L'autodistruzione dell'Universita (original) (raw)
Molti anni fa, quando intrapresi la carriera universitaria, quelluogo non era certo perfetto. Vi erano molti difetti, guerre intestine, docenti ben poco attenti al loro ruolo e alla loro presenza istituzionale, soprusi e clientele, e tuttavia, in virtù di un codice etico che perlomeno sapeva riconoscere la qualità della cultura, esso era popolato da intellettuali colti, capaci di esprimere nei loro testi e nei loro insegnamenti un'idea del sapere raffinata e ricca. Con il passare degli anni, specie degli ultimi, questo patrimonio non solo è andato perduto ma è stato deliberatamente mortificato e distrutto. Non sto a ripercorrere i passi che hanno condotto a questa situazione, passi normativi, il fiorire di un'etica industriale, una meritocrazia sbandierata come valore morale ma che di fatto non ha fatto altro che far avanzare la tecnocrazia, la trasformazione della creazione culturale in merce e l'affermazione del redditizio sul sensato. Oggi l'università conosce una stagione infima sotto il profilo della difesa del valore della cultura umana, costringendo tutti ad allinearsi sul nulla, su pratiche sempre più svuotate di significato e sempre più sotto poste al vaglio di un sistema di controllo che premia il numero di pubblicazioni (sempre più brevi però, ridotte a paper dai caratteri numerati, condite di abstract scheletrici e di parole chiave dal dubbio senso culturale), unicamente quelle che vengono accolte da riviste sedicenti scientifiche dove l'inglese è la tessera d'ingresso e l'internazionalizzazione purché sia, il marchio di origine controllata. La libertà di ricerca è strangolata da un'interdizione a muoversi in territorio che non fanno fatturato o non sono approvate da consigli d'amministrazione sempre più vincolati alle logiche aziendali e di connessione soffocante con il mondo delle imprese, dei brevetti e della concorrenza mercantile. Specie nel territorio dei saperi umani, in cui si pensava, come ha bene sottolineato uno studioso serio come Yves Citton nelle sue pubblicazioni poco tradotte nella nostra lingua, che il criterio di qualità fosse legato all' " interpretazione creativa " dei campi d sapere e alla " visione " , aggiungo io, cioè alla capacità di mostrare in modo critico nuovi volti della cultura e della società, o dove, per seguire Agamben, sarebbe stato meglio parlare di " studi " anziché di " ricerche " e con il solito ricatto di una verificabilità scientifica del tutto impropria, ebbene proprio qui la repressione della libera cerca, dell'originalità e della capacità di sottrarsi alla prostituzione mercantile, appare sempre più selvaggiamente scatenata (e io ne so qualcosa sulla mia pelle). Credo sia l'ora di dire basta a tutto questo, almeno da parte di chi non si rassegna a venire sempre più ossessionato da procedure di controllo e di contraffazione del senso del sapere che l'istituzione imbastardita dalla competizione finanziaria cui è condannata porta avanti ciecamente, da chi non sopporta il balbettio anglofilo dei colleghi, dal conio di sigle sempre più improbabili quanto imbecilli dietro le quali si nasconde solo la tecnicizzazione forsennata del lavoro culturale e dell'insegnamento. Dalla costrizione a esprimere i propri programmi di lavoro in obiettivi quantificabili e verificabili in termini immediati (quando si sa bene che un autentico insegnamento non può che dare i suoi frutti in tempi lunghi) e in linguaggi vecchi almeno quanto le tavole degli obiettivi comportamentali di Bloom. Da chi è sottoposto quotidianamente alla fretta del pubblicare purché sia, del cercare di inserirsi in progetti internazionali carichi di finanziamenti anche se non gliene importa nulla e nulla hanno a che fare con le sue capacità e qualità, della coazione alla assunzione di carichi organizzativi che poco hanno a che spartire con un ruolo di cultura (e non manageriale checché strepitino i tanti colleghi che mascherano la loro miseria epistemica dietro alla parata di incarichi di coordinamento, direzione, partecipazione a misteriosi organismi che sembrano moltiplicarsi sempre di più in misura proporzionale alla povertà dei loro risultati). Io non sono entrato in università per rispondere a queste richieste, per lavorare in un ente (che si voleva pubblico e di custodia della cultura viva) che è ormai un'azienda come tante altre che deve