Arnaldo Momigliano, l’Istituto di Studi Romani e una mancata celebrazione di Mussolini~Augusto, in Augusto e il fascismo. Studi intorno al bimillenario del 1937-1938, a cura di M. Ghilardi e L. Mecella, Città di Castello 2023, pp. 345-389 (original) (raw)

Augusto e il fascismo. Studi intorno al bimillenario del 1937-1938, a cura di Massimiliano Ghilardi e Laura Mecella, Città di Castello 2023

Emilio GEntilE alcuna scossa violenta; anzi, risanandola delle scosse che aveva subito negli anni delle guerre civili 2. Nel realizzare una «vasta e profonda riforma degli ordini politici» per il «consolidamento delle sorti del regime romano», Augusto aveva dato prova «di elasticità, di prudenza e, soprattutto, di costanza e di fede nelle possibilità offerte al vaglio della sua esperienza» 3. Dopo essersi soffermato sugli aspetti principali della riforma dello Stato romano operata da Augusto nell'ordine politico, militare, territoriale, sociale e religioso, Bottai affermò che nei criteri, nel metodo e nei risultati, «alcuni elementi della sua politica, obbiettivamente rilevati e considerati» consentivano di parlare della «modernità di Augusto», che poteva esser anche considerata «la nostra "antichità"», nel senso che dietro «l'aspetto odierno dei problemi della nostra vita politica, sociale ed economica si profilano sempre, alla nostra coscienza e alla nostra memoria, aspetti più o meno lontani nel tempo, più o meno remoti, degli stessi problemi» 4. Di conseguenza, nel mettere a confronto l'Italia di Augusto e l'Italia di Mussolini, Bottai concludeva che la storia mostrava «due grandi Capi alle prese con molti problemi uguali o simili o tra loro assimilabili, che vi danno, ognuno, soluzioni proprie del loro tempo», anche se, precisava Bottai, «a guardar nel profondo, le differenze delle soluzioni si attenuano, ove si badi più alla sostanza che alla forma dei problemi»: ed è questo, che ci commuove; questo ritrovare, nel profondo, quell'unità di concetto e di metodo, che fa della politica italiana, attraverso i secoli, nei tempi e nei climi storici più diversi, una politica. Inconfondibile, per equilibrio umano, per armonioso senso dei rapporti, per vivace intuizione della realtà. Guardate, da un secolo all'altro, il Capo italiano come agisce dinanzi alle situazioni rivoluzionarie. Con quale rispetto delle forme create, con quale azione dal di dentro degli istituti, senza distruzione, senza «terrori», senza stragi. Sopravviene; e ha l'aria di accettare tutto quello che trova. Ma tutto, senza scosse, senza rovine, sotto la sua azione si trasforma. La rivoluzione, che era nelle cose, non diviene mai un astratto piano dottrinale, ma opera dalle cose,

Italianistica universitaria durante il fascismo. Momigliano, Russo, Sapegno, in Occasioni leopardiane e altri studî sull'Otto e sul Novecento, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 527-634

applicative, e se, ancora, la coincidenza pragmatica crociano-gentiliana concepisce un'enorme lacuna istituzionale e comunicativa fra legislatore e interprete, Νοµοϑετης e δικαστης, restituendo la facoltà di guicciardianiana nomogenesi, di fonte d'autonoma legiferazione, proprio al giudice, al governo, alle sedi alle quali il diritto post-Rivoluzione francese aveva sottratto tale facoltà, sintetizzandola nel potere del libero e polirappresentativo parlamento. Da Croce e da Gentile escono a pezzi Montesquieu e il concetto di paritetica tripartizione dei poteri: il «potere legislativo» è «emanazione pure esso del Governo»2, e il resto è silenzio del diritto generale; non però del potere, ovvero del diritto particolare eretto a sistema di microgoverno, data l'ampia liceità di «atti creativi dello spirito» sugli spalti intermedî e sugli spalti inferiori del tragico teatro del ventennio. Ogni dittatura, più di qualunque altro regime, contempla immense paludi di vuoto, veri deserti d'anarchico Χαος, pascoli d'arbitraria e irrelata libertà di singoli, gentiliani «atti creativi dello spirito»: pare di vedere una topografia manzoniana, con Don Rodrigo, con il Griso, con il Nibbio e (perché no?) con una Lucia costretta ad essere più speculativa, più previdente e sollecita dell'avvenire coniugale, innamorata eccome di Renzo e perciò condotta una buona volta a "far la voglia del Marchese". Di questi ingenti paesaggi di deregulation etico-giurisprudenziale (l'altra faccia della moneta della dittatura) s'avvantaggiano le seconde fasce sociointellettuali, insomma la classe del notabilato locale, dell'autorità periferica, della borghesia mercantile e professionistica: «dittatura» è sempre termine selettivo, non vale mai per tutti, e implica vaste zone di licenza, o di prateria di «atti creativi», per di più hegelianamente ineluttabili; proprio per questo essa piace ad alcuni; proprio per questo moltissimi altri la odiano e continueranno a odiarla. Ed è perfettamente credibile anche il processo inverso: dalla deregulation, dalle aree di disimpegno nella normativa sociale e morale si risale sempre (sottolineiamo l'avverbio) ad una dittatura, ad un centro di potere, ad una ratio imperandi illiberale e profondamente iniqua, spesso identificabile nella personalità mitizzata e enfatizzata, nell'uomo di Giove, o della Provvidenza o d'altre secolarizzate divinità. Tale riflessione sulla dottrina giurisprudenziale degli stati e delle forme di stato è suggerita da un volume del 1944 (e sia pure ristampa, ma rielaborata, di precedenti edizioni), finito di stampare il 30 aprile (cfr. p. 480): Gentile è morto da quindici giorni, la repubblica di Salò è, per così dire, in pieno vigore, e la prefazione, scritta il 1 gennaio ad Arcisate (Varese), e destinata ai tipi della CEA (Casa Editrice Ambrosiana -«Milano, Corso Buenos Ayres, 14»), ovvero allo Stabilimento grafico R. Scotti di Milano-Brugherio, non fa il minimo cenno al discorso capitolino di Gentile del 24 giugno 1943, l'estrema, parenetica riproposta della concezione idealistico-attualistica dell'unitarismo statale, del supremo «atto» che tutto sussume. Proprio da quelle aree che per il fascismo sono di disinteresse "strategico" (beninteso, aree rigorosamente circoscritte, nel caso degli universitarî e degli intellettuali in genere, e relative al solo esercizio tecnico di peculiari competenze culturali) può scaturire una voce così libera, nel campo filosofico-giuridico, sulla linea geografica Venezia-Milano, nell'Italia repubblichina. Stato patrimoniale-Stato di polizia-Stato di diritto: e l'ultima fase dell'evoluzione è posta al culmine d'un progresso che relega nella dietrologia il secondo stadio, e che non è concepito soltanto come miglioramento giuridico-istituzionale, ma quale meta (contro il pensiero di Croce e di Gentile) d'una nobile e moderna linea di riflessione politologica. Se tali concetti, ben più congrui ad un anglofilo liberalismo che ad uno stato di polizia, possono essere stampati (come in effetti è avvenuto) a Milano-Brugherio, a fortiori l'italianistica, pur con molte cautele anche nella comunicazione bilaterale e epistolare, può attuare il proprio affondo tecnico nei campi più demarcatamente specialistici e autonomi delle sue discipline. Certo, chi va cercando, in sostanza, il quieto vivere, deve prestare molta attenzione; chi ci tiene di meno, può incontrare un'esperienza curriculare emblematica quale è stata quella di Luigi Russo3: aspirante alla cattedra di letteratura italiana a Roma, votato come vincente, a questo fine, in una terna che oltre a lui comprende Sapegno, e poi, ex aequo, Calcaterra e Toffanin, ma alla fine posposto allo stesso Sapegno (probabilmente per pressione di Mussolini su Bottai)4 a causa dei precedenti antifascisti che il critico siciliano ha accumulato a Firenze. Ma ciò che a Russo è stato concesso nel 1934, anche con l'aiuto di Gentile (ovvero la docenza a Pisa), gli viene in parte sottratto nel 1948 da Guido Gonella, che lo rimuove dal prestigioso ruolo di Direttore della Normale5, dopo che Luigi si è presentato alle elezioni del 18 aprile di quell'anno, come indipendente nelle file del Fronte popolare: si colpiscono insomma l'uomo di sinistra e il rappresentante dello storicismo laico, e certo non in nome dell'epistemologia novecentesca, o di Braudel o di Saussure. Da qui la vibrante interrogazione parlamentare di Calamandrei a Gonella e il moto di solidarietà intellettuale per Russo dei migliori studiosi italiani6. Insomma, siamo al «nuovo regime» a cui si riferisce Paolo Simoncelli. Ed è forse vero che per Russo è giusto parlare, più che d'antifascismo, di «afascismo»: nell'ottica di Giovanni Falaschi7 la linea fondamentale dello sviluppo critico di Russo rimane quella che tende a «far diventare l'idealismo l'asse portante della cultura durante il fascismo», «non della cultura fascista»8; e il suo «non fascismo» diviene «problema d'un rapporto», poiché «consiste nelle condizioni d'una convivenza»9. Né è meno sicuro che la scoperta di concetti etico-politici marxiani avviene, in Russo, soltanto nel dopoguerra; ma rimane il fatto che, in un'angolazione normalistico-pisana, per Russo (l'«immane Russo», come lo definisce Arangio Ruiz nelle sue lettere a Gentile), è più pericoloso l'essere frontista-popolare nel 1948 che essere non fascista durante il fascismo: la vera situazione di pericolo consiste, in Italia, nell'essere comunista. E il requisito più importante per non avere problemi è quindi non essere comunista. La linea di continuità è in tal senso impressionante, poiché il problema è sempre lo stesso, e riguarda proprio questo requisito precipuo che era già tale dal 1922 o, per andare ancor più a ritroso, dal biennio rosso: poi, passato il "pericolo", qualunque regime, in fondo, poteva affermarsi.