Gilberto Severini: lettere, cartoline, canzonette, «doppiozero», 16/03/2021 (original) (raw)

Alberto Càroli - "Tutte le lettere di Firenze si bollino..." firmato IL GRANDUCA, 16 giugno 1767

Il Monitore della Toscana - Rivista della Associazione per lo studio della storia postale toscana, n. 30, 2019

Il felice ritrovamento nell’Archivio di Stato di Firenze di un documento del 1767 ha permesso di dare una precisa datazione e una motivazione certa all’introduzione dei primi bolli postali in Toscana e di superare tutte le ipotesi di utilizzo di questi che negli anni erano state fatte mancando solide basi documentarie. L’arrivo da Milano di Gaetano Rainoldi, presto nominato nuovo Direttore della Posta generale di Firenze, produce una notevole spinta in avanti all’amministrazione delle poste toscane. Uno dei primi provvedimenti presi da Rainoldi è proprio quello di regolare la gestione della corrispondenza sulla base di collaudati modelli asburgici, dove la bollatura delle lettere aveva preso avvio da non molto tempo. La bollatura rappresentava il segno evidente dell’entrata della lettera nel circuito postale ufficiale. Le due tipologie di bolli introdotti avevano ciascuno un proprio preciso significato e permettevano di riconoscere la lettera e di darle il corretto corso. La corrispondenza poteva essere individuata in tre classificazioni di lettere: quelle interne alla Toscana, quelle in arrivo dall’estero e quelle destinate a paesi stranieri. La corrispondenza della Toscana diretta nella Lunigiana rappresentava inoltre una variante interessante per la separazione di questo territorio dalla rimanente terra toscana. Altro elemento nuovo è l’individuazione di un periodo sperimentale concernente l’utilizzazione dei bolli che furono incisi nella caratteristica forma di cuore. Come avvenne con gli analoghi bolli ebdomadari milanesi, anche a Firenze ci fu un breve periodo di prova che precedette la definitiva introduzione del giugno 1767. Come improvvisamente apparvero, i bolli a cuore repentinamente scomparvero nel 1770, senza apparente motivo, e senza trovarne traccia nei documenti fiorentini sino a oggi consultati, per poi ricomparire con utilizzi diversi, nel 1775.

Sentire la corteccia. L’albero in pittura, in www.doppiozero.com, 19 dicembre 2022

Chi ha visitato la Biennale di Venezia di Okwui Enwezor del 2015, All the World's Futures, ricorderà che i Giardini erano popolati da un'inedita presenza vegetale. Una presenza immersa nel patrimonio arboreo integrato ai padiglioni nazionali, oggetto di un censimento botanico che conta, tra gli altri, platani, tigli, sofore, olmi e lecci. Almeno tre erano le opere d'arte dendromorfe, cioè a forma di albero. Le evoco nell'ordine in cui le ho incontrate, a partire dal padiglione Italia dove era adagiato a terra Dead tree (1969) di Robert Smithson. Un albero morto, secco e nodoso, con sei specchi rettangolari tra le radici e tra i rami. Malgrado resti una delle opere meno conosciute dell'artista americano, che aveva già ribaltato un tronco d'albero con le radici puntate verso l'alto, Dead Tree ha conosciuto quattro

L’ARTISTA E IL SUO DOPPIO. RITRATTI DI PITTORI DEL SEICENTO VENEZIANO

Artibus et Historiae, n. 70, pp. 61-82, 2014

La mostra, e il relativo catalogo, della pittura veneziana del Seicento tenutasi a Ca' Pesaro nel 1959, si apriva con l'Autoritratto di Jacopo Palma il Giovane [ ] 1 : una scelta in armonia con l'impianto dell' esposizione, progettata quale antologia per illustrare protagonisti e generi della cultura artistica del XVII secolo, dominato nei primi due decenni da un tenace 'tardomanierismo' che a fatica lasciò spazio a nuove esperienze e idee. Sino alla sua scomparsa nel 1628, Palma, cresciuto nella temperie del manierismo riformato con un bagaglio arricchito da esperienze romane, ne è il principe; dotato di un forte senso della personalità contribuisce in maniera decisiva al fenomeno oggetto di questo saggio, cioè la rappresentazione dell'artista nel Seicento veneziano. Il suo spiccato interesse, quasi 'ossessivo' (oltre una decina i suoi autoritratti, tra dipinti e disegni), per l'esplorazione di sé sia come pittore sia come individuo, vuoi per assicurarsi memoria eterna vuoi per esprimere la sua autostima, ha fornito un modello per le generazioni successive, anticipando pure taluni orientamenti settecenteschi (si pensi a Giambattista Piazzetta).

Requiem per un ghiacciaio, in www.doppiozero.com, 22 ottobre 2020

“Un ghiacciaio che muore ha l’aria triste e fragile, e sparisce senza far rumore”. Così nasce l’idea del funerale dell’agosto 2019, raccontato da Lacy M. Johnson (How to Mourn a Glacier. In Iceland, a memorial ceremony suggests new ways to think about climate change, “The New Yorker”, 22 luglio 2019) o da Julien Achache: “Fino alla linea d’orizzonte non si vede più la strada, né una città, né una casa, né alcun segno di attività umana. È una sensazione strana, considerando che sei venuto qui a testimoniare gli effetti dell’attività umana”.