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Indice 10. Jacopo della Quercia e Domenico di Bartolomeo Pardini maestri di pietra su e giù per l'Appenino tosco-emiliano-Paolo Cova .......... pag. 163 11. Circolazione di immagini, circolazione di beni: il caso dei tessuti riprodotti nelle croci dipinte umbro-toscane del XIII secolo-Silvia Battistini .
Prof. Riccardo Francovich (Università di Siena) Innanzitutto ringrazio tutti gli intervenuti a nome della Commissione Culturale del Circolo Ricreativo dell'Antella e volevo fare alcune brevissime osservazioni a proposito della mostra che si propone come prima momento concreto di un processo di socializzazione di una nuova conoscenza del territorio e dello sue culture. Questa mostra ha in sè tutte le possibilità di un'operazione corretta di ricomposizione tra ricerca e politica in un ambito locale accademico o divulgativo. Sotto diversi aspetti ha le caratteristiche di un prima e spontanea esperienza di base necessariamente quindi con i limiti delle prime esperienze. E qui potrei ricordare l'impostazione della cultura contadina come archetipo metastorico ma anche con tutti i vantaggi per lo sviluppo del lavoro derivati da un'impostazione aperta e dalla scelta di un ben definito strumento di lavoro che è costituito dalla sistematica, schedatura di materiali di aree omogenee e dall'analisi delle fonti Costituite dalla cultura materiale delle classi rurali. L'indagine sulla cultura materiale e il modo con cui è stata condotta in questo caso rappresenta effettivamente una delle vie migliori perché la comunità locale possa pervenire ad una riappropriazione culturale, politica del suo territorio e della sua storia, che è storia dei mezzi di produzione o di consumo, espressione e base delle diverse forme sociali territoriali che si sono qui stratificate e che costituiscono le testimonianze più immediate di quei processi storici. Si tratta in sostanza con operazioni del genere di operare un recupero di una dimensione che la visione aristocratica della storiografia fino ad ora aveva relegato ad una posizione marginale, dimensione che i geografi e gli etnografi avevano ereditato dal positivismo come campo astorico su cui impiantare le proprie ricerche. In sostanza cioè la cultura contadina, gli amici del gruppo della Stadura la chiamano la civiltà contadina, il mondo contadino e il suo complesso, e la sua storicizzazione ha trovato sostanzialmente nella scienza tradizionale una copertura culturale. In una ricerca come questa prospettata dagli amici dell'Antella sulla cultura materiale contadina non si richiedono esperti carismatici e non esistono ricerche miracolistiche per la salvaguardia di questo patrimonio culturale. C'è un'esperienza di base collettiva che è e mira ad essere un processo di riappropriazione della propria cultura, della propria storia e del proprio territorio. E che tipo di risposta possiamo dare a questa esigenza? Quali strutture ci possono servire? Beh, sono strutture ancora da inventare ma evidentemente non da improvvisare. Questo nuovo atteggiamento cioè necessita che unitariamente dei collegamenti con le comunità locali ma anche con la scuola e con i centri di ricerca, centri di ricerca che possono essere centri universitari di ricerca. In questo caso direi che la presenza fra noi di Pazzagli può servirà a superare alcuni dei limiti che io avevo indicato essere presenti così in modo abbastanza così leggero anche nella mostra che andiamo inaugurando. Però certo questi rapporti con il mondo accademico non devono far riprodurre quelle piccole, quelle forme di accademismo deteriore che talvolta le sono proprie. Forse gli strumenti per fare queste operazioni sono, come hanno prospettato gli amici Caselli e Guerrini nel loro, nel saggio che stiamo distribuendo, quelle unità museali sub regionali con la principale funzione di promuovere, coordinare iniziative nella ricerca, conservazione e utilizzazione politica del patrimonio culturale e ambientale locale e in questo senso la testimonianza degli amici del gruppo della Stadura, qui rappresentati dall'amico Tigrari che ha promosso quella formidabile iniziativa costituita dal museo di San Marino di Bentivoglio e realizzata, in collaborazione con il gruppo di ricercatori guidati da Poni, può essere veramente di grande aiuto. Beh, io ho chiuso così e volevo passare la parola al Sindaco di Bagno a Ripoli Riccardo Degl'Innocenti per una parola di saluto. ……………………………
IL LEGNO GIOVANILE NELLE CONIFERE: STATO DELLE CONOSCENZE
Il legno giovanile è il risultato dell'attività del cambio ancora in fase immatura. L'anatomia, la massa volumica, il contenuto di umidità e alcune altre caratteristiche sia fisiche che meccaniche risultano spesso diverse tra legno giovanile e legno maturo di una stessa pianta. Ciò può comportare rilevanti implicazioni per quanto riguarda l'impiego del legno, l'esecuzione delle prime e delle seconde lavorazioni e per l'industria della carta. La presenza di legno giovanile rappresenta, quindi, uno degli elementi più impor-tanti nella caratterizzazione del legname. Sebbene il legno giovanile sia studiato da lungo tempo all'estero, in Italia gli studi su tale tematica sono ancora limitati a poche specie, per lo più latifoglie. Questo lavoro riporta lo stato dell'arte della ricerca sul legno giovanile, in particolare nelle conifere.
Ai confini del corpo ella Grecia antica nacque il desiderio di studiare il corporeo come segno del comportamento. Un breve trattato composto da due seguaci di Aristotele (e creduto sino all'Ottocento opera autorevole del filosofo greco) definisce fisiognomica questa analisi psicosomatica, precisando il canone cui essa si riferisce: il corpo migliore sia dal punto di vista fisico (perché bello o kalòs) sia da quello etico (perché buono o agathòs) è caratterizzato dalla mesòtes, cioè dalla medietà, in quanto la virtù sta nel mezzo mentre ogni estremo rappresenta un vizio. In rapporto a questa misura la Fisiognomica pseudoaristotelica descrive una ventina di tipi lontani dalla media (tra i quali il codardo, l'ottuso, lo sfrontato, il cinedo, l'arcigno, l'irruento, il dissimulatore, il meschino, e così via) che presentano tratti fissi ben marcati che possono essere messi a confronto con il corpo degli animali e dei popoli stranieri. Chi, ad esempio, possiede pelle scura, occhi scuri e capelli crespi, assomiglia a egiziani ed etiopi che sono vili, paurosi, timorosi; 1 questo pregiudizio non viene meglio specificato, ma sembra di capire che alcuni tratti somatici, differenti dalla normalità ellenica, spieghino i comportamenti poco onorevoli dei barbari. Ha origine allora quello che negli anni Sessanta del Novecento lo storico dell'arte Ernst Gombrich 2 ha definito l'errore duplice della fisiognomica: la catalogazione estetica di immagini stereotipiche del corporeo e il pregiudizio etico, rigido e schematico, sui caratteri. Anche per questa semplicità il testo aristotelico, tradotto in latino nella prima metà del Duecento, costituisce la fonte autorevole e dichiarata di una serie numerosa di successivi testi di fisiognomica che risultano organizzati più o meno allo stesso modo: analisi delle parti del corpo, paragone con gli animali, significato morale, scelta di alcune sezioni rilevanti per delineare un carattere o un tipo verosimile. In Italia, alla fine del Cinquecento, il testo aristotelico, insieme ad altri scritti medici e fisiognomici, classici e medioevali, costituisce il punto di partenza per un'opera straordinariamente importante dal punto di vista teorico, il De humana physiognomonia (1586, tradotto in volgare dopo qualche anno con il titolo Della fisonomia dell'uomo) del mago e scienziato napoletano Giambattista Della Porta (1535-1610), che sintetizza il sapere fisiognomico antico, rafforzando il paragone tra uomo e animale anche grazie ad una serie di immagini che hanno contribuito alla fortunata ricezione europea dell'opera. Inoltre, Della Porta sottolinea il rapporto tra la fisiognomica e la medicina degli umori, quella che egli conosce anzitutto attraverso due medici greci, Ippocrate (vissuto tra V e IV sec. a.C.) e Ga
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Questo volume sulla geologia e l'archeologia del gesso è il risultato di uno studio interdisciplinare voluto e coordinato dalla Soprintendenza ai Beni culturali e ambientali di Agrigento e finanziato dallo stesso Dipartimento regionale. Il tema trattato è il gesso, minerale fra i più comuni del nostro territorio: ne viene ripercorsa la straordinaria storia, sin dalla sua formazione (circa sei milioni di anni fa), e le sue diverse forme in natura, ipogee ed epigee, per poi passare al diffusissimo utilizzo, nelle arti e in architettura, dalla preistoria fino ai nostri giorni. Un obiettivo così ambizioso non poteva mai essere raggiunto senza mettere a confronto geologi, archeologi, speleologi, storici dell'arte, etnoantropologi, linguisti. Competenze che, in una sorta di lungo viaggio diacronico e diatopico, hanno offerto la possibilità di ricollegare le aree gessose dell'Italia e del continente europeo con scoperte inedite. Nella lettura di queste pagine incuriosisce, in particolare, anche perchè poco noto, il tema legato alla tradizione della scagliola colorata che veniva realizzata ad imitazione degli intarsi in pietre dure. Una tradizione che dalla Germania si sviluppò nel '600 a Carpi, nel Modenese, fino alla Lombardia ed alla Toscana e che ha trovato oggi significativi esempi anche in Sicilia: a Caltanissetta, a Piazza Armerina, a Caltagirone, per citarne alcuni. Ma la sorpresa più interessante la riserva Sant' Angelo Muxaro, un piccolo centro dell' entroterra agrigentino, dove si è registrata la fortunata riscoperta dei riquadri di uno splendido paliotto dalla struttura marmorea, realizzato in scagliola intarsiata, attribuito al più importante maestro scagliolista italiano del diciassettesimo secolo. Per questa interessante pubblicazione, che si offre alla piacevole lettura anche dei non addetti ai lavori, desidero rivolgere un sincero ringraziamento agli esperti autori degli scritti e, in particolare, al Soprintendente Michele Benfari, per la passione e la tenacia con cui ne ha curato la realizzazione.
SUPERAMENTO DEI CONFINI ED ESPERIENZE CONDIVISE: LA VALLE CAUDINA
INTRODUZIONE.-In Italia la gestione del rischio è affidata al Dipartimento della Protezione Civile Nazionale; a livello locale, invece, i Piani attuativi sono in carico ai singoli Comuni, anche se-fatti recenti lo dimostrano-gli eventi calamitosi frequentemente ne travalicano i confini amministrativi 1. Come una vasta letteratura nazionale e internazionale ha ampiamente illustrato, infatti, la gestione emergenziale, prima, durante e dopo i disastri, è da considerarsi un'attività complessa che richiede livelli di governo del territorio ben coordinati 2. In tale quadro di riferimento che suggerisce un approccio multiscalare al risk management, appare evidente in che modo aggregazioni di comuni possano potenzialmente superare le problematiche connesse alle varie fasi sia conoscitive sia gestionali del rischio, favorendone di una lettura sistemica che superi il deficit comunicativo tra le istanze della società civile, della politica e dell'economia (Calandra, 2012). A titolo esemplificativo e nel solco dei dibattiti che analizzano, da un lato, la gestione del rischio 3 e, dall'altra, la proliferazione di enti intermedi nell'ambito del ritaglio amministrativo del Paese 4 , nel presente contributo si prenderà in considerazione il caso della Valle Caudina, un'area circoscritta dalle analoghe problematiche, seppur singolarmente appartenente alle due provincie di Benevento e Avellino dove parte dei comuni ricadenti hanno costituito un'Unione interprovinciale 5. Per questo motivo, al fine di indagare le azioni intraprese dagli attori locali e verificare le potenzialità dell'Unione in vista della riduzione della vulnerabilità ambientale a cui è soggetta l'area, dopo aver inquadrato l'ambito territoriale di riferimento, si procederà ad un'analisi dei maggiori rischi a cui è esposto, per poi illustrare un'iniziativa recente volta alla mitigazione di tali problematiche. 1. LA VALLE CAUDINA.-Lunga 10 km e larga 5, attraversata longitudinalmente dalla SS 7 Appia nonché dalla ferrovia secondaria Benevento-Cancello, la Valle è delimitata a nord dal massiccio del Taburno, mentre a sud dalla catena del Partenio che segna il confine tra le province di Avellino e Benevento, Caserta e Napoli. Benché questi due confini siano distanti, 1 Spesso i Piani mancano o non sono attualizzati (basti pensare che in Campania la percentuale di comuni con Piano è solo del 39%) (DPCN, 2020) e, in considerazione delle politiche di mitigazione preventiva, sovente sono carenti di attività finalizzate ad interventi strutturali (Gibelli, 2007). 2 Per una disamina completa su questo punto si veda, fra gli altri, Forino (2012). 3 Come classico testo di riferimento si rimanda a At Risk (Wisner et Al., 2003) che discute, in una prima parte, diversi modelli e approcci alla vulnerabilità, mentre, nella seconda, presenta una vasta gamma di casi, organizzati in base al tipo di calamità affrontata (alluvione, terremoto, siccità ecc.). La terza parte, invece, si sofferma sulle best practices da adottare in previsione della gestione del rischio. 4 Sul tale tema, in chiave comparata, si rimanda al testo di Bolgherini e Messina del 2014. Per un'analisi a scala nazionale, invece, è possibile riferirsi al Rapporto della Società Geografica Italiana del 2014 a cura di Dini e Zilli. 5 Le Unioni dei Comuni vengono introdotte nel sistema giuridico italiano nel 1990 con l'obiettivo di rispondere al trittico amministrativo di efficienza-efficacia-economicità; è una forma istituzionale di associazione che si è realizzata con lentezza, irregolarità e difformità geografiche (sul tema: Messina, 2009; Marotta, 2015; Dini e Romei, 2019).