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Lo studio si configura come un viaggio all’interno della più complessa opera leopardiana: lo scartafaccio che, posto nel territorio anfibio del journal d’intime e philosophique, continua a sfuggire a una definizione rigida e univoca.... more

Lo studio si configura come un viaggio all’interno della più complessa opera leopardiana: lo scartafaccio che, posto nel territorio anfibio del journal d’intime e philosophique, continua a sfuggire a una definizione rigida e univoca. L’itinerario assume la forma di una meditazione avente come base tre punti di appoggio: la natura, la ripresa dell’antico e l’altrove come spazio poetico che diventa dimensione geografica dell’immaginario. La forma meditativa si è rivelata efficace e congeniale, al fine di giungere, momento dopo momento, attraverso il contatto con ognuno dei punti scelti, alla consapevolezza della minuta statura dell’uomo nei confronti dell’infinita universalità che lo circonda. Dimensione piccola e in qualche modo limitata che però è portatrice di una rivelazione titanica e universale.
Dall’esplorazione del continente della Natura il mondo leopardiano si configura come un universo che oscilla tra il caos primordiale e una temporanea età dell’oro, seguendo un cerchio di produzione e distruzione in cui l’uomo appare come il «neo», un «bruscolo» tra la vastità delle cose esistenti. Da un’idea di Natura definita come «madre benignissima del tutto», universo in cui «tutto è armonia ma soprattutto niente in essa è contraddizione», l’uomo appare come la vittima sacrificale necessaria per la conservazione della specie. Tuttavia, nel 1824 Leopardi introduce e adotta la logica del paradosso: attraverso la contraddizione si giunge a un qualcosa che possa configurarsi come essere e non-essere allo stesso tempo. Non a caso risale a questo periodo il Dialogo della Natura e di un Islandese, operetta in cui la Natura è rappresentata nell’atteggiamento di un idolo e con le caratteristiche proprie delle apparizioni numinose, così come elencate da Rudolf Otto. È la manifestazione del sacro, di un dio incarnato, della madre che prende le sembianze fisiche per rivelare in maniera fredda e anche cinica ai suoi figli l’irreversibilità del loro destino. La revelation della donna-natura si mostra in tutto il suo carattere tetro e incontrovertibile e il misticismo della visione diviene consapevolezza del dolore, testimonianza dell’insensibilità della macchina universale contrapposta e rovesciata nell’interiorità degli uomini.
Continuando sulla logica del paradosso si analizza la celebre pagina del giardino, pensiero che si rivela immagine della fenomenologia della souffrance e che ha il suo inizio con il capovolgimento dell’asserto leibniziano. È l’esempio emblematico della raffigurazione del non-essere attraverso il linguaggio: una realtà che ha in sé la sua negazione, che non si separa dal suo esatto contrario ma ne è intima complementarietà. È Caos-Cosmo insieme. Ontofania e ierofania coincidono. Dall’elogio degli antichi ha inizio l’analisi del secondo punto, indagando il senso di rivalutazione e risemantetizzazione del mito. La polemica alla poesia romantica e la necessità di ripristinare il senso della nudità primitiva. L’eidos appare connaturato allo stesso fenomeno e nella sua nudità la natura si presenta per ciò che realmente è: mitica. Il mito si configura quindi come linguaggio di una natura costruita per un fine non logico ma poetico. Si tratta di una scoperta a cui il giovane Leopardi giunge nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in cui condanna l’errore e il pregiudizio, e di conseguenza la realtà mitica, in quanto non permettono di raggiungere la verità. Tuttavia, una volta accertato che gli errori più assurdi, anche quelli del paganesimo, sono comuni anche tra i dotti antichi, l’errore assume una connotazione ontologica diversa da quella inizialmente delineata. Infatti, tre anni dopo, nel Discorso di un italiano sopra la poesia romantica, Leopardi precisa ciò che non è vero chiamandolo inganno e distinguendo tra gli inganni che portano a un travisamento della verità, dai «dolci inganni» che sono complementari all’intelletto stesso. Nasce così la teoria delle illusioni, i fantasmi di sembianze eccellentissime, figlie dell’immaginazione, ferite di luce che attraversano l’opacità del vero. Sono le illusioni che scendono sulla terra per appagare il bisogno di infinito degli uomini nell’operetta-ouverture Storia del genere umano in cui l’uomo oscilla eternamente tra il bisogno di infinito che non potrà mai appagare e il tedium vitae.
L’immaginazione, quindi, permette di vedere le cose che non sono cose, di recuperare la dimensione della lontananza rendendola incredibilmente vicina, riducendo lo spessore dell’assenza fino a un completo assorbimento. È la reverie che Bachelard definisce “materia prima” dell’opera letteraria. Si giunge così alla terza parte, verso la dimensione della poesia, nell’atmosfera rarefatta della lontananza, punto di osservazione privilegiato e scenografia che si traduce in versi. Lo spazio poetico appare come la dimensione architettonica creata dall’immaginazione, una dimensione che assume le caratteristiche proprie dell’altrove. È uno spazio che ha la sua diretta matrice nell’immaginazione, inglobando il tempo e il luogo della fanciullezza che diventano, dunque, archetipi e serbatoi di sogni, illusioni e stati d’animo. Con Leopardi si accede alla geografia dell’immaginario, rifugio della piccolezza dell’uomo che, incapace di raggiungere l’infinito, ha però la facoltà di immaginarlo. La numerazione dei versi, i castelli delle immagini, sono sovrastati dal cielo del vago e dell’indistinto, offrendo una visione nitida ma dalla consistenza sfocata e sfuggente. Memoria è quindi virtù imitativa, scrive Leopardi, una reminiscenza che è imitazione. È quindi un contraffare, rappresentare, imitare, operazione descritta nel block-notes freudiano. Leopardi quindi si pone come fautore di un cambio di direzione, iniziatore di una nuova poesia, rinnovatore di quell’arte della scrittura ormai contaminata dagli inquinamenti sentimentali dei romantici. E le prime pagine dello Zibaldone si configurano come un destino di pensiero. Immagini come il palazzo, il casolare, il viandante, la luna nel cortile, la dimensione notturna confluiscono nella dimensione della casa-heim, il familiare recinto affettivo collegato all’ambiente domestico che ritorna dopo essere stato rimosso. Si ripercorrono le linee di un perturbante leopardiano, sulla scia di Lacan, utilizzando la dimensione della luna come prototipo della distanza, un interstizio che è punto di vista, relazione. Vaghezza, sfumatura, dissolvenza, sono le coordinate della mappa dell’immaginario leopardiano. La poesia attraverso la ricordanza è dunque un movimento di ritorno all’età giovanile e tutto si muove nel regno della ripetizione. Ogni conoscenza è quindi una ri-conoscenza, tutto è già accaduto, ciò che sentiamo non è altro che l’eco che si sparge nella vita come porzione dell’esistenza che si stacca dalla fanciullezza. Ri-membranza quindi è un meccanismo di ricerca dell’origine, analoga al mito, un’indagine che compie la sua azione nel recuperare il passato, nel ri-mettere insieme i frammenti-immagini-sensazioni della fanciullezza, ri-assemblandoli e ri-componendoli. È una riserva di immagini che a loro volta producono altre immagini e l’azione poetica consiste nel riportare questo processo. Tuttavia, nonostante appaia come l’essere che non può concepire l’infinito e l’eterno, essendo imprigionato in un tempo che è categoria della mente e grandezza fisica, l’uomo ha a disposizione un mezzo determinante per avvicinarsi a ciò che non è: il linguaggio. Attraverso il linguaggio e la capacità immaginativa che consente di vedere le cose che non sono cose, si crea una relazione con ciò che non è. L’immaginazione si trasforma, dunque, in linguaggio ed è in grado di fornire l’idea del nulla, consentendo all’uomo di avvicinarsi all’infinito, perché contiene al suo interno la negazione di ciò che è.