“Eracle di vetro”. Lo studio delle gemme e delle paste vitree e un ospite gradito a Verona (original) (raw)
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In 1961 in Herculaneum was brought to light the extraordinary portico that defines the northern side of the Decumanus Maximus, with all its wooden elements conserved. Under the great porch a series of shops opened up. In the first one, set at the corner between the Decumanus Maximus and the IV Cardus, the excavators surprisingly found "a large variety of glass fragments of various colours and thickness". In the excavation journal are listed 46 glass objects. Some of these were found in a case and wrapped in cloth. Among the many objects of daily use, it is worth mentioning a bottle with a squared section which had on its bottom some circles engraved and the stamp P. GESSI AMPLIATI, the trademark of Publio Gessio Ampliato.
Pompei IX 8. I vetri e le paste vitree
Si presenta il catalogo completo del vasellame vitreo rinvenuto durante le indagini archeologiche condotte tra il 1999 e il 2004 nell'Insula del Centenario a Pompei.
in Ciappi S., Larese A., Uboldi M. (a cura di), Il vetro in età protostorica in Italia, Atti della XVI Giornate Nazionali di Studio sul Vetro (Adria, Rovigo, 12-13 maggio 2012), Fantigrafica Srl, Cremona, 2014
Abstract: The archaeological site known as MZ005S is a composite pastoral enclosure located at 2257 m altitude in Val Poré, a left tributary of Val di Sole (Trento, Italy). Fieldwork at the site included the detailed topographic mapping of the enclosure and of its surroundings, the analysis of structural components, and the stratigraphic excavation of test pits. The archaeological record and the dating obtained show that the MZ005S compound has been used since the Middle Ages to the 20thcentury.From the collected assemblage of finds, we present the study of a glass bead of the so-called “gooseberry bead” type, which is thought to be a typical Venetian production dating from the 16thto the 18thcenturies. Key Words: Glass, beads, Alps, uplands, pastoral enclosures, Val di Sole.
KOS, 2005
In torno alla metà del I secolo a.C. alcuni artigiani mediorientali, combinando l'uso di due tecniche metallurgiche antichissime, perfezionarono un modo rivoluzionario di produrre il vetro. Fin dal XV secolo a.C., in effetti, la canna da soffio per alimentare il fuoco e la fornace per fondere i metalli erano due strumenti ben conosciuti dagli artigiani e orefici egiziani. Con la prima si controllava l'azione del fuoco e attraverso la seconda si otteneva una pasta metallica fusa facilmente lavorabile. Il vetro era un materiale ben conosciuto anche dagli egizi, ma l'impossibilità di costruire fornaci capaci di raggiungere temperature superiori ai 1000°C non aveva permesso di lavorare la materia fusa, limitando così notevolmente le varietà e le dimensioni degli oggetti che si potevano ottenere. Nonostante questi limiti, superati solo con l'introduzione della tecnica della soffiatura, il vetro esercitò un enorme fascino ed è difficile pensare a un altro materiale capace di giocare un ruolo così vario. A partire dal I secolo a.C., di vetro o di pasta vitrea erano molte decorazioni architettoniche, i mosaici parietali, la fritta per produrre alcuni colori per la pittura a fresco, in particolare l'azzurro e il blu egizio, le finestre per illuminare gli spazi interni degli edifici, le lucerne, i drappeggi, gli ornamenti e alcune parti anatomiche di molte sculture in marmo e pietra, il vasellame da mensa, gli acquari, gli ornamenti, le imitazioni delle pietre e gemme più preziose, le urne cinerarie e, forse, i sarcofagi di uomini illustri, gli unguentari, i balsamari, le lastre utilizzate per la costruzione di serre, i recipienti per la conservazione degli alimenti, strumenti e recipienti alchemici di varie fogge e funzioni, alcuni strumenti ottici per lo studio dei fenomeni della riflessione e della rifrazione, le coppette usate dai medici per la suzione degli umori e del sangue e, infine, gli specchi, sia quelli utilizzati per la cosmesi che quelli ustori. Inoltre il vetro, più dei metalli, poteva assumere qualsiasi colore e una straordinaria lucentezza, qualità quest'ultima che, accompagnata dalla possibilità tecnica di rendere il materiale lavorato perfettamente trasparente, superava i limiti imposti dalle lavorazioni dei metalli e delle pietre. Plinio (Naturalis Historia, XXXVI, 68) prestò la massima attenzione alle tecniche e, alla fine del capitolo dedicato al vetro, esaltando le molteplici e sospendenti qualità del fuoco, suggerì di collocare l'arte vetraria insieme a tutte quelle arti che, grazie all'ingegno, erano finalizzate all'imitazione della natura. Il lungo elenco delle proprietà del fuoco e la consapevolezza manifestata da Plinio di come, grazie all'uso sapiente di questo elemento, si possa trasformare la materia a piacimento, investendo la manipolazione e il dominio del più potente dei quattro elementi, non è, come si voluto spesso intendere, una semplice eco della filosofia Eraclitea, bensì un tentativo di collocare l'arte vetraria in un ambito disciplinare che non è quello del semplice artigianato. Si tratta ovviamente della chimica o dell'alchimia, una disciplina che ai tempi di Plinio poteva già contare su una autorevole tradizione e che, come vedremo, era ben conosciuta dal naturalista latino. Le tecniche antiche, infatti, non sono riconducibili esclusivamente ai progressi empirici che si realizzarono nei mestieri artigianali e nelle officine dei vetrai, ma anche, e in misura rilevante, alle ricerche condotte da parte di alcune categorie di studiosi per estenderne e perfezionarne l'uso in contesti apparentemente lontani dalla vita quotidiana. Esplorando il vetro dal punto di vista della storia della scienza e della tecnica, è legittimo domandarsi se gli antichi, in particolare i greci, non abbiano lasciato qualche testimonianza significativa circa la classificazione scientifica del vetro e la sua funzione in vari ambiti dell'attività
RIASSUNTO -Fibule di vetro dell'età orientalizzante da Verucchio -Il vetro è un materiale artificiale eccezionale: riscaldandolo si possono ottenere diverse forme e grazie alla possibilità di colorarlo con colori brillanti si potevano produrre gioielli vistosi. Fra questi gioielli emergono fibule del tipo ad arco rivestito con una grande perla di vetro sull'arco. Un recente studio delle cosidette "Glasbügelfibeln" (secondo Haevernick 1959) ha mostrato, che già nel corso dell'ultimo terzo dell'VIII e durante il VII sec. a.C. vengono usate tecniche specifiche per produrre le grandi perle che rivestivano l'arco delle fibule (Koch 2010). Il vetro già all'inizio dell'Orientalizzante viene usato in un modo ottimale rispetto alle sue caratteristiche, per produrre goielli adatti a mostrare la ricchezza e probabilmente l'alto stato sociale delle donne -sia nella vita, portati sulle vesti, sia nella tomba dove queste fibule vengono trovate bruciate con la defunta o ornavano l'urna. A Verucchio e Bologna è stata rivenuta la maggioranza di dette fibule. Si poteva pensare che le fibule di vetro a Verucchio fossero state importate dal grande centro dell'Emilia. Se da un lato la ricerca ha confermato una notevole somiglianza fra fibule di Bologna e Verucchio, dall'altro la preferenza per particolari colori e la presenza di tipi diversi suggerisce che a Verucchio siano state attive una o più botteghe per la lavorazione del vetro. Come risulta anche da studi in corso su altre classi di materiali, ciò testimonia che Verucchio, in una fase preurbana, inserito in un circuito di relazioni regionali e sopraregionali, rappresentava un centro di produzione aggiornato sulle tecniche artigianali più innovative.
2015
Come erano distribuite le botteghe degli orefici nel tessuto urbano della Modena antica? In epoca medievale e rinascimentale si concentravano sulla piazza Grande, e più precisamente attorno alle absidi del Duomo e presso la sua torre Ghirlandina. Era infatti la piazza, compresa fra i due poli del potere religioso, rappresentato dal Duomo e dal Vescovado, e del potere civile con i palazzi della Comunità, il vero cuore della città. Le piccole botteghe degli orefici si collocavano, prevalentemente, al riparo delle arche sepolcrali, e cioè dei sarcofagi della Mutina romana che il sottosuolo andava restituendo durante scavi, e che venivano eretti appunto sulla piazza Grande, spesso addossati al Duomo, elevati su mensole o su colonne, orgogliosamente esibiti come monumenti celebrativi delle gloriose radici romane della città. All'anno 1680 erano registrati in Modena, capitale del ducato estense da quasi un secolo, venticinque gioiellieri di cui dieci appartenenti alla Comunità ebraica modenese. Nella piazza, già attorno al 1680 il settore meridionale del portico del Palazzo Comunale, verso la Ghirlandina, veniva detto "Portico degli Orefici". Ancora nel Settecento perdura la concentrazione delle botteghe degli orefici nella piazza Grande e nelle strade limitrofe, come il corso Canalchiaro e la via Castellaro. Dagli ultimi decenni del Settecento, con la riqualificazione della via Emilia negli anni sessanta del secolo, nell'ambito della riforma urbanistica ed edilizia voluta dal duca Francesco III d'Este, gli orefici vanno orientandosi verso quest'ultima arteria, con preferenza per il Portico del Collegio, l'elegante porticato del Collegio San Carlo o dei Nobili.