Northrop Frye Research Papers - Academia.edu (original) (raw)

Tedesco di origine ebraica nato a Berlino nel 1892, Erich Auerbach scrisse il suo capolavoro, Mimesis, negli anni tragici della seconda guerra mondiale, dall’esilio di Istanbul, dove aveva fortunosamente trovato rifugio con la famiglia... more

Tedesco di origine ebraica nato a Berlino nel 1892, Erich Auerbach scrisse il suo capolavoro, Mimesis, negli anni tragici della seconda guerra mondiale, dall’esilio di Istanbul, dove aveva fortunosamente trovato rifugio con la famiglia dalle persecuzioni naziste per insegnare filologia romanza nell’università. Nella generale penuria di libri occidentali, poté tuttavia consultare ripetutamente la Patrologia latina del Migne nella Biblioteca del convento domenicano di San Pietro in Galata, grazie al permesso del nunzio apostolico di allora, Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII. Morì negli Stati Uniti nel ’57, esattamente lo stesso anno in cui Northrop Frye pubblicava il suo, di capolavoro, quell’Anatomia della critica destinata a diventare il punto di riferimento per molti teorici e comparatisti d’oltreoceano. Nato nel 1912, e dunque di una ventina d’anni più giovane di Auerbach, Frye ha la fortuna di crescere nel pacifico e opulento Canada e poi di formarsi nei prestigiosi college di Oxford; compie tra l’altro studi di filosofia e di teologia, divenendo ministro della Chiesa canadese nel 1939. Il grande codice, il libro su cui mi soffermerò maggiormente in questa conversazione, esce nel 1982, nove anni prima della morte dello studioso.
Difficile immaginare due personalità critiche più diverse. Auerbach, erede del grande storicismo tedesco, privilegia nel suo metodo la discontinuità e la rottura, e valorizza le partizioni di medio-lungo periodo; figlio sui generis della grande famiglia della critica stilistica, prende spunto nelle sue analisi dai fatti di stile ma poi dal particolare risale all’universale misurandosi con le grandi categorie della storia della cultura; diffida delle astrazioni e in Mimesis affronta lo stesso concetto di “realismo” non come un dato ontologico ma come qualcosa che si chiarisce ed assume una forma percepibile solo nel divenire storico. Frye, invece, adotta il procedimento esattamente inverso: dall’universale scende al particolare rintracciando le prove della continuità e persistenza nel tempo di alcuni grandi archetipi universali desunti a priori; trascura, spesso, la filologia e concepisce la storia letteraria come un’attività secondaria, subordinata alla deduzione di quelli che lui chiama “modi”, ed è al contrario di Auerbach di una puntigliosità certosina nel disegnare schemi, classificazioni e tabelle; concede ben poco all’analisi dello stile e assume di preferenza l’elemento tematico e antropologico come centro della sua riflessione. La sua curiosità per i fatti più diversi della cultura è tale da rendere vana ogni definizione sintetica del suo metodo. Ha ragione, probabilmente, Remo Ceserani quando scrive che in lui umanesimo tradizionalista e tendenza quasi spericolata all’innovazione radicale ed estrema convivono in modi che possono apparire persino contraddittori.
Difficile immaginare due personalità più distanti, dicevo, eppure, un confronto appare non solo possibile, ma direi quasi inevitabile; perché sia Auerbach che Frye sono stati probabilmente (insieme, forse, a René Girard) gli unici critici letterari di statura internazionale del Novecento che abbiano fatto i conti davvero con la Bibbia: entrambi hanno visto nelle Sacre scritture, per motivi in parte simili e in parte diversi, come vedremo, il più influente incunabolo della letteratura occidentale, e ne hanno indagato l’eredità non tanto sul piano dei contenuti dottrinali (che è il terreno della teologia e della storia delle religioni), ma su quello delle forme narrative e simboliche. Per entrambi la Bibbia è in primo luogo narrazione, mythos, e modello di altre narrazioni. E per entrambi il problema centrale è costituito da una parte dallo stile e dall’altra dal carattere “figurale” della narrazione biblica.
Auerbach pone particolare attenzione al dato stilistico e colloca, soprattutto per questo motivo, il testo biblico alle origini del realismo moderno. Quanto al figuralismo, esso è considerato dal filologo tedesco come un fenomeno di storia della ricezione del testo biblico e più esattamente come un momento di svolta dell’esegesi patristica, e dunque come elemento-chiave per comprendere l’intera cultura tardoantica e medievale, e non solo sulla produzione intellettuale di carattere strettamente religioso. Frye, al contrario, concentra la sua argomentazione sul versante dell’immaginario e sul carattere simbolico-archetipico della “figura”, e quindi sulla figuralità della trama. Anche il critico canadese scorge nel figuralismo l’aspetto qualificante del testo biblico, ma a differenza di Auerbach lo vede agire nel testo e non nell’interpretazione, ipotizzando una dimensione figurale, diciamo così, “immanente” alla Bibbia, presente in re e non limitata all’esegesi cristiana. Cosicché, il carattere tipologico delle singole figure che compongono l’immaginario biblico, così come il carattere tipologico della trama del racconto biblico, sono da lui considerate, diversamente da Auerbach, come elementi oggettivi e non come risultati di una appropriazione culturale. Infine, nel Grande codice, si fa solo occasionalmente menzione di quanto la Bibbia presterà alla letteratura futura: di fatto, l’affermazione blakeiana da cui è ricavato il titolo del libro («The Old and the New Testaments are the Great Code of Art») non è affatto dimostrata, o è dimostrata a un livello che non è quello dell’arte o della letteratura ma quelle delle categorie conoscitive (e in particolare per ciò che concerne la nuova nozione di temporalità inaugurata dal testo biblico).

NB: questo file contiene solamente le pagine iniziali del saggio.