Recensione a: “L’essere umano e l’economia” a cura di Ernesto Longobardi e David Natali (original) (raw)
È stato dunque tutto un grosso sbaglio. La mia modesta conclusione è che la civiltà occidentale sia stata fondata su una idea erronea e perversa di natura umana. Insomma, scusateci, ma ci siamo proprio sbagliati»[1]. La fulminea constatazione che conclude il pamphlet dell'antropologo americano Marshall Sahlins sintetizza con precisione quello che è il punto di partenza dei saggi raccolti nel volume collettaneo L'essere umano e l'economia, curato da Ernesto Longobardi e David Natali. I sette contributi che compongono il testo, espressione delle differenti prospettive dei loro autori, sono infatti tutti attraversati da un filo comune di ricerca che ha alla base l'indagine su una "nuova antropologia". La narrazione che la cultura occidentale -attraverso i suoi maestri, da Tucidide ad Agostino, da Hobbes ad Adam Smith -ha sempre portato avanti sulla natura umana è sostanzialmente pessimista. Tende a delineare i contorni di un essere umano raziocinante tutto teso alla massimizzazione dell'utile e all'affermazione del proprio interesse. Ciò si è tradotto, dal Settecento in poi, nella figura dell'homo oeconomicus: una creatura fondamentalmente egoista, rispetto alla quale anche la socialità è spiegata come conseguenza di rapporti atti a perseguire il proprio utile . Questa categoria, rinvenibile già in Smith e nella formulazione di «economic man» di John Stuart Mill, ha trovato da allora ampia diffusione sia tra gli economisti mainstream, che tra gli antropologi economici di impostazione formalista (come Raymond Firth e Harold K. Schneider) . Questa «concezione -scrive Longobardi -che nell'economia moderna ha natura assiomatica (...) viene poi, per qualche motivo, proiettata all'indietro, alle origini degli esseri umani» (p.93). La natura umana sarebbe dunque "perversa", per usare le parole di Sahlins, fin dalla nascita della specie. Secondo la visione degli economisti classici agli albori della nostra storia ci sarebbe stato infatti un essere isolato fisicamente e psichicamente, che intesseva i suoi rapporti sociali mosso da interesse personale e che tendeva naturalmente al baratto e alla divisione del lavoro, avendo dunque iscritto nella sua natura l'orientamento a regolare i propri scambi in una dinamica di mercato (pp.94-96). I dati però, soprattutto quelli provenienti dalla paleoantropologia e dall'archeologia, sembrano raccontare una storia differente. Il ruolo del baratto nelle società primitive è stato ampiamente ridimensionato e di conseguenza il mercato, più che un istinto della specie, si è dimostrato essere una conseguenza delle trasformazioni sociali. Nelle società primitive di cacciatori-raccoglitori non c'è evidenza infatti dell'esistenza di «scambi interni di tipo bilaterale» (p.90) e «se gli scambi non esistevano, la moneta non è nata per agevolarli» (p.91). Le monete nacquero con tutta probabilità, sotto forma dei cosiddetti clay tokens, nel passaggio a società di tipo agricolo, per facilitare i conteggi del surplus produttivo. A partire da questo strumento, la successiva articolazione di strutture di scambi sempre più complesse avrebbe portato poi alla nascita del mercato vero e proprio . Sembra ormai inoltre definitivamente smentita la vulgata che vede la disuguaglianza come conseguenza inevitabile dello sviluppo sociale dell'homo oeconomicus , e insieme ad essa anche l'idea della preistoria come un'epoca di sopraffazione e violenza[6]. Con sempre più forza la ricerca specialistica appare orientata verso quanto Georges Bataille, intuitivamente, scrisse a proposito Pubblicato su: pandorarivista.it https://www.pandorarivista.it/articoli/essere-umano-e-economia-di-longobardi-e-natali/