Altri, altrove, altrimenti (original) (raw)

L'altrove della traduzione.

Il passaggio da una lingua a un'altra è traslazione più che traduzione, trasporto più che introduzione. (A. Bensoussan) La traduzione può svolgere un ruolo d'innovazione, arricchendo la lingua del paese d'arrivo. (M. C. Batalha) Ciascuna traduttrice, ciascun traduttore assume nei confronti dei testi, autori, società e ideologie dominanti con e in cui lavora posizioni variabili, mobili e continuamente negoziabili. (M. Baker) Voglio intraprendere una pratica della traduzione speculativa, provvisoria e interventista. (T. Niranjana) La traduzione densa potrà spinger[ci] ad andare oltre e a intraprendere il più difficile compito di giungere a una forma di rispetto per l'altro. (K.A. Appiah) La scrittura come traduzione da un metatesto culturale, che non è un testo originale, quanto piuttosto un originale immaginario. (P. Bandia) Nell'era degli attacchi informatici, futuro teatro di guerra, futura zona traduttiva sarà il terreno elettronico. (E. Apter) L'importanza di divenire traduttori perpetui per porci a leggere un mondo plurilingue. (S. Mehrez) Traduco, dunque sono. (J. Lahiri)

Io e gli altri

Io e gli altri. Dall'identità alla relazione

This essay has as a goal to describe the link between identity, relationship and human corporeity, which apparently are realities so different between them. The reason of this link depends on the fact that the origin and destination of personal liberty is to be found in the relationship of each one of us with other people.

Nessun altrove

Dove sono finiti i Rohingya? Sono andati anche loro in vacanza? In quale oscurità sono (ri)precipitati? Neppure un anno fa ce li servivano a pranzo e a cena. Un moto di indignazione non glielo negavamo. Poveri, abbastanza neri, prolifici, musulmani, ma molto distanti. Era il loro unico pregio, oltre a quello di consentirci di parlar male di una ex immacolata esaltazione come Aung San Suu Kyi, caduta in disgrazia nei nostri teneri cuori che adesso le strappano di dosso le medaglie che generosamente le avevamo conferito. Nessun video afflitto inquadra più questa popolazione indefinibile se non per via delle sciagure incomprensibili che patisce e la sua maestosa impotenza. Se Aung San non fosse stato ucciso La Birmania dorata sarebbe diventata Un luogo di pace canta una tarana –canzone poetica rohingya raccolta dalla studiosa malese Kazi Fahmida Farzana nel suo bellissimo libro Memories of Burmese Rohingya Refugees. Contested Identity and Belonging, Palgrave Macmillan, 2017.

Massimo Campigli 1895-1971 : essere altrove, essere altrimenti

2001

Il famoso mistero femminile non viene dalla coscia… è una specie di musica di fondo… oh non captabile come niente… Céline 1. E' ben delineato il tempo primo, d'incubazione e costituzione di certezze, della pittura di Massimo Campigli. E', nella Parigi dei primi anni Venti, la determinazione d'una volontà, prima ancora che d'una vocazione. D'una lingua, mediata dalla scoperta del carattere stesso che l'artista va scavando di sé, e delle contraddizioni sottili e trepide che lo agitano. D'un mondo, che sa di sé l'impulso a farsi forma, in pittura e solo in pittura. Certo, una preistoria è ben individuabile. La tensione primaria a scrivere, a farsi uomo di parola, è non meno impellente, in quel cercarsi iniziale: è quasi una sorta di avvertimento ancora indistinto, ma non eludibile, d'ansie creative, che vanno cercando contezza di sé, e che lo accomuna ad altri della sua generazione, a cominciare dal de Pisis con il quale condivide precoci affinità parigine. Anche così, e non solo come egli stesso motiverà, con il gusto sottile della sprezzatura e dell'understatement suoi tipici, si giustifica il suo debutto in ambito giornalistico, oltre che la precoce e, con il senno pittorico di poi, atipica partecipazione alla vicenda di "Lacerba" 1. Campigli scriverà tutta la vita, d'altronde, con stile limpido e dolce, utilizzando con sapienza un codice retorico tra la confessione laica e uno scacco continuo al super-ego protratto sino alla civetteria. E sarà una scrittura in grado di orientare in modo lucido-e certo programmatico-la gran parte delle letture critiche, come ipnotizzate dal gioco abile di presenza e ritrosia che l'artista vi dipana. Si tratta, beninteso, sin dall'autopresentazione nel primo libriccino Hoepli-Scheiwiller del 1931 2 , di testimonianze preziosissime, ove le si intenda per ciò che sono, una funzione non secondaria, e anzi integratissima, del mito straniato che l'artista va, con pazienza e rigore, costruendo negli anni. Eloquente da tal punto di vista, e pertinente al tema della sua esperienza giornalistica, è ad esempio il testo di memorie Il giornalista Massimo Campigli: Sì, caro Colussi, sono stato giornalista, a Parigi, dal 1919 al 1927. Il "Corriere della Sera" avrebbe forse avuto la mano più fortunata scegliendo per quel posto un giovane più ambizioso di me che subito mi diedi con tutta l'anima alla pittura. Dipingevo tutto il giorno e solo la sera diventavo giornalista, strappandomi con rammarico al mio caro quartiere di Montparnasse, appena in tempo per il primo abbonamento telefonico con Milano. Quando Croci era a Parigi bisognava anche fare di volata i cinque piani di casa sua per prendere il 'pezzo'. Croci era ancora a tavola, passata alla macchina da scrivere tutto congestionato, scriveva tre o quattro righe di 'cappello' e mi lasciava andare: "Faccia lei". Il lavoro era duro e finiva oltre le due di notte. Avevo poi un'ora buona di tragitto per andare a letto. Un taxi ogni notte sarebbe stato troppo caro. Avevo uno stipendio relativamente buono, ma dovevo pensare anche alla madre e alle sorelle a Firenze. La pittura costava molto e non fruttava nulla. Pur di avere un vero studio abitavo lontanissimo ed era uno studio che solo la mia passione poteva trasfigurare in un'abitazione decente. Accadeva che in certe serate più calme riuscivo a scappare dalla redazione in tempo per l'ultimo metro, avvertivo la telefonista che rinunciavo a tale e tal altro abbonamento e che mi passasse l'ultimo al numero di casa mia. E scappavo con in tasca le ultimissime notizie che ci forniva il "Matin". Il segretario di redazione a Milano, comm. Marchiori, che pur mi teneva in sospetto, non si accorse mai di questa indisciplina. Appena giunto a casa, trafelato, dettavo il pezzo. Sotto di me abitava un pittore con la moglie. La mia dettatura in piena notte non poteva non svegliarli e devono avermi mandato molti accidenti. Un giorno il pittore mi fermò per le scale, si fece conoscenza, lui non sapeva nulla di me, si parlò gentilmente d'una cosa e dell'altra e finì col dirmi che gli sembravo un tipo 'mistico'. Mi spiegò poi che lui e la moglie fra tante congetture si erano accordati nel pensare che la mia tiritera notturna doveva essere una preghiera di qualche religione sconosciuta. Furono anni di grande sforzo. Ma il lavoro giornalistico fu per me una soluzione felicissima del problema del "primum vivere" durante gli anni di lenta formazione della mia pittura. Quando nel 1927 il "Corriere" dovette 'allinearsi' diedi le dimissioni non per chiaroveggenza politica ma perché c'era un pretesto per ottenere l'indennità. Potei vivere così più d'un anno, tutto dedito alla pittura e nel 1929 ebbi un primo buon successo 3. Di assai poco conto è per certo la breve tangenza futurista, ma soprattutto, pare di poter affermare con qualche certezza, di marca ancora letteraria. E' il clima dell'Ecole de Paris, piuttosto, agli inizi del decennio Venti, a orientare Campigli verso una pittura con la quale, è bene avvisare, egli non ha alcuna preventiva dimestichezza tecnica: è ancora, dunque, un voler essere, una scelta volontaristica che non transita per la scoperta di un talento, e piuttosto per una determinazione-e si farà lavoro tenace, studio "matto e disperatissimo"-che è ancora tutta della mente, frutto del dialogo serrato e impietoso che sempre l'artista intrattiene con se stesso. 2. Più che il racconto autobiografico di quel tempo messo a punto in Scrupoli, 1955 4 , al quale pure si tornerà, è ai quadri del tempo, e alle occasioni, che occorre andare per comprendere la griglia dei riferimenti che l'artista sceglie per sé in queste, sono le sue parole, "tentativi contraddittori". Campigli trascorre una stagione da purista innamorato del nomos cubista, della certezza (ma era, invece, un sogno, un'illusione sublime?) d'un principio ordinatore delle visioni del mondo, d'un classico che, attraverso i secoli, ogni volta può riemergere come principio di "verità generale": avrebbe detto Carlo Emilio Gadda, altra grande coscienza del secolo, "come pensiero che, attraverso fortune, non intermetta dall'essere eterno". Se l'incunabolo di La famille, 1920-1921, mostra una palese declinazione su Léger, ma ben al di qua di una qualità pittorica accettabile, assai più interesse mostrano lavori come Joueurs d'échecs, 1921, e Les dévideuses, 1922 (quanto debitrici queste, per clima figurale, di opere come la Fanciulla col linoleum, 1921, di Casorati?), non a caso scelti come testimonianze di questa stagione nella monografia di Cassou del 1957 5. Léger, certo, ma soprattutto il rappel à l'ordre di Ozenfant e Jeanneret nell'atmosfera de "L'Esprit Nouveau", e forse, assai più che non si creda, il riferimento critico al Severini di Du cubisme au classicisme 6 , ponte verso una cultura italiana alla quale Campigli non cessa di guardare con straordinaria attenzione e informazione, anche per il tramite di un altro Italien de Paris, Mario Tozzi 7. Si tratta di dipinti echeggianti il Carrà metafisico, ma di secchezza casoratiana, come per le vie di un pierfrancescanesimo rastremato a sigla stilizzante. E', ora, una certezza che ispira quella asciuttezza come metallica, dalle linee scandite e nitide a comporre tarsie d'uno spazio orgoglioso della propria bidimensionalità, che conviene alla profondità della convenzione prospettica solo per rapporti di piani paralleli e verticali, a organizzare forme ieratiche, di fissità sorgiva, venate da quel sospetto di stilizzazione volontaristica che sarà del déco e che è dedotto dal gelo linearistico della cultura mitteleuropea del quale, va detto, in pari date Casorati va liberandosi. Certo, in lui contano assai più che in altri, in questo tempo, anche poggiature di cultura tedesca, il clima latamente neo-oggettivo 8 del quale egli percepisce certo la continuità con la metafisica italiana. Ma altro è l'aspetto che, nella prospettiva degli svolgimenti futuri, va rilevato. Espliciti sono i riferimenti al gioco nei Joueurs d'échecs, tanto quanto le lifelike statues di Les dévideuses sono anticipatrici delle variazioni infinite di gestes blancs ludici, diabolo in testa, del futuro. Campigli apre da subito, nelle sue introversissime iconografie straniate in araldica, la questione del gioco come figura mentale: è un gioco che eredita, per carsiche vie intellettuali, dall'idea d'arte en acrobate tra Otto e Novecento, e che si proietta verso misure di primarietà antropologica, così come chiariranno uno Huizinga o un Caillois 9. Né va scordato che La scacchiera davanti allo specchio di Massimo Bontempelli data sintomaticamente al 1922 10. Scacchista, d'altronde, e metodico giocatore, Campigli è non casualmente anche nella vita. L'artista descrive tra i suoi passatempi, oltre alle parole crociate, un solitario che ho inventato io: appassionante e difficile quanto gli scacchi. E, beninteso, gli scacchi; e testimonierà Enrico Emanuelli: Naturale che sia diventato un imbattibile giocatore di scacchi e che abbia inventato un solitario a carte, ma tanto complicato da non riuscire mai ad insegnarlo a nessuno 11. D'altronde, anche una prova narrativa come Dialogo misterioso, pubblicata tardivamente ma ispirata al periodo della prima guerra mondiale, ha per snodo proprio gli scacchi 12. Già in quei primi anni Venti, dunque, schema fondativo è la figura del gioco, quasi a produrre un ulteriore gradiente astrattivo al valore di sacro domestico che è, parimenti, sorgivo in queste iconografie aggiranti l'assedio del narrare. La simmetria m'affascina: più la pratico e più mi appare misteriosa, dell'ordine sconcertante delle cose che sono doppie o simili o ripetute. Sicché queste donne sembrano idoli, totem o giocattoli fatti al tornio. Non c'è traccia d'ironia ma un'esitazione tra il culto delle cose supreme e il gioco, che può essere cosa grave quanto il culto 13 .

A un passo dall'Altro

Autori: Barbotti Marta, Casarotti Benedetta, Lena Lucrezia, Prelli Francesca, Romagnoli Massimiliano, Zatti Simone Parlare oggi di indifferenza non significa solo gettare uno sguardo sui drammi del secolo scorso, di cui Liliana Segre è eccezionale testimone, ma anche riconoscere in essa uno –forse il più grande – male dei nostri tempi. L’indifferenza emerge prepotentemente «nel momento in cui non riusciamo più a volere bene alla realtà, nel momento in cui ci sembra che nessun altro ci voglia bene» Essere indifferenti significa non riuscire ad instaurare i giusti legami con il mondo esterno e con le altre persone, oltre che rinunciare a ricercare attraverso gli altri la nostra vera natura. La condizione storica attuale ci mette di fronte al pericolo di una recrudescenza di questo male: privati della presenza dell’altro, rischiamo di chiuderci in una monade, indifferenti a tutto e a tutti. Tuttavia, proprio nell’esperienza della distanza ci è stata data la possibilità di ridefinire i nostri rapporti con gli altri, arricchendoli in modi che non ci saremmo mai immaginati; paradossalmente, la distanza ha permesso di sentire l’altro in un modo nuovo. Scopo di questo lavoro sarà dunque cercare di esplorare il rapporto tra indifferenza e distanza, laddove la prima non è immediata conseguenza della seconda, anzi: una giusta distanza è presupposto fondamentale per creare una comunità non indifferente, come direbbero i porcospini di Schopenhauer. In questo senso, si cercherà prima di tutto di mostrare, analizzando l’esperienza totalitaria novecentesca, come proprio la fusione totale e la cancellazione di ogni distanza creino l’indifferenza, che del totalitarismo è componente essenziale. In seconda battuta, ripercorrendo il pensiero di M. Scheler, E. Mounier ed E. Stein, si mostrerà come sia possibile pensare i rapporti interpersonali e comunitari proprio a partire dalla dimensione della distanza.

L'altro.

La prima domande che ci si pone è perché Dio abbia creato il mondo.Egli ha voluto abbandonare la solitudine, uscire fuori da sé creando l'altro.Quindi, la vera creazione è proprio questa : L'ALTRO. Si prendano di esempio Adamo ed Eva: sembrano incapaci di convivere con le loro differenze e non si adattano nemmeno ad accettare le alterità di Dio. Si intuisce che l'altro assuma la figura dell'imprevisto,dell'imprevedibile . Io e altro sono impegnati nella storia fatta di fasi della vita incompiute e momenti critici. Es. → Caino e Abele. Ogni uomo è opposto all'altro proprio per il fatto che ciascun uomo è fratello all'altro.Ognuno è chiamato ad alimentare la fraternità universale e ogni altro non riesce che ad opporre la violenza e la sopraffazione. Apparentemente, la violenza sembra avere origine dal silenzio o dall'incapacità di comprendere le esigenze dell'altro. (Storia di Caino e la fondazione di Enoch ed Enos) Capitolo 1. Chi è l'altro? Nella seconda metà del '900 si avvia una riflessione sul tema dell'alterità nel tentativo di trovare possibili percorsi che fossero in grado di considerare possibili tracciati sia pratici che teorici sull'argomento. Il punto di partenza comune sembra quello di non dare per astratta l'alterità ,ma di esercitare l'esperienza dell'altro attraverso i meccanismi che promuovono la giusta relazione tra identità personale e alterità dell'altro. Importante è la consapevolezza del limite della condizione umana. Esso è consapevole del fatto che nessuno di noi può essere totalmente l'altro , ma prende atto che la ricerca della propria identità passa all'interno delle relazioni con gli altri.Quindi, l'altro oscilla tra l'omologazione e demonizzazione.

Il dolore dell'Altro

Secondo il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche se c’è sofferenza nel mondo ciò che importa è che qualcuno sta soffrendo. Quando una persona sente dolore gli si rivolgono parole di conforto, “a lui si guarda negli occhi”1. Come osserva Mulhall il dolore di un Altro non è semplicemente un fatto fra gli altri che lo riguarda, non si può trascurare di osservarlo, al contrario si tratta di una condizione che avanza una pretesa. Richiede una risposta… da me. Rispondere ai dolori degli altri si configura come una caratteristica del nostro essere umani, mancando ciò o non si è compreso il significato stesso della parola “dolore”, oppure si imbocca la via della vuotezza spirituale e quindi dell’indifferenza. Cavell in Must we mean what we say? introduce il concetto di riconoscimento, secondo il quale non basta che si sia certi che un essere umano soffre. È altresì necessario riconoscere questa sofferenza, pena il rifiuto del concetto di relazione interpersonale e quindi la perdita del concetto di persona. Il riconoscimento di cui parla va oltre il sapere, non per quanto riguarda il piano del contenuto, ma in quanto pretende che si faccia qualcosa sulla base di questo sapere.

La storia, le storie, l'altrove

2012

Note e discussioni sul convegno “Antropologia e Storia: un rapporto problematico”, tenutosi nel Dipartimento di “Storia, Culture e Religioni” dell’Università “La Sapienza” di Roma il 10 maggio 2012.