del male: i carnefici sono uomini ordinari, persone come noi che si sono trovati in condizioni eccezionali. Chiunque nelle stesse condizioni sarebbe stato indotto a fare le stesse cose. Rispetto a questa impostazione de Swaan ha buon gioco nel sostenere che proprio questi studi dimostrano in realtà come non tutti si siano trasformati in carnefici: alcuni individui sono stati in grado di resistere, si sono opposti o comunque sottratti. Per rendere ragione di questa diversità occorre integrare l'importanza della situazione con il riferimento alla disposizione soggettiva: «[…] una delle concezioni più diffuse nelle scienze umane riguarda la necessità di comprendere le persone nei termini della situazione specifica in cui si trovano e della loro particolare disposizione personale plasmata dal corredo genetico, dalla prima infanzia e dalla loro esistenza successiva nel contesto della società di cui fanno parte» (p. 212). L'idea di fondo è dunque che «qualcuno sia più disposto di altri a diventare un uccisore di massa. Questo qualcuno potrebbe essere vissuto in una società o sotto un regime che incoraggiavano all'aggressione dei gruppi stranieri, e avrebbe condiviso i codici culturali del suo ambiente sociale. Ciò avrebbe reso un'intera nazione o, se non altro, una sua particolare generazione più incline all'assassinio di massa di altre nazioni o generazioni. […] Alternativamente, la propensione di qualcuno all'uccisione di massa potrebbe essere il frutto di una eredità genetica e di un'esperienza vissuta che lo hanno reso incline a partecipare ad episodi di annientamento di massa»