«Mi fido più dei tedeschi che degli italiani». Dentro l'autoblindo a Dongo: la fuga del Duce nella testimonianza inedita della figlia segreta (original) (raw)
Gli atti mai letti dell'interrogatorio della figlia illegittima di Mussolini accusata di collaborazionismo: lei resta con lui seguendolo nella fuga sul lago di Como, il racconto dei drammatici istanti finali prima dell'arresto
«Mi fido più dei tedeschi che degli italiani». 28 aprile 1945, Dongo, sponda del lago di Como, le 15 circa. Il Duce esce dal celeberrimo autoblindo — che poi tale non è, piuttosto si tratta di un autocarro la cui carrozzeria è stata fantasiosamente rinforzata con piastre metalliche — con cui sta tentando una disperata fuga verso chissà dove e pronuncia questa frase. A raccoglierla, praticamente in «presa diretta», è la figlia illegittima, lì con lui su quel mezzo corazzato. Si chiama Elena Curti, ha 22 anni e al termine di quegli istanti drammatici viene arrestata dai garibaldini della 52ma brigata, gli stessi che poi consegneranno Mussolini al commando partigiano, guidato da Aldo Lampredi e Walter Audisio, che lo giustizieranno poco lontano, a Giulino di Mezzegra. La giovane viene accusata di collaborazionismo e prosciolta il 16 settembre 1945. Gli atti del processo, mai visti prima, sono custoditi all’Archivio di Stato di Como e due resoconti sono stati pubblicati dal Corriere nei giorni scorsi. Questo terzo articolo, che conclude la serie, verte tutto sulla testimonianza resa da Curti sulla fuga a Dongo.
Tutti dentro l'autoblindo
È il 13 luglio 1945. Elena — morta a quasi 100 anni, nel 2022 — viene interrogata dal procuratore di Como Antonio Tribuzio, un bravo avvocato nominato dal Cln lariano. Quel che la giovane dice è un racconto che ha il tono della testimonianza immediata, ravvicinata. Per una manciata di ore, a bordo di quell’autoblindo che percorre il lungolago occidentale — con uno dei panorami più belli d’Italia — è salito tutto quel che resta di chi ha comandato nella Rsi. Oltre al Duce, anche il capo delle Brigate nere Alessandro Pavolini e il gerarca-giornalista Idreno Utimperghe. Si affacciano pure Nicola Bombacci, tra i fondatori del Pci e poi a Salò, accanto a Mussolini, e Clara Petacci, l’amante del dittatore.
La Petacci insiste: Duce salvatevi!
Partiamo proprio da quest’ultima. Nell’interrogatorio, Elena sostiene che «alla decisione di Mussolini di seguire i tedeschi contribuì molto l’insistenza della Petacci la quale durante il viaggio, nelle ore di attesa, si era furtivamente introdotta nell’autoblinda e non cessava di esortare Mussolini a mettersi in salvo». Il consiglio è fatale. «Senonché nella visita agli autocarri tedeschi — il riferimento è all’ispezione dei garibaldini che nel frattempo avevano bloccato l’autocolonna dei gerarchi in fuga, ndr — Mussolini fu riconosciuto**. In un primo tempo i partigiani avevano autorizzato gli italiani a ritornare»**, dunque a rientrare verso Como. «Ma poi, mentre l’autoblinda manovrava per riprendere la via di Como**, dalla montagna partirono raffiche di fuoco e bombe a mano** che provocarono l’arresto del veicolo».
Presa dai partigiani, rapata a zero
A quel punto la scena si fa drammatica. «Pavolini e altri saltarono giù e riuscirono a raggiungere il lago, io per timore di essere colpita da qualche pallottola scesi dalla parte posteriore. Appena messo piede a terra mi fu intimato: “mani in alto!”. Mi presero, mi perquisirono, mi privarono di quello che avevo addosso e nella borsetta e poi nella piazza di Dongo mi tagliarono i capelli e mi diedero anche qualche calcio e un colpo in testa con il calcio del fucile». L’interrogatorio finisce qui, «letto, confermato e sottoscritto». Colpisce in queste parole — fedelmente trascritte a macchina — l’uso del passato remoto. Son passati solo cinque mesi da quei fatti, sarebbe ancora cronaca bruciante — vista con l’ottica di oggi — ma Elena sembra quasi consapevole di raccontare dei momenti già consegnati alla storia.
Tutti i figli in fuga, solo lei resta con il padre
C’è pure un altro aspetto. La figlia segreta del dittatore aveva, senza contare i tanti non riconosciuti, altri cinque fratelli «ufficiali», quelli dati alla luce da donna Rachele, la moglie di Mussolini: vale a dire Edda, Vittorio, Bruno, Romano e Anna Maria. Curioso come tra questa prole, legittima e non, fu la sola Elena a restare accanto al Duce sino all’ultimo. Edda era già riparata in Svizzera, consegnando i diari del marito Galeazzo Ciano, fucilato a Verona per aver votato la caduta del regime il 25 luglio, direttamente nelle mani di Allen Dulles, lo 007 che diverrà il futuro capo della Cia; Vittorio si era nascosto in un istituto religioso a Como, «scortato» da Eraldo Monzeglio, terzino della nazionale di Vittorio Pozzo due volte campione del mondo, «uomo di fiducia» di Mussolini ma, al pari di Elena, con insospettabili contatti con la Resistenza; Bruno, ufficiale pilota, era morto in un incidente in atterraggio; quanto a Romano e Anna Maria, ben presto sarebbero stati al sicuro con la madre, accolti dai servizi segreti americani.
«Lui fece finta di non notarmi, la cosa mi seccò»
Nell’interrogatorio, Elena racconta diverse frottole e va detto che il procuratore nell’ascoltarla pare piuttosto indulgente. Se la ragazza incrocia l’autocolonna in fuga «è perché avevo in progetto una gita al Piano dei Resinelli — allora come oggi meta escursionistica gettonatissima — sopra Lecco, ma i treni non funzionavano» e così qualcuno del partito a Milano, dove lei aveva degli incarichi, le dà un passaggio in automobile sino a Como. Di passaggio in passaggio, raggiunge la colonna dei gerarchi «a Menaggio dove incontrai il Duce, con il suo seguito, che stava salendo in macchina». Lui «fece finta di non aver notato la mia presenza e di ciò rimasi un po’ seccata ma non sorpresa poiché da parecchi mesi non mi riceveva più». E questo perché Clara Petacci, convinta che Elena fosse l’amante del Duce, l’aveva costretto a non incontrarla più.
Chi lo consegnò ai garibaldini?
Davvero coraggiosa, la figlia segreta di Mussolini, su consiglio di Buffarini Guidi, il ministro degli Interni a Salò, da Menaggio raggiunge Como in bici nella speranza di recuperare Pavolini che era andato a cercar rinforzi. Dopo un «avanti e indietro» tutto pedalando, finisce che «ad Argegno raggiunsi l’autoblinda di Pavolini, lo ripregai di prendermi a bordo e questa volta mi accontentò». A un certo punto «vidi Pavolini che ordinava al conducente di fermare perché voleva far salire Mussolini». Poi però «l’ufficiale tedesco che comandava la colonna dice a Mussolini la sua intenzione di trattare con il comando partigiano» che intanto ha fermato le auto in fuga. «Lo stesso comandante tedesco propone di portare con sé Mussolini travestito da tedesco e fu allora che il Duce pronunziò la frase infelice che “si fidava più dei tedeschi che degli italiani”». Se lì a Dongo lo abbiano tradito gli uni o gli altri. è ancora materia di discussione infinita.
Prosciolta, poi una vita in Spagna
Elena verrà prosciolta dall’accusa di collaborazionismo. Il grosso della sua vita lo vivrà in Spagna, avviando un’attività imprenditoriale. Torna a stabilirsi definitamente in Italia, nel Viterbese, poco prima di morire. Portando con sé tante domande senza risposta (fine della terza e ultima parte).
18 gennaio 2025
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