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DANTE ALIGHIERI

LA VITA NOVA

I
In quella parte del libro de la mia memoria, dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere, si trova una rubrica la quale dice: Incipit vita nova. Sotto la quale rubrica io trovo scritte le parole le quali è mio intendimento d’asemplare in questo libello; e se non tutte, almeno la loro sentenzia.

II
Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li mènimi polsi orribilmente; e tremando, disse queste parole: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi». In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni, si cominciò a maravigliare molto, e parlando spezialmente a li spiriti del viso, sì disse queste parole: «Apparuit iam beatitudo vestra». In quello punto lo spirito naturale, lo quale dimora in quella parte ove si ministra lo nutrimento nostro, cominciò a piangere, e piangendo, disse queste parole: «**Heu miser, quia frequenter impeditus ero deinceps!**». D’allora innanzi dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente. Elli mi comandava molte volte che io cercasse per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedèala di sì nobili e laudabili portamenti, che certo di lei si potea dire quella parola del poeta Omero: Ella non parea figliuola d’uomo mortale, ma di Deo. E avegna che la sua imagine, la quale continuamente meco stava, fosse baldanza d’Amore a segnoreggiare me, tuttavia era di sì nobilissima vertù, che nulla volta sofferse che Amore mi reggesse sanza lo fedele consiglio de la ragione in quelle cose là ove cotale consiglio fosse utile a udire. E però che soprastare a le passioni e atti di tanta gioventudine pare alcuno parlare fabuloso, mi partirò da esse; e trapassando molte cose, le quali si potrebbero trarre de l’esemplo onde nascono queste, verrò a quelle parole le quali sono scritte ne la mia memoria sotto maggiori paragrafi.

III
Poi che furono passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l’apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l’ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L’ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d’una mia camera, e puòsimi a pensare di questa cortesissima. E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m’apparve una maravigliosa visione, che me parea vedere ne la mia camera una nèbula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus». Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch’era la donna de la salute, la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò, poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l’ora ne la quale m’era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch’ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte. Pensando io a ciò che m’era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti, li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l’arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti lifedeli d’Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun’alma presa.

A ciascun'alma presa, e gentil core, nel cui cospetto ven lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente salute in lor segnor, cioè Amore. Già eran quasi che atterzate l'ore del tempo che onne stella n'è lucente, quando m'apparve Amor subitamente cui essenza membrar mi dà orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d'esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo.

Questo sonetto si divide in due parti; che la prima parte saluto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi: Già eran.

A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedesti al mio parere onne valore. E questo fue quasi lo principio de l’amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.

IV
Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere impedito ne la sua operazione, però che l’anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima; onde io divenni in picciolo tempo poi di sì fràile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d’invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi faceano, per la volontade d’Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione, rispondea loro che Amore era quelli che così m’avea governato. Dicea d’Amore, però che io portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si potea ricovrire. E quando mi domandavano: «Per cui t’ha così distrutto questo Amore?», ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro.

V
Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine: e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s’accorsero de lo suo mirare; ed in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui»; e nominandola, eo intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

VI
Dico che in questo tempo che questa donna era schermo di tanto amore, quanto da la mia parte, sì mi venne una volontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima ed acompagnarlo di molti nomi di donne, e spezialmente del nome di questa gentile donna. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l’altissimo sire, e compuosi una pìstola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò: e non n’avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare, se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne.

VII
La donna co la quale io avea tanto tempo celata la mia volontade, convenne che si partisse de la sopradetta cittade e andasse in paese molto lontano: per che io quasi sbigottito de la bella difesa che m’era venuta meno, assai me ne disconfortai, più che io medesimo non avrei creduto dinanzi. E pensando che se de la sua partita io non parlasse alquanto dolorosamente, le persone sarebbero accorte più tosto de lo mio nascondere, propuosi di farne alcuna lamentanza in uno sonetto; lo quale io scriverò, acciò che la mia donna fue immediata cagione di certe parole che ne lo sonetto sono, sì come appare a chi lo intende. E allora dissi questo sonetto, che comincia: O voi che per la via.

   O voi, che per la via d'Amor passate, attendete e guardate s'elli è dolore alcun, quanto 'l mio, grave; e prego sol ch'audir mi sofferiate, e poi imaginate s'io son d'ogni tormento ostale e chiave. Amor, non già per mia poca bontate, ma per sua nobiltate, mi pose in vita sì dolce e soave, ch'io mi sentia dir dietro spesse fiate: «Deo, per qual dignitate così leggiadro questi lo core have?» Or ho perduta tutta mia baldanza, che si movea d'amoroso tesoro; ond'io pover dimoro, in guisa che di dir mi ven dottanza. Sì che volendo far come coloro che per vergogna celan lor mancanza, di fuor mostro allegranza, e dentro dallo core struggo e ploro.

Questo sonetto ha due parti principali; che ne la prima intendo chiamare li fedeli d’Amore per quelle parole di Geremia profeta che dicono: O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus, e pregare che mi sofferino d’audire; nella seconda narro là ove Amore m’avea posto, con altro intendimento che l’estreme parti del sonetto non mostrano, e dico che io hoe ciò perduto. La seconda parte comincia quivi: Amor, non già.

VIII
Appresso lo partire di questa gentile donna fue piacere del segnore de li angeli di chiamare a la sua gloria una donna giovane e di gentile aspetto molto, la quale fue assai graziosa in questa sopradetta cittade; lo cui corpo io vidi giacere sanza l’anima in mezzo di molte donne, le quali piangeano assai pietosamente. Allora ricordandomi che già l’avea veduta fare compagnia a quella gentilissima, non poteo sostenere alquante lagrime; anzi piangendo mi propuosi di dicere alquante parole de la sua morte, in guiderdone di ciò che alcuna fiata l’avea veduta con la mia donna. E di ciò toccai alcuna cosa ne l’ultima parte de le parole che io ne dissi, sì come appare manifestamente a chi lo intende. E dissi allora questi due sonetti, li quali comincia lo primo: Piangete, amanti, e lo secondo: Morte villana.

   Piangete, amanti, poi che piange Amore, udendo qual cagion lui fa plorare Amor sente a Pietà donne chiamare, mostrando amaro duol per li occhi fore, perché villana Morte in gentil core ha miso il suo crudele adoperare, guastando ciò che al mondo è da laudare in gentil donna sovra de l'onore. Audite quanto Amor le fece orranza, ch'io 'l vidi lamentare in forma vera sovra la morta imagine avenente; e riguardava ver lo ciel sovente, ove l'alma gentil già locata era, che donna fu di sì gaia sembianza.

Questo primo sonetto si divide in tre parti: ne la prima chiamo e sollìcito li fedeli d’Amore a piangere e dico che lo segnore loro piange, e dico «udendo la cagione per che piange,» acciò che s’acconcino più ad ascoltarmi; ne la seconda narro la cagione; ne la terza parlo d’alcuno onore che Amore fece a questa donna. La seconda parte comincia quivi: Amor sente; la terza quivi: Audite.

   Morte villana, di pietà nemica, di dolor madre antica, giudicio incontastabile gravoso, poi che hai data matera al cor doglioso, ond'io vado pensoso, di te blasmar la lingua s'affatica. E s'io di grazia ti vòi far mendica, convènesi ch'eo dica lo tuo fallar d'onni torto tortoso, non però ch'a la gente sia nascoso, ma per farne cruccioso chi d'amor per innanzi si notrica. Dal secolo hai partita cortesia e ciò ch'è in donna da pregiar vertute: in gaia gioventute distrutta hai l'amorosa leggiadria. Più non vòi discovrir qual donna sia che per le propietà sue canosciute. Chi non merta salute non speri mai d'aver sua compagnia.

Questo sonetto si divide in quattro parti: ne la prima parte, chiamo la Morte per certi suoi nomi propri; ne la seconda, parlando a lei, dico la cagione per che io mi muovo a biasimarla: ne la terza, la vitupero; ne la quarta, mi volgo a parlare a indiffinita persona, avvegna che quanto a lo mio intendimento sia diffinita. La seconda comincia quivi: poi che hai data; la terza quivi: E s’io di grazia; la quarta quivi: Chi non merta salute.

IX
Appresso la morte di questa donna alquanti die, avvenne cosa per la quale me convenne partire de la sopradetta cittade e ire verso quelle parti dov’era la gentile donna ch’era stata mia difesa, avegna che non tanto fosse lontano lo termine de lo mio andare quanto ella era. E tutto ch’io fosse a la compagnia di molti, quanto a la vista, l’andare mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che lo cuore sentia, però ch’io mi dilungava da la mia beatitudine. E però lo dolcissimo segnore, lo quale mi segnoreggiava per la vertù de la gentilissima donna, ne la mia imaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi. Elli mi parea disbigottito, e guardava la terra, salvo che talora li suoi occhi mi parea che si volgessero ad uno fiume bello e corrente e chiarissimo, lo quale sen gìa lungo questo cammino là ov’io era. A me parve che Amore mi chiamasse, e dicèssemi queste parole: «Io vegno da quella donna la quale è stata tua lunga difesa, e so che lo suo rivenire non sarà a gran tempi; e però quello cuore che io ti facea avere a lei, io l’ho meco, e pòrtolo a donna la quale sarà tua difensione, come questa era». E nominòllami per nome, sì che io la conobbi bene. «Ma tuttavia, di queste parole ch’io t’ho ragionate se alcuna cosa ne dicessi, dille nel modo che per loro non si discernesse lo simulato amore che tu hai mostrato a questa e che ti converrà mostrare ad altri». E dette queste parole, disparve questa mia imaginazione tutta subitamente, per la grandissima parte che mi parve che Amore mi desse di sé; e, quasi cambiato ne la vista mia, cavalcai quel giorno pensoso molto ed accompagnato da molti sospiri. Appresso lo giorno, cominciai di ciò questo sonetto, lo quale comincia Cavalcando.

   Cavalcando l'altr'ier per un cammino, pensoso de l'andar che mi sgradia, trovai Amore in mezzo de la via in abito leggier di peregrino. Ne la sembianza mi parea meschino, come avesse perduta segnoria; e sospirando pensoso venia, per non veder la gente, a capo chino. Quando mi vide, mi chiamò per nome, e disse: «Io vegno di lontana parte, ov'era lo tuo cor per mio volere; e rècolo a servir novo piacere». Allora presi di lui sì gran parte, ch'elli disparve, e non m'accorsi come.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima parte dico sì com’io trovai Amore, e quale mi parea; ne la seconda dico quello ch’elli mi disse, avegna che non compiutamente per tema ch’avea di discovrire lo mio secreto; ne la terza dico com’elli mi disparve.La seconda comincia quivi: Quando mi vide; la terza: Allora presi.

X
Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna, che lo mio segnore m’avea nominata ne lo cammino de li sospiri; e acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini de la cortesia; onde molte fiate mi pesava duramente. E per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce che parea che m’infamasse viziosamente, quella gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina de le virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine. Ed uscendo alquanto del proposito presente, voglio dare a intendere quello che lo suo salutare in me virtuosamente operava.

XI
Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso; e chi allora m’avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente ‘Amore’, con viso vestito d’umilitade. E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’amore, distruggendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea, mirando lo tremare de li occhi miei. E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata. Sì che appare manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade.

XII
Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov’io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo «Amore, aiuta lo tuo fedele», m’addormentai come uno pargoletto battuto lagrimando. Avvenne quasi nel mezzo de lo mio dormire che me parve vedere ne la mia camera lungo me sedere uno giovane vestito di bianchissime vestimenta, e, pensando molto quanto a la vista sua, mi riguardava là ov’io giacea; e quando m’avea guardato alquanto, pareami che sospirando mi chiamasse, e diceami queste parole: «Fili mi, tempus est ut praetermictantur simulacra nostra». Allora mi parea che io lo conoscesse, però che mi chiamava così come assai fiate ne li miei sonni m’avea già chiamato; e riguardandolo, parvemi che piangesse pietosamente, e parea che attendesse da me alcuna parola; ond’io, assicurandomi, cominciai a parlare così con esso: «Segnore de la nobiltade, e perché piangi tu?». E quelli mi dicea queste parole: «Ego tanquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes; tu autem non sic». Allora, pensando a le sue parole, mi parea che m’avesse parlato molto oscuramente, sì ch’io mi sforzava di parlare, e diceali queste parole: «Che è ciò, segnore, che mi parli con tanta oscuritade?». E quelli mi dicea in parole volgari: «Non dimandare più che utile ti sia». E però cominciai allora con lui a ragionare de la salute la quale mi fue negata, e domandàilo de la cagione; onde in questa guisa da lui mi fue risposto: «Quella nostra Beatrice udio da certe persone, di te ragionando, che la donna la quale io ti nominai nel cammino de li sospiri, ricevea da te alcuna noia; e però questa gentilissima, la quale è contraria di tutte le noie, non degnò salutare la tua persona, temendo non fosse noiosa. Onde con ciò sia cosa che veracemente sia conosciuto per lei alquanto lo tuo secreto per lunga consuetudine, voglio che tu dichi certe parole per rima, ne le quali tu comprendi la forza che io tegno sopra te per lei, e come tu fosti suo tostamente da la tua puerizia. E di ciò chiama testimonio colui che lo sa, e come tu prieghi lui che li le dica; ed io, che son quelli, volentieri le ne ragionerò; e per questo sentirà ella la tua volontade la quale sentendo, conoscerà le parole de li ingannati. Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei immediatamente, che non è degno; e no le mandare in parte sanza me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere». E dette queste parole, sì disparve, e lo mio sonno fue rotto. Onde io ricordandomi trovai che questa visione m’era apparita ne la nona ora del die; e anzi ch’io uscisse di questa camera, propuosi di fare una ballata, ne la quale io seguitasse ciò che lo mio segnore m’avea imposto; e feci poi questa ballata, che comincia:Ballata, i’ vo’.

Ballata, i' vo' che tu ritrovi Amore, e con lui vade a madonna davante, sì che la scusa mia, la qual tu cante, ragioni poi con lei lo mio segnore.

Tu vai, ballata, sì cortesemente, che sanza compagnia dovresti avere in tutte parti ardire; ma se tu vuoli andar sicuramente, retrova l'Amor pria, ché forse non è bon sanza lui gire; però che quella che ti dee audire, sì com'io credo, è ver di me adirata: se tu di lui non fossi accompagnata, leggeramente ti faria disnore.

Con dolze sono, quando se' con lui, comincia este parole, appresso che averai chesta pietate: «Madonna, quelli che mi manda a vui, quando vi piaccia, vole, sed elli ha scusa, che la m'intendiate. Amore è qui, che per vostra bieltate lo face,come vol,vista cangiare: dunque perché li fece altra guardare pensatel voi, da che non mutò 'l core».

Dille: «Madonna, lo suo core è stato con sì fermata fede, che 'n voi servir l'ha 'mpronto onne pensero: tosto fu vostro, e mai non s'è smagato». Sed ella non ti crede, dì che domandi Amor, che sa lo vero: ed a la fine falle umil preghero, lo perdonare se le fosse a noia, che mi comandi per messo ch'eo moia, e vedrassi ubidir ben servidore.

E dì a colui ch'è d'ogni pietà chiave, avante che sdonnei, che le saprà contar mia ragion bona: «Per grazia de la mia nota soave reman tu qui con lei, e del tuo servo ciò che vuoi ragiona; e s'ella pel tuo prego li perdona, fa che li annunzi un bel sembiante pace». Gentil ballata mia, quando ti piace, movi in quel punto che tu n'aggie onore.

Questa ballata in tre parti si divide: ne la prima dico a lei ov’ella vada, e confòrtola però che vada più sicura, e dico ne la cui compagnia si metta, se vuole sicuramente andare e sanza pericolo alcuno; ne la seconda dico quello che lei si pertiene di fare intendere; ne la terza la licenzio del gire quando vuole, raccomandando lo suo movimento ne le braccia de la fortuna. La seconda parte comincia quivi: Con dolze sono; la terza quivi: Gentil ballata.

Potrebbe già l’uomo opporre contra me e dicere che non sapesse a cui fosse lo mio parlare in seconda persona, però che la ballata non è altro che queste parole ched io parlo: e però dico che questo dubbio io lo intendo solvere e dichiarare in questo libello ancora in parte più dubbiosa; e allora intenda qui chi qui dubita, o chi qui volesse opporre in questo modo.

XIII
Appresso di questa soprascritta visione, avendo già dette le parole che Amore m’avea imposte a dire, mi cominciaro molti e diversi pensamenti a combattere ed a tentare, ciascuno quasi indefensibilemente; tra li quali pensamenti quattro mi parea che ingombrassero più lo riposo de la vita. L’uno de li quali era questo: buona è la signoria d’Amore, però che trae lo intendimento del suo fedele da tutte le vili cose. L’altro era questo: non buona è la signoria d’Amore, però che quanto lo suo fedele più fede li porta, tanto più gravi e dolorosi punti li conviene passare. L’altro era questo: lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi sèguitino le nominate cose, sì come è scritto: Nomina sunt consequentia rerum. Lo quarto era questo: la donna per cui Amore ti stringe così, non è come l’altre donne, che leggeramente si muova dal suo cuore. E ciascuno mi combattea tanto, che mi facea stare quasi come colui che non sa per qual via pigli lo suo cammino, e che vuole andare e non sa onde se ne vada; e se io pensava di volere cercare una comune via di costoro, cioè là ove tutti s’accordassero, questa era via molto inimica verso me, cioè di chiamare e di mettermi ne le braccia de la Pietà. E in questo stato dimorando, mi giunse volontade di scriverne parole rimate; e dìssine allora questo sonetto, lo quale comincia: Tutti li miei pensier.

   Tutti li miei pensier parlan d'Amore; e hanno in loro sì gran varietate, ch'altro mi fa voler sua potestate, altro folle ragiona il suo valore, altro sperando m'aporta dolzore, altro pianger mi fa spesse fiate; e sol s'accordano in cherer pietate, tremando di paura, che è nel core. Ond'io non so da qual matera prenda; e vorrei dire, e non so ch'io mi dica: così mi trovo in amorosa erranza. E se con tutti vòi far accordanza, convènemi chiamar la mia nemica, madonna la Pietà, che mi difenda.

Questo sonetto in quattro parti si può dividere: ne la prima dico e soppongo che tutti li miei pensieri sono d’Amore; ne la seconda dico che sono diversi, e narro la loro diversitade; ne la terza dico in che tutti pare che s’accordino; ne la quarta dico che volendo dire d’Amore, non so da qual parte pigli matera, e se la voglio pigliare da tutti, convene che io chiami la mia inimica, madonna la Pietade; e dico «madonna» quasi per disdegnoso modo di parlare. La seconda parte comincia quivi: e hanno in loro; la terza quivi: e sol s’accordano; la quarta quivi: Ond’io non so.

XIV
Appresso la battaglia de li diversi pensieri avvenne che questa gentilissima venne in parte ove molte donne gentili erano adunate; a la qual parte io fui condotto per amica persona, credendosi fare a me grande piacere, in quanto mi menava là ove tante donne mostravano le loro bellezze. Onde io, quasi non sappiendo a che io fossi menato, e fidandomi ne la persona, la quale uno suo amico a l’estremitade de la vita condotto avea, dissi a lui: «Perché semo noi venuti a queste donne?». Allora quelli mi disse: «Per fare sì ch’elle siano degnamente servite». E lo vero è che adunate quivi erano a la compagnia d’una gentile donna che disposata era lo giorno; e però, secondo l’usanza de la sopradetta cittade, convenia che le facessero compagnia nel primo sedere a la mensa che facea ne la magione del suo novello sposo. Sì che io credendomi fare piacere di questo amico, propuosi di stare al servigio de le donne ne la sua compagnia. E nel fine del mio proponimento, mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura, la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai gli occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari». Io dico che molte di queste donne, accorgendosi de la mia trasfigurazione, si cominciaro a maravigliare, e ragionando si gabbavano di me con questa gentilissima; onde lo ingannato amico di buona fede mi prese per la mano, e traendomi fuori de la veduta di queste donne, sì mi domandò che io avesse. Allora io riposato alquanto, e resurressiti li morti spiriti miei, e li discacciati rivenuti a le loro possessioni, dissi a questo mio amico queste parole: «Io tenni li piedi in quella parte de la vita, di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare». E partitomi da lui, mi ritornai ne la camera de le lagrime; ne la quale, piangendo e vergognandomi, fra me stesso dicea: «Se questa donna sapesse la mia condizione, io non credo che così gabbasse la mia persona, anzi credo che molta pietade le ne verrebbe». E in questo pianto stando, propuosi di dire parole, ne le quali, parlando a lei, significasse la cagione del mio trasfiguramento, e dicesse che io so bene ch’ella non è saputa, e che se fosse saputa, io credo che pietà ne giugnerebbe altrui; e propuòsile di dire, desiderando che venissero per avventura ne la sua audienza. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Con l’altre donne.

   Con l'altre donne mia vista gabbate, e non pensate, donna, onde si mova ch'io vi rassembri sì figura nova quando riguardo la vostra beltate. Se lo saveste, non porìa Pietate tener più contra me l'usata prova, ché Amor, quando sì presso a voi mi trova, prende baldanza e tanta securtate, che fère tra' miei spiriti paurosi, e quale ancide, e qual pinge di fore, sì che solo remane a veder vui: ond'io mi cangio in figura d'altrui, ma non sì ch'io non senta bene allore li guai de li scacciati tormentosi.

Questo sonetto non divido in parti, però che la divisione non si fa se non per aprire la sentenzia de la cosa divisa; onde, con ciò sia cosa che per la sua ragionata cagione assai sia manifesto, non ha mestiere di divisione. Vero è che tra le parole dove si manifesta la cagione di questo sonetto, si scrivono dubbiose parole, cioè quando dico che Amore uccide tutti li miei spiriti, e li visivi rimangono in vita, salvo che fuori de li strumenti loro. E questo dubbio è impossibile a solvere a chi non fosse in simile grado fedele d’Amore; ed a coloro che vi sono, è manifesto ciò che solverebbe le dubitose parole: e però non è bene a me di dichiarare cotale dubitazione, acciò che lo mio parlare dichiarando sarebbe indarno, o vero di soperchio.

XV
Appresso la nuova trasfigurazione, mi giunse uno pensamento forte, lo quale poco si partìa da me, anzi continuamente mi riprendea, ed era di cotale ragionamento meco: «Poscia che tu perviene a così dischernevole vista, quando tu se’ presso di questa donna, perché pur cerchi di vedere lei? Ecco che tu fossi domandato da lei, che avrestù da rispondere, ponendo che tu avessi libera ciascuna tua vertude, in quanto tu le rispondessi? » Ed a costui rispondea un altro umile pensero, e dicea: «S’io non perdessi le mie vertudi, e fossi libero tanto che io le potessi rispondere, io le direi che, sì tosto com’io imagino la sua mirabile bellezza, sì tosto mi giugne uno desiderio di vederla, lo quale è di tanta vertude, che uccide e distrugge ne la mia memoria ciò che contra lui si potesse levare; e però non mi ritraggono le passate passioni da cercare la veduta di costei». Onde io, mosso da cotali pensamenti, propuosi di dire certe parole, ne le quali, escusandomi a lei da cotale riprensione, ponesse anche di quello che mi diviene presso di lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Ciò che m’incontra .

   Ciò che m'incontra ne la mente, more, quand'i' vegno a veder voi, bella gioia; e quand'io vi son presso, i' sento Amore che dice: «Fuggi, se 'l perir t'è noia». Lo viso mostra lo color del core, che, tramortendo, ovunque pò s'appoia; e per la ebrietà del gran tremore le pietre par che gridin: «Moia, moia». Peccato face chi allora mi vide, se l'alma sbigottita non conforta, sol dimostrando che di me li doglia, per la pietà, che 'l vostro gabbo ancide, la qual si cria ne la vista morta de li occhi, c'hanno di lor morte voglia.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico la cagione per che non mi tengo di gire presso di questa donna; ne la seconda dico quello che mi diviene per andare presso di lei; e comincia questa parte quivi: e quand’io vi son presso . Ed anche si divide questa seconda parte in cinque, secondo cinque diverse narrazioni: che ne la prima dico quello che Amore, consigliato da la ragione, mi dice quando le sono presso; ne la seconda manifesto lo stato del cuore per esemplo del viso; ne la terza dico sì come onne sicurtade mi viene meno; ne la quarta dico che pecca quelli che non mostra pietà di me, acciò che mi sarebbe alcuno conforto; ne l’ultima dico perché altri doverebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giugne; la quale vista pietosa è distrutta, cioè non pare altrui, per lo gabbare di questa donna, la quale trae a sua simile operazione coloro che forse vederebbono questa pietà. La seconda parte comincia quivi: Lo viso mostra ; la terza quivi: e per la ebrietà ; la quarta: Peccato face ; la quinta: per la pietà.

XVI
Appresso ciò, che io dissi questo sonetto, mi mosse una volontade di dire anche parole, ne le quali io dicesse quattro cose ancora sopra lo mio stato, le quali non mi parea che fossero manifestate ancora per me. La prima de le quali si è che molte volte io mi dolea, quando a mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amore mi facea. La seconda si è che Amore spesse volte di subito m’assalia sì forte, che ‘n me non rimanea altro di vita se non un pensero che parlava di questa donna. La terza si è che quando questa battaglia d’Amore mi pugnava così, io mi movea quasi discolorito tutto per vedere questa donna, credendo che mi difendesse la sua veduta da questa battaglia, dimenticando quello che per appropinquare a tanta gentilezza m’addivenia. La quarta si è come cotale veduta non solamente non mi difendea, ma finalmente disconfiggea la mia poca vita. E però dissi questo sonetto, lo quale comincia: Spesse fiate.

   Spesse fiate vègnonmi a la mente le oscure qualità ch'Amor mi dona, e vènnemi pietà, sì che sovente io dico: «Lasso! avvien elli a persona?»; ch'Amor m'assale subitanamente, sì che la vita quasi m'abbandona: càmpami uno spirto vivo solamente, e que' riman, perché di voi ragiona. Poscia mi sforzo, ché mi voglio atare; e così smorto, d'onne valor vòto, vegno a vedervi, credendo guerire: e se io levo li occhi per guardare, nel cor mi si comincia uno tremoto, che fa de' polsi l'anima partire.

Questo sonetto si divide in quattro parti, secondo che quattro cose sono in esso narrate; e però che sono di sopra ragionate, non m’intrametto se non di distinguere le parti per li loro cominciamenti. Onde dico che la seconda parte comincia quivi: ch’Amor; la terza quivi: Poscia mi sforzo; la quarta quivi: e se io levo.

XVII
Poi che dissi questi tre sonetti, ne li quali parlai a questa donna, però che fuoro narratori di tutto quasi lo mio stato, credendomi tacere e non dire più, però che mi parea di me assai avere manifestato, avvegna che sempre poi tacesse di dire a lei, a me convenne ripigliare matera nuova e più nobile che la passata. E però che la cagione de la nuova matera è dilettevole a udire, la dicerò, quanto potrò più brievemente.

XVIII
Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s’erano, dilettandosi l’una ne la compagnia de l’altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m’avea chiamato, era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand’io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra le quali n’avea certe che si rideano tra loro. Altre v’erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Altre v’erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo». E poi che m’ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l’altre cominciaro ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l’acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m’avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sia questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n’hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.

XIX
Avvenne poi che passando per uno cammino, lungo lo quale sen gìa uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch’io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch’avete intelletto d’amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne ch’avete.

Donne ch'avete intelletto d'amore, i' vo' con voi de la mia donna dire, non perch'io creda sua laude finire, ma ragionar per isfogar la mente. Io dico che pensando il suo valore, Amor sì dolce mi si fa sentire, che s'io allora non perdessi ardire, farei parlando innamorar la gente: E io non vo' parlar sì altamente, ch'io divenisse per temenza vile; ma tratterò del suo stato gentile a respetto di lei leggeramente, donne e donzelle amorose, con vui, ché non è cosa da parlarne altrui.

Angelo clama in divino intelletto e dice: «Sire, nel mondo si vede maraviglia ne l'atto che procede d'un'anima che 'nfin quassù risplende». Lo cielo, che non have altro difetto che d'aver lei, al suo segnor la chiede, e ciascun santo ne grida merzede. Sola Pietà nostra parte difende, ché parla Dio, che di madonna intende: «Diletti miei, or sofferite in pace che vostra spene sia quanto me piace là ov' è alcun che perder lei s'attende, e che dirà ne lo inferno: «O malnati, io vidi la speranza de' beati».

Madonna è disiata in sommo cielo: or vòi di sua virtù farvi savere. Dico, qual vuol gentil donna parere vada con lei, chè quando va per via, gitta nei cor villani Amore un gelo, per che onne lor pensero agghiaccia e père; e qual soffrisse di starla a vedere diverria nobil cosa, o si morria; E quando trova alcun che degno sia di veder lei, quei prova sua vertute, ché li avvien ciò che li dona salute, e sì l'umilia ch'ogni offesa oblia. Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato che non pò mal finir chi l'ha parlato.

Dice di lei Amor: «Cosa mortale come esser pò sì adorna e sì pura?» Poi la reguarda, e fra se stesso giura che Dio ne 'ntenda di far cosa nova. Color di perle ha quasi in forma, quale convene a donna aver, non for misura; ella è quanto de ben pò far natura; per esemplo di lei bieltà si prova. De li occhi suoi, come ch'ella li mova, escono spirti d'amore inflammati, che fèron li occhi a qual che allor la guati, e passan sì che 'l cor ciascun retrova: voi le vedete Amor pinto nel viso, là 've non pote alcun mirarla fiso.

Canzone, io so che tu girai parlando a donne assai, quand'io t'avrò avanzata. Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevata per figliuola d'Amor giovane e piana, che là ove giugni tu dichi pregando: «Insegnàtemi gir, ch'io son mandata a quella di cui laude so' adornata». E se non vuoli andar sì come vana, non restare ove sia gente villana; ingègnati, se puoi, d'esser palese solo con donne o con omo cortese, che ti merranno là per via tostana. Tu troverai Amor con esso lei; raccomàndami a lui come tu dei.

Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l’altre cose di sopra. E però prima ne fo tre parti: la prima parte è proemio de le sequenti parole; la seconda è lo intento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda comincia quivi: Angelo clama; la terza quivi: Canzone, io so che. La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu’ io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand’io penso lo suo valore, e com’io direi s’io non perdessi l’ardimento; ne la terza dico come credo dire di lei, acciò ch’io non sia impedito da viltà; ne la quarta, ridicendo anche a cui ne intenda dire, dico la cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi:Io dico; la terza quivi: E io non vo’ parlar; la quarta: donne e donzelle. Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna. E dividesi questa parte in due: ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: Madonna è disiata. Questa seconda parte si divide in due; che ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquanto de le sue vertudi effettive che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la parte de la nobilitade del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, quivi: Dice di lei Amor. Questa seconda parte si divide in due: che ne la prima dico d’alquante bellezze che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d’alquante bellezze che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: De li occhi suoi. Questa seconda parte si divide in due: che ne l’una dico deli occhi, li quali sono principio d’amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d’amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricòrdisi chi ci legge che di sopra è scritto che lo saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li miei desiderii mentre ch’io lo potei ricevere. Poscia quando dico: Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella de l’altre, ne la quale dico quello che di questa mia canzone desidero; e però che questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni. Dico bene che, a più aprire lo intendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s’elli avvenisse che molti le potessero audire.

XX
Appresso che questa canzone fue alquanto divolgata tra le genti, con ciò fosse cosa che alcuno amico l’udisse, volontade lo mosse a pregare me che io li dovesse dire che è Amore, avendo forse per l’udite parole speranza di me oltre che degna. Onde io pensando che appresso di cotale trattato, bello era trattare alquanto d’Amore, e pensando che l’amico era da servire, propuosi di dire parole ne le quali io trattassi d’Amore; e allora dissi questo sonetto, lo qual comincia: Amore e ‘l cor gentil.

   Amore e 'l cor gentil sono una cosa, sì come il saggio in suo dittare pone, e così esser l'un sanza l'altro osa com'alma razional sanza ragione. Fàlli natura quand'è amorosa, Amor per sire e 'l cor per sua magione, dentro la qual dormendo si riposa tal volta poca e tal lunga stagione. Bieltate appare in saggia donna pui, che piace a gli occhi sì, che dentro al core nasce un disio de la cosa piacente; e tanto dura talora in costui, che fa svegliar lo spirito d'Amore. E simil fàce in donna omo valente.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima dico di lui in quanto è in potenzia; ne la seconda dico di lui in quanto di potenzia si riduce in atto. La seconda comincia quivi: Bieltate appare. La prima si divide in due: ne la prima dico in che suggetto sia questa potenzia; ne la seconda dico sì come questo suggetto e questa potenzia siano produtti in essere, e come l’uno guarda l’altro come forma materia. La seconda comincia quivi: Fàlli natura. Poscia quando dico: Bieltate appare, dico come questa potenzia si riduce in atto; e prima come si riduce in uomo, poi come si riduce in donna, quivi: E simil fàce in donna.

XXI
Poscia che trattai d’Amore ne la soprascritta rima, vènnemi volontade di volere dire, anche in loda di questa gentilissima, parole per le quali io mostrasse come per lei si sveglia questo Amore, e come non solamente si sveglia là ove dorme, ma là ove non è in potenzia, ella, mirabilemente operando, lo fa venire. E allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Negli occhi porta.

   Negli occhi porta la mia donna Amore, per che si fa gentil ciò ch'ella mira; ov'ella passa, ogn'om vèr lei si gira, e cui saluta fa tremar lo core, sì che, bassando il viso, tutto smore, e d'ogni suo difetto allor sospira: fugge dinanzi a lei superbia ed ira. Aiutatemi, donne, farle onore. Ogne dolcezza, ogne pensero umile nasce nel core a chi parlar la sente, ond'è laudato chi prima la vide. Quel ch'ella par quando un poco sorride, non si pò dicer né tenere a mente, sì è novo miracolo e gentile.

Questo sonetto sì ha tre parti. Ne la prima dico sì come questa donna riduce questa potenzia in atto, secondo la nobilissima parte de li suoi occhi; e ne la terza dico questo medesimo, secondo la nobilissima parte de la sua bocca: e intra queste due parti è una particella, ch’è quasi domandatrice d’aiuto a la precedente parte ed a la sequente, e comincia quivi: Aiutatemi, donne. La terza comincia quivi: Ogne dolcezza. La prima si divide in tre; che ne la prima parte dico sì come virtuosamente fae gentile tutto ciò che vede, e questo è tanto a dire quanto inducere Amore in potenzia là ove non è; ne la seconda dico come reduce in atto Amore ne li cuori di tutti coloro cui vede; ne la terza dico quello che poi virtuosamente adopera ne’ loro cuori. La seconda comincia quivi: ov’ella passa; la terza quivi: e cui saluta. Poscia quando dico: Aiutatemi, donne, do a intendere a cui la mia intenzione è di parlare, chiamando le donne che m’aiutino onorare costei. Poscia quando dico: Ogne dolcezza, dico quello medesimo che detto è ne la prima parte, secondo due atti de la sua bocca; l’uno de li quali è lo suo dolcissimo parlare, e l’altro lo suo mirabile riso; salvo che non dico di questo ultimo come adopera ne li cuori altrui, però che la memoria non puote ritenere lui né sua operazione.

XXII
Appresso ciò non molti dì passati, sì come piacque al glorioso sire lo quale non negòe la morte a sé, colui che era stato genitore di tanta maraviglia quanta si vedea ch’era questa nobilissima Beatrice, di questa vita uscendo, a la gloria eternale se ne gìo veracemente. Onde, con ciò sia cosa che cotale partire sia doloroso a coloro che rimangono e sono stati amici di colui che se ne va; e nulla sia sì intima amistade come da buon padre a buon figliuolo e da buon figliuolo a buon padre; e questa donna fosse in altissimo grado di bontade, e lo suo padre, sì come da molti si crede e vero è, fosse bono in alto grado; manifesto è che questa donna fue amarissimamente piena di dolore. E con ciò sia cosa che, secondo l’usanza de la sopradetta cittade, donne con donne e uomini con uomini s’adunino a cotale tristizia, molte donne s’adunaro colà dove questa Beatrice piangea pietosamente: onde io veggendo ritornare alquante donne da lei, udio dicere loro parole di questa gentilissima, com’ella si lamentava; tra le quali parole udio che diceano: «Certo ella piange sì, che quale la mirasse doverebbe morire di pietade». Allora trapassaro queste donne; ed io rimasi in tanta tristizia, che alcuna lagrima talora bagnava la mia faccia, onde io mi ricopria con porre le mani spesso a li miei occhi: e se non fosse ch’io attendea audire anche di lei, però ch’io era in luogo onde se ne gìano la maggior parte di quelle donne che da lei si partìano, io mi sarei nascoso incontanente che le lagrime m’aveano assalito. E però dimorando ancora nel medesimo luogo, donne anche passaro presso di me, le quali andavano ragionando tra loro queste parole: «Chi dee mai essere lieta di noi, che avemo udita parlare questa donna così pietosamente?». Appresso costoro passaro altre donne, che veniano dicendo: «Questi ch’è qui, piange né più né meno come se l’avesse veduta, come noi avemo». Altre dipoi diceano di me: «Vedi questi che non pare esso, tal è divenuto». E così passando queste donne, udio parole di lei e di me in questo modo che detto è. Onde io poi, pensando, propuosi di dire parole, acciò che degnamente avea cagione di dire, ne le quali parole io conchiudesse tutto ciò che inteso avea da queste donne; e però che volentieri l’averei domandate, se non mi fosse stata riprensione, presi tanta matera di dire come s’io l’avesse domandate ed elle m’avessero risposto. E feci due sonetti; che nel primo domando in quello modo che voglia mi giunse di domandare; ne l’altro dico la loro risponsione, pigliando ciò ch’io udio da loro sì come lo mi avessero detto rispondendo. E comincia lo primo: Voi che portate la sembianza umile, e l’altro: Se’ tu colui c’hai trattato sovente.

   Voi, che portate la sembianza umile, con li occhi bassi mostrando dolore, onde venite che 'l vostro colore par divenuto de pietà simile? Vedeste voi nostra donna gentile bagnar nel viso suo di pianto Amore? Ditelmi, donne, che 'l mi dice il core, perch'io vi veggio andar sanz'atto vile. E se venite da tanta pietate, piàcciavi di restar qui meco alquanto, e qual che sia di lei no 'l mi celate. Io veggio li occhi vostri c'hanno pianto, e vèggiovi tornar sì sfigurate, che 'l cor mi triema di vederne tanto.

Questo sonetto si divide in due parti: ne la prima chiamo e domando queste donne se vegnono da lei, dicendo loro che io lo credo, però che tornano quasi ingentilite; ne la seconda le prego che mi dicano di lei. La seconda comincia quivi: E se venite.

Qui appresso è l’altro sonetto, sì come dinanzi avemo narrato.

   Se' tu colui, c'hai trattato sovente di nostra donna, sol parlando a nui? Tu risomigli a la voce ben lui, ma la figura ne par d'altra gente. E perché piangi tu sì coralmente, che fai di te pietà venire altrui? Vedestù pianger lei, che tu non pui punto celar la dolorosa mente? Lascia pianger a noi e triste andare (e fa peccato chi mai ne conforta), che nel suo pianto l'udimmo parlare. Ell'ha nel viso la pietà sì scorta, che qual l'avesse voluta mirare sarebbe innanzi lei piangendo morta.

Questo sonetto ha quattro parti, secondo che quattro modi di parlare ebbero in loro le donne per cui rispondo; e però che sono di sopra assai manifesti, non m’intrametto di narrare la sentenzia de le parti, e però le distinguo solamente. La seconda comincia quivi: E perché piangi; la terza: Lascia pianger a noi; la quarta: Ell’ha nel viso.

XXIII
Appresso ciò per pochi dì, avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero, lo quale era de la mia donna. E quando èi pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo; che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m’apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se’ morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch’io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch’elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l’aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d’angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; ed altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d’umilitade che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m’essere villana, però che tu dèi essere gentile, in tal parte se’ stata! Or vieni a me, che molto ti desidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le còrpora de li morti s’usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde altre donne che per la camera erano, s’accorsero di me, che io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e dicèanmi: «Non dormire più» e «Non ti sconfortare». E parlandomi così, sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch’eo volea dicere: «O Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea «O Beatrice», quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato. E con tutto che io chiamasse questo nome, la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi potero intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io vergognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d’Amore mi rivolsi a loro. E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro: «Procuriamo di confortarlo»; onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi domandavano di che io avesse avuto paura. Onde io essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare, rispuosi a loro: «Io vi diròe quello ch’i’ hoe avuto». Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde poi sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m’era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: Donna pietosa, e di novella etate, ordinata sì come manifesta la infrascritta divisione.

Donna pietosa, e di novella etate, adorna assai di gentilezze umane, che era là 'v'io chiamava spesso Morte, veggendo li occhi miei pien di pietate, e ascoltando le parole vane, si mosse con paura a pianger forte; E altre donne, che si fuoro accorte di me per quella che meco piangia, fecer lei partir via, e appressârsi per farmi sentire. Qual dicea: «Non dormire», e qual dicea: «Perché sì ti sconforte?» Allor lassai la nova fantasia, chiamando il nome de la donna mia.

Era la voce mia sì dolorosa e rotta sì da l'angoscia del pianto, ch'io solo intesi il nome nel mio core; e con tutta la vista vergognosa ch'era nel viso mio giunta cotanto, mi fece verso lor volgere Amore. Elli era tale a veder mio colore, che facea ragionar di morte altrui: «Deh, consoliam costui,» pregava l'una l'altra umilemente; e dicevan sovente: «Che vedestù, che tu non hai valore?» E quando un poco confortato fui, io dissi: «Donne, dicerollo a vui.

Mentr'io pensava la mia frale vita, e vedea 'l suo durar com'è leggero, piànsemi Amor nel core, ove dimora; per che l'anima mia fu sì smarrita, che sospirando dicea nel pensero:

Poi vidi cose dubitose molte, nel vano imaginare ov'io entrai; ed esser mi parea non so in qual loco, e veder donne andar per via disciolte, qual lagrimando, e qual traendo guai, che di tristizia saettavan foco. Poi mi parve vedere a poco a poco turbar lo sole ed apparir la stella, e pianger elli ed ella; cader li augelli volando per l'âre, e la terra tremare; ed omo apparve scolorito e fioco, dicendomi: - Che fai? Non sai novella? morta è la donna tua, ch'era sì bella -.

Levava li occhi miei bagnati in pianti, e vedea (che parean pioggia di manna) li angeli che tornavan suso in cielo, ed una nuvoletta avean davanti, dopo la qual gridavan tutti: Osanna; e s'altro avesser detto, a voi dirèlo. Allor diceva Amor: - Più nol ti celo; vieni a veder nostra donna che giace. - Lo imaginar fallace mi condusse a veder madonna morta; e quand'io l'avea scorta, vedea che donne la covrìan d'un velo; ed avea seco umilità verace, che parea che dicesse: - Io sono in pace. -

Io divenia nel dolor sì umile, veggendo in lei tanta umiltà formata, ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno; tu dèi omai esser cosa gentile, poi che tu se' ne la mia donna stata, e dèi aver pietate e non disdegno. Vedi che sì desideroso vegno d'esser de' tuoi, ch'io ti somiglio in fede. Vieni, ché 'l cor te chiede.- Poi mi partìa, consumato ogne duolo; e quand'io era solo, dicea, guardando verso l'alto regno:

Questa canzone ha due parti: ne la prima dico, parlando a indiffinita persona, come io fui levato d’una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla; ne la seconda dico come io dissi a loro. La seconda comincia quivi: Mentr’io pensava. La prima parte si divide in due: ne la prima dico quello che certe donne, e che una sola, dissero e fecero per la mia fantasia, quanto è dinanzi che io fossi tornato in verace condizione; ne la seconda dico quello che queste donne mi dissero, poi che io lasciai questo farneticare; e comincia questa parte quivi: Era la voce mia. Poscia quando dico: Mentr’io pensava, dico come io dissi loro questa mia imaginazione. Ed intorno a ciò foe due parti: ne la prima dico per ordine questa imaginazione; ne la seconda, dicendo a che ora mi chiamaro, le ringrazio chiusamente; e comincia quivi questa parte: Voi mi chiamaste.

XXIV
Appresso questa vana imaginazione, avvenne uno die che, sedendo io pensoso in alcuna parte, ed io mi sentio cominciare un tremuoto nel cuore, così come se io fosse stato presente a questa donna. Allora dico che mi giunse una imaginazione d’Amore; che mi parve vederlo venire da quella parte ove la mia donna stava, e pareami che lietamente mi dicesse nel cor mio: «Pensa di benedicere lo dì che io ti presi, però che tu lo dèi fare». E certo me parea avere lo cuore sì lieto, che me non parea che fosse lo mio cuore, per la sua nuova condizione. E poco dopo queste parole, che lo cuore mi disse con la lingua d’Amore, io vidi venire verso me una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue già molto donna di questo primo mio amico. E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltade, secondo che altri crede, imposto l’era nome Primavera; e così era chiamata. E appresso lei, guardando, vidi venire la mirabile Beatrice. Queste donne andaro presso di me così l’una appresso l’altra, e parve che Amore mi parlasse nel cuore, e dicesse: «Quella prima è nominata Primavera solo per questa venuta d’oggi; ché io mossi lo imponitore del nome a chiamarla così Primavera, cioè prima verrà lo die che Beatrice si mosterrà dopo la imaginazione del suo fedele. E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire ‘prima verrà’, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce, dicendo: Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini. Ed anche mi parve che mi dicesse, dopo, queste parole: «E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore, per molta simiglianza che ha meco». Onde io poi ripensando, propuosi di scrivere per rima a lo mio primo amico, tacendomi certe parole le quali pareano da tacere, credendo io che ancora lo suo cuore mirasse la bieltade di questa Primavera gentile; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Io mi senti’ svegliar.

   Io mi senti' svegliar dentro a lo core un spirito amoroso che dormia: e poi vidi venir da lungi Amore allegro sì, che appena il conoscia, dicendo: «Or pensa pur di farmi onore»; e ciascuna parola sua ridia. E poco stando meco il mio segnore, guardando in quella parte onde venia, io vidi monna Vanna e monna Bice venir invêr lo loco là ov'io era, l'una appresso de l'altra maraviglia; e sì come la mente mi ridice, Amor mi disse: «Quell'è Primavera, e quell'ha nome Amor, sì mi somiglia».

Questo sonetto ha molte parti: la prima de le quali dice come io mi sentii svegliare lo tremore usato nel cuore, e come parve che Amore m’apparisse allegro nel mio cuore da lunga parte; la seconda dice come me parea che Amore mi dicesse nel mio cuore, e quale mi parea; la terza dice come, poi che questi fue alquanto stato meco cotale, io vidi e udio certe cose. La seconda parte comincia quivi: dicendo: Or pensa; la terza quivi: E poco stando. La terza parte si divide in due: ne la prima dico quello che io vidi; ne la seconda dico quello che io udio. La seconda comincia quivi: Amor mi disse.

XXV
Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò che io dico d’Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la veritate, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui. Dico che lo vidi venire; onde, con ciò sia cosa che venire dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l’uomo, e spezialmente essere risibile; e però appare ch’io ponga lui essere uomo. A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d’amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d’amore certi poete in lingua latina; tra noi, dico (avvegna forse che tra altra gente addivenisse e addivegna ancora, sì come in Grecia), non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d’anni passati, che appariro prima questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo, è che, se volemo cercare in lingua d’oco e in quella di , noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di . E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d’intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rìmano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore. Onde, con ciò sia cosa che a li poete sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a li altri parlatori volgari; onde, se alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori. Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate sì come se avessero senso e ragione, e fàttele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie ed uomini; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione, la quale poi sia possibile d’aprire per prosa. Che li poete abbiano così parlato come detto è, appare per Virgilio; lo quale dice che Juno, cioè una dea nemica de li Troiani, parlòe ad Eolo, segnore de li venti, quivi nel primo de lo Eneida: Eole, namque tibi, e che questo segnore le rispuose, quivi: Tuus, o regina, quid optes explorare labor; mihi jussa capessere fas est. Per questo medesimo poeta parla la cosa che non è animata a le cose animate, nel terzo de lo Eneida, quivi: Dardanide duri. Per Lucano parla la cosa animata a la cosa inanimata, quivi: Multum, Roma, tamen, debes civilibus, armis. Per Orazio parla l’uomo a la sua scienzia medesima, sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d’Orazio, ma dìcele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poètria: Dic mihi, Musa, virum. Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo principio de lo libro c’ha nome Libro di Remedio d’Amore, quivi: Bella mihi, video, bella parantur, ait. E per questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di questo mio libello. E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rìmano dèono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rìmano stoltamente.

XXVI
Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d’alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!». Io dico ch’ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridìcere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.

   Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia, quand'ella altrui saluta, ch'ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l'ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d'umiltà vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mòstrasi sì piacente a chi la mira, che dà per li occhi una dolcezza al core, che 'ntender no la può chi non la prova: e par che de la sua labbia si mova un spirito soave pien d'amore, che va dicendo a l'anima: «Sospira!»

Questo sonetto è sì piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d’alcuna divisione; e però lassando lui, [XXVII] dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Ond’io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole ne le quali ciò fosse significato: e dissi allora questo altro sonetto, che comincia: Vede perfettamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua vertude adoperava ne l’altre, sì come appare ne la sua divisione.

   Vede perfettamente ogne salute chi la mia donna tra le donne vede; quelle che vanno con lei son tenute di bella grazia a Dio render merzede. E sua bieltate è di tanta vertute, che nulla invidia a l'altre ne procede, anzi le face andar seco vestute di gentilezza d'amore e di fede. La vista sua fa ogne cosa umile; e non fa sola sé parer piacente, ma ciascuna per lei riceve onore. Ed è ne li atti suoi tanto gentile, che nessun la si può recare a mente, che non sospiri in dolcezza d'amore.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; ne la seconda dico sì come era graziosa la sua compagnia; ne la terza dico di quelle cose che vertuosamente operava in altrui. La seconda parte comincia quivi: quelle che vanno; la terza quivi: E sua bieltate. Questa ultima parte si divide in tre: ne la prima dico quello che operava ne le donne, cio è per loro medesime; ne la seconda dico quello che operava in loro per altrui; ne la terza dico come non solamente ne le donne, ma in tutte le persone, e non solamente ne la sua presenzia, ma ricordandosi di lei, mirabilmente operava. La seconda comincia quivi: La vista sua; e la terza quivi: Ed è ne li atti.

XXVII
Appresso ciò, cominciai a pensare uno giorno sopra quello che detto avea de la mia donna, cio è in questi due sonetti precedenti; e veggendo nel mio pensero che io non avea detto di quello che al presente tempo adoperava in me, pareami defettivamente avere parlato. E però propuosi di dire parole ne le quali io dicesse come me parea essere disposto a la sua operazione, e come operava in me la sua vertude; e non credendo potere ciò narrare in brevitade di sonetto, cominciai allora una canzone, la quale comincia: Sì lungiamente.

   Sì lungiamente m'ha tenuto Amore e costumato a la sua segnoria, che sì com'elli m'era forte in pria, così mi sta soave ora nel core. Però quando mi tolle sì 'l valore che li spiriti par che fuggan via, allor sente la frale anima mia tanta dolcezza, che 'l viso ne smore, poi prende Amore in me tanta vertute, che fa li miei sospiri gir parlando, ed escon for chiamando la donna mia, per darmi più salute. Questo m'avene ovunque ella mi vede, e sì è cosa umìl, che nol si crede.

XXVIII
Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n’avea questa soprascritta stanzia, quando lo signore de la giustizia chiamòe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata. E avvegna che forse piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima è che ciò non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare, come si converrebbe, di ciò; la terza si è che, posto che fosse l’uno e l’altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae: e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore. Tuttavia, però che molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e ne la sua partita cotale numero pare che avesse molto luogo, convènesi di dire quindi alcuna cosa, acciò che pare al proposito convenirsi. Onde prima dicerò come ebbe luogo ne la sua partita, e poi n’assegnerò alcuna ragione, per che questo numero fue a lei cotanto amico.

XXIX
Io dico che, secondo l’usanza d’Arabia, l’anima sua nobilissima si partìo ne la prima ora del nono giorno del mese; e secondo l’usanza di Siria, ella si partìo nel nono mese de l’anno, però che lo primo mese è ivi Tisirin primo, lo quale a noi è Ottobre; e secondo l’usanza nostra, ella si partìo in quello anno de la nostra indizione, cioè de li anni Domini, in cui lo perfetto numero nove volte era compiuto in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue de li cristiani del terzodecimo centinaio. Perché questo numero fosse in tanto amico di lei, questa potrebbe essere una ragione: con ciò sia cosa che, secondo Tolomeo e secondo la cristiana veritade, nove siano li cieli che si muovono, e secondo comune opinione astrologa, li detti cieli adoperino qua giuso secondo la loro abitudine insieme, questo numero fue amico di lei per dare ad intendere che ne la sua generazione tutti e nove li mobili cieli perfettissimamente s’aveano insieme. Questa è una ragione di ciò; ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima; per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che sanza numero altro alcuno, per se medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è fattore per sè medesimo del nove, e lo fattore per sè medesimo de li miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Santo, li quali sono tre e uno, questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade. Forse ancora per più sottile persona si vederebbe in ciò più sottile ragione; ma questa è quella ch’io ne veggio, e che più mi piace.

XXX
Poi che fue partita da questo secolo, rimase tutta la sopradetta cittade quasi vedova dispogliata da ogni dignitade; onde io, ancora lagrimando in questa desolata cittade, scrissi a li prìncipi de la terra alquanto de la sua condizione, pigliando quello cominciamento di Geremia profeta che dice: Quomodo sedet sola civitas. E questo dico, acciò che altri non si maravigli perché io l’abbia allegato di sopra, quasi come entrata de la nuova materia che appresso vene. E se alcuno volesse me riprendere di ciò, ch’io non scrivo qui le parole che sèguitano a quelle allegate, escùsomene, però che lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare: onde, con ciò sia cosa che le parole che sèguitano a quelle che sono allegate siano tutte latine, sarebbe fuori del mio intendimento se le scrivessi. E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico, a cui io ciò scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente volgare.

XXXI
Poi che li miei occhi ebbero per alquanto tempo lagrimato, e tanto affaticati erano che non poteano disfogare la mia trestizia, pensai di volere disfogarla con alquante parole dolorose; e però propuosi di fare una canzone, ne la quale piangendo ragionassi di lei, per cui tanto dolore era fatto distruggitore de l’anima mia; e cominciai allora una canzone, la quale comincia: Li occhi dolenti per pietà del core. E acciò che questa canzone paia rimanere più vedova dopo lo suo fine, la dividerò prima che io la scriva: e cotale modo terrò da qui innanzi. Io dico che questa cattivella canzone ha tre parti: la prima è proemio; ne la seconda ragiono di lei; ne la terza parlo a la canzone pietosamente. La seconda parte comincia quivi: Ita n’è Beatrice; la terza quivi: Pietosa mia canzone. La prima parte si divide in tre: ne la prima dico perché io mi muovo a dire; ne la seconda dico a cui io voglio dire; ne la terza dico di cui io voglio dire. La seconda comincia quivi: E perché me ricorda; la terza quivi: e dicerò. Poscia quando dico: Ita n’è Beatrice, ragiono di lei; e intorno a ciò foe due parti: prima dico la cagione per che tolta ne fue; appresso dico come altri si piange de la sua partita, e comincia questa parte quivi: Partìssi de la sua. Questa parte si divide in tre: ne la prima dico chi non la piange; ne la seconda dico chi la piange; ne la terza dico de la mia condizione. La seconda comincia quivi: ma ven trestizia e voglia; la terza quivi: Dànnomi angoscia. Poscia quando dico: Pietosa mia canzone, parlo a questa canzone, disegnandole a quali donne se ne vada, e stèasi con loro.

Li occhi dolenti per pietà del core hanno di lagrimar sofferta pena, sì che per vinti son remasi omai. Ora, s'i' voglio sfogar lo dolore, che a poco a poco a la morte mi mena, convènemi parlar traendo guai. E perché me ricorda ch'io parlai de la mia donna, mentre che vivia, donne gentili, volontier con vui, non vòi parlare altrui, se non a cor gentil che in donna sia; e dicerò di lei piangendo, pui che si n'è gita in ciel subitamente, e ha lasciato Amor meco dolente.

Ita n'è Beatrice in l'alto cielo, nel reame ove li angeli hanno pace, e sta con loro, e voi, donne, ha lassate: no la ci tolse qualità di gelo né di calore, come l'altre face, ma solo fue sua gran benignitate; ché luce de la sua umilitate passò li cieli con tanta vertute, che fé maravigliar l'etterno sire, sì che dolce disire lo giunse di chiamar tanta salute; e félla di qua giù a sé venire, perché vedea ch'esta vita noiosa non era degna di sì gentil cosa.

Partìssi de la sua bella persona, piena di grazia, l'anima gentile, ed èssi gloriosa in loco degno. Chi no la piange, quando ne ragiona, core ha di pietra sì malvagio e vile, ch'entrar no 'i puote spirito benegno. Non è di cor villan sì alto ingegno, che possa imaginar di lei alquanto, e però no li ven di pianger doglia; ma ven trestizia e voglia di sospirare e di morir di pianto, e d'onne consolar l'anima spoglia, chi vede nel pensero alcuna volta quale ella fue, e com'ella n'è tolta.

Dànnomi angoscia li sospiri forte, quando 'l pensero ne la mente grave mi reca quella che m'ha 'l cor diviso; e spesse fiate pensando a la morte, vènemene un disio tanto soave, che mi tramuta lo color nel viso. E quando 'l maginar mi ven ben fiso, giùgnemi tanta pena d'ogne parte, ch'io mi riscuoto per dolor ch'i' sento; e sì fatto divento, che da le genti vergogna mi parte. Poscia piangendo, sol nel mio lamento chiamo Beatrice, e dico: - Or se' tu morta? -; e mentre ch'io la chiamo, me conforta.

Pianger di doglia e sospirar d'angoscia mi strugge 'l core ovunque sol mi trovo, sì che ne 'ncrescerebbe a chi m'audesse: e quale è stata la mia vita, poscia che la mia donna andò nel secol novo, lingua non è che dicer lo sapesse. E però, donne mie, pur ch'io volesse, non vi saprei io dir ben quel ch'io sono, sì mi fa travagliar l'acerba vita; la quale è sì 'nvilita, che ogn'om par che mi dica: - Io t'abbandono -, veggendo la mia labbia tramortita. Ma qual ch'io sia, la mia donna il si vede, ed io ne spero ancor da lei merzede.

Pietosa mia canzone, or va piangendo, e ritruova le donne e le donzelle, a cui le tue sorelle erano usate di portar letizia; e tu, che se' figliuola di trestizia, vatten disconsolata a star con elle.

XXXII
Poi che detta fue questa canzone, sì venne a me uno, lo quale, secondo li gradi de l’amistade, è amico a me immediatamente dopo lo primo; e questi fue tanto distretto di sanguinitade con questa gloriosa, che nullo più presso l’era. E poi che fue meco a ragionare, mi pregòe ch’io li dovesse dire alcuna cosa per una donna che s’era morta; e simulava sue parole, acciò che paresse che dicesse d’un’altra, la quale morta era certamente. Onde io accorgendomi che questi dicea solamente per questa benedetta, sì li dissi di fare ciò che mi domandava lo suo prego. Onde poi pensando a ciò, propuosi di fare uno sonetto nel quale mi lamentasse alquanto, e di darlo a questo mio amico, acciò che paresse che per lui l’avessi fatto; e dissi allora questo sonetto, che comincia: Venite a ‘ntender li sospiri miei. Lo quale ha due parti: ne la prima, chiamo li fedeli d’Amore che m’ intendano; ne la seconda, narro de la mia misera condizione. La seconda comincia quivi: li quai disconsolati.

   Venite a 'ntender li sospiri miei, oi cor gentili, chè pietà 'l disia: li quai disconsolati vanno via, e s'e' non fosser, di dolor morrei; però che gli occhi mi sarebber rei, molte fiate più ch'io non vorria, lasso! di pianger sì la donna mia, che sfogasser lo cor, piangendo lei. Voi udirete lor chiamar sovente la mia donna gentil, che si n'è gita al secol degno de la sua vertute; e dispregiar talora questa vita in persona de l'anima dolente abbandonata de la sua salute.

XXXIII
Poi che detto èi questo sonetto, pensandomi chi questi era a cui lo intendea dare quasi come per lui fatto, vidi che povero mi parea lo servigio e nudo a così distretta persona di questa gloriosa. E però anzi ch’io li dessi questo soprascritto sonetto, sì dissi due stanzie d’una canzone, l’una per costui veracemente, e l’altra per me, avvegna che paia l’una e l’altra per una persona detta, a chi non guarda sottilmente; ma chi sottilmente le mira, vede bene che diverse persone parlano, acciò che l’una non chiama sua donna costei, e l’altra sì, come appare manifestamente. Questa canzone e questo soprascritto sonetto li diedi, dicendo io lui che per lui solo fatto l’avea. La canzone comincia: Quantunque volte, e ha due parti: ne l’una, cioè ne la prima stanzia, si lamenta questo mio caro e distretto a lei; ne la seconda mi lamento io, cioè ne l’altra stanzia si comincia: E’ si raccoglie ne li miei. E così appare che in questa canzone si lamentano due persone, l’una de le quali si lamenta come frate, l’altra come servo.

Quantunque volte, lasso! , mi rimembra ch'io non debbo giammai veder la donna ond'io vo sì dolente, tanto dolore intorno 'l cor m'assembra la dolorosa mente, ch'io dico: - Anima mia, chè non ten vai? chè li tormenti che tu porterai nel secol, che t'è già tanto noio, mi fan pensoso di paura forte -. Ond'io chiamo la Morte, come soave e dolce mio riposo; e dico: - Vieni a me - con tanto amore, che sono astioso di chiunque more.

E si raccoglie ne li miei sospiri un sòno di pietate, che va chiamando Morte tuttavia: a lei si volser tutti i miei disiri, quando la donna mia fu giunta da la sua crudelitate; perché 'l piacere de la sua bieltate, partendo sé da la nostra veduta, divenne spirital bellezza grande, che per lo cielo spande luce d'amor, che li angeli saluta e lo intelletto loro alto, sottile face maravigliar, sì v'è gentile.

XXXIV
In quello giorno nel quale si compiea l’anno che questa donna era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette; e mentre io lo disegnava, volsi li occhi, e vidi lungo me uomini a li quali si convenia di fare onore. E riguardavano quello che io facea; e secondo che me fu detto poi, elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse. Quando li vidi, mi levai, e salutando loro dissi: «Altri era testé meco, però pensava». Onde partiti costoro, ritornàimi a la mia opera, cioè del disegnare figure d’angeli: e facendo ciò, mi venne uno pensero di dire parole, quasi per annovale, e scrivere a costoro li quali erano venuti a me; e dissi allora questo sonetto, lo quale comincia: Era venuta. Lo quale ha due cominciamenti, e però lo dividerò secondo l’uno e secondo l’altro. Dico che secondo lo primo, questo sonetto ha tre parti: ne la prima, dico che questa donna era già ne la mia memoria; ne la seconda, dico quello che Amore però mi facea; ne la terza, dico de gli effetti d’Amore. La seconda comincia quivi: Amor che; la terza quivi: Piangendo uscivan for. Questa parte si divide in due: ne l’una dico che tutti li miei sospiri uscivano parlando; ne la seconda dico che alquanti diceano certe parole diverse da gli altri. La seconda comincia quivi: Ma quei. Per questo medesimo modo si divide secondo l’altro cominciamento, salvo che ne la prima parte dico quando questa donna era così venuta ne la mia memoria, e ciò non dico ne l’altro.

Primo cominciamento

   Era venuta ne la mente mia la gentil donna che per suo valore fu posta da l'altissimo Signore nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria.

Secondo cominciamento

   Era venuta ne la mente mia quella donna gentil cui piange Amore. Entro 'n quel punto che lo suo valore vi trasse a riguardar quel ch'eo facia. Amor che ne la mente la sentia, s'era svegliato nel destrutto core, e diceva a' sospiri: «Andate fore»; per che ciascun dolente si partia. Piangendo uscivan for de lo mio petto con una voce che sovente mena le lagrime dogliose a li occhi tristi. Ma quei che n'uscian for con maggior pena, venian dicendo: «Oi nobile intelletto, oggi fa l'anno che nel ciel salisti».

XXXV
Poi per alquanto tempo, con ciò fosse cosa che io fosse in parte ne la quale mi ricordava del passato tempo, molto stava pensoso, e con dolorosi pensamenti tanto che mi faceano parere de fore una vista di terribile sbigottimento. Onde io, accorgendomi del mio travagliare, levai li occhi per vedere se altri mi vedesse. Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che tutta la pietà parea in lei accolta. Onde, con ciò sia cosa che quando li miseri veggiono di loro compassione altrui, più tosto si muovono a lagrimare, quasi come di se stessi avendo pietade, io senti’ allora cominciare li miei occhi a volere piangere; e però, temendo di non mostrare la mia vile vita, mi partio dinanzi da li occhi di questa gentile; e dicea poi fra me medesimo: «E’ non puote essere che con quella pietosa donna non sia nobilissimo amore». E però propuosi di dire uno sonetto, ne lo quale io parlasse a lei, e conchiudesse in esso tutto ciò che narrato è in questa ragione. E però che per questa ragione è assai manifesto, sì nollo dividerò. Lo sonetto comincia: Videro li occhi miei.

   Videro li occhi miei quanta pietate era apparita in la vostra figura, quando guardaste li atti e la statura ch'io faccio per dolor molte fiate. Allor m'accorsi che voi pensavate la qualità de la mia vita oscura, sì che mi giunse ne lo cor paura di dimostrar con li occhi mia viltate. E tòlsimi dinanzi a voi, sentendo che si movean le lagrime dal core, ch'era sommosso da la vostra vista. Io dicea poscia ne l'anima trista: «Ben è con quella donna quello Amore lo qual mi face andar così piangendo».

XXXVI
Avvenne poi che là ovunque questa donna mi vedea, sì si facea d’una vista pietosa e d’un colore palido quasi come d’amore; onde molte fiate mi ricordava de la mia nobilissima donna, che di simile colore si mostrava tuttavia. E certo molte volte non potendo lagrimare né disfogare la mia trestizia, io andava per vedere questa pietosa donna, la quale parea che tirasse le lagrime fuori de li miei occhi per la sua vista. E però mi venne volontade di dire anche parole, parlando a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Color d’amore; ed è piano sanza dividerlo, per la sua precedente ragione.

   Color d'amore e di pietà sembianti non preser mai così mirabilmente viso di donna, per veder sovente occhi gentili o dolorosi pianti, come lo vostro, qualora davanti vedètevi la mia labbia dolente; sì che per voi mi ven cosa a la mente, ch'io temo forte no lo cor si schianti. Eo non posso tener li occhi distrutti che non reguardin voi spesse fiate, per desiderio di pianger ch'elli hanno: e voi crescete sì lor volontate, che de la voglia si consuman tutti; ma lagrimar dinanzi a voi non sanno.

XXXVII
Io venni a tanto per la vista di questa donna, che li miei occhi si cominciaro a dilettare troppo di vederla; onde molte volte me ne crucciava nel mio cuore, ed avèamene per vile assai. Onde più volte bestemmiava la vanitade de li occhi miei, e dicea loro nel mio pensero: «Or voi solavate fare piangere chi vedea la vostra dolorosa condizione, ed ora pare che vogliate dimenticarlo per questa donna che vi mira; che non mira voi, se non in quanto le pesa de la gloriosa donna di cui piangere solete; ma quanto potete fate, ché io la vi pur rimembrerò molto spesso, maladetti occhi, ché mai, se non dopo la morte, non dovrebbero le vostre lagrime avere restate». E quando così avea detto fra me medesimo a li miei occhi, e li sospiri m’assalivano grandissimi e angosciosi. E acciò che questa battaglia che io avea meco non rimanesse saputa pur dal misero che la sentia, propuosi di fare un sonetto, e di comprendere in ello questa orribile condizione. E dissi questo sonetto, lo quale comincia:L’amaro lagrimar. Ed hae due parti: ne la prima, parlo a li occhi miei sì come parlava lo mio cuore in me medesimo; ne la seconda, rimuovo alcuna dubitazione, manifestando chi è che così parla; e comincia questa parte quivi: Così dice. Potrebbe bene ancora ricevere più divisioni, ma sariano indarno, però che è manifesto per la precedente ragione.

   «L'amaro lagrimar che voi faceste, oi occhi miei, così lunga stagione, facea lagrimar l'altre persone de la pietate, come voi vedeste. Ora mi par che voi l'obliereste, s'io fosse dal mio lato sì fellone ch'i' non ven disturbasse ogne cagione, membrandovi colei cui voi piangeste. La vostra vanità mi fa pensare, e spavèntami sì, ch'io temo forte del viso d'una donna che vi mira. Voi non dovreste mai, se non per morte, la vostra donna, ch'è morta, obliare». Così dice 'l meo core, e poi sospira.

XXXVIII
Ricovròmi la vista di quella donna in sì nuova condizione, che molte volte ne pensava sì come di persona che troppo mi piacesse; e pensava di lei così: «Questa è una donna gentile, bella, giovane e savia, e apparita forse per volontade d’Amore, acciò che la mia vita si riposi». E molte volte pensava più amorosamente, tanto che lo cuore consentiva in lui, cioè nel suo ragionare. E quando io avea consentito ciò, e io mi ripensava sì come da la ragione mosso, e dicea fra me medesimo: «Deo, che pensero è questo, che in così vile modo vuole consolare me e non mi lascia quasi altro pensare?». Poi si rilevava un altro pensero, e dicea a me: «Or tu se’ stato in tanta tribulazione, perché non vuoli tu ritrarre te da tanta amaritudine? Tu vedi che questo è uno spiramento d’Amore, che ne reca li disiri d’amore dinanzi, ed è mosso da così gentil parte, com’è quella de li occhi de la donna che tanto pietosa ci s’hae mostrata». Onde io avendo così più volte combattuto in me medesimo, ancora ne volli dire alquante parole; e però che la battaglia de’ pensieri vinceano coloro che per lei parlavano, mi parve che si convenisse di parlare a lei; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Gentil pensero; e dico ‘gentile’ in quanto ragionava di gentile donna, ché per altro era vilissimo.

In questo sonetto fo due parti di me, secondo che li miei pensieri erano divisi. L’una parte chiamo ‘cuore’, cioè l’appetito; l’altra chiamo anima, cioè la ragione; e dico come l’uno dice con l’altro. E che degno sia di chiamare l’appetito cuore, e la ragione anima, assai è manifesto a coloro a cui mi piace che ciò sia aperto. Vero è che nel precedente sonetto io fo la parte del cuore contra quella de li occhi, e ciò pare contrario di quello che io dico nel presente; e però dico che ivi lo cuore anche intendo per lo appetito, però che maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi de la gentilissima donna mia, che di vedere costei, avvegna che alcuno appetito n’avessi già, ma leggero parea: onde appare che l’uno detto non è contrario a l’altro.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima, comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso lei; ne la seconda, dico come l’anima, cioè la ragione, dice al cuore, cioè a lo appetito; ne la terza dico come le risponde. La seconda parte comincia quivi: L’anima dice; la terza quivi: Ei le risponde.

   Gentil pensero che parla di vui, sen vene a dimorar meco sovente, e ragiona d'amor sì dolcemente, che face consentir lo core in lui. L'anima dice al cor: «Chi è costui, che vene a consolar la nostra mente ed è la sua vertù tanto possente, ch'altro penser non lascia star con nui?» Ei le risponde: «Oi anima pensosa, questi è uno spiritel novo d'amore, che reca innanzi me li suoi desiri; e la sua vita, e tutto 'l suo valore, mosse de li occhi di quella pietosa che si turbava de' nostri martìri».

XXXIX
Contra questo avversario de la ragione si levoe un die, quasi ne l’ora de la nona, una forte imaginazione in me; che mi parve vedere questa gloriosa Beatrice con quelle vestimenta sanguigne co le quali apparve prima a li occhi miei; e pareami giovane in simile etade in quale io prima la vidi. Allora cominciai a pensare di lei. E ricordandomi di lei secondo l’ordine del tempo passato, lo mio cuore cominciò dolorosamente a pentère de lo desiderio a cui sì vilmente s’avea lasciato possedere alquanti die contra la costanzia de la ragione; e discacciato questo cotale malvagio desiderio, sì si rivolsero tutti li miei pensamenti a la loro gentilissima Beatrice. E dico che d’allora innanzi cominciai a pensare di lei sì con tutto lo vergognoso cuore, che li sospiri manifestavano ciò molte volte; però che tutti quasi diceano nel loro uscire quello che nel cuore si ragionava, cioè lo nome di quella gentilissima, e come si partìo da noi. E molte volte avvenia che tanto dolore avea in sé alcuno pensero, ch’io dimenticava lui e là dov’io era. Per questo raccendimento de’ sospiri si raccese lo sollenato lagrimare, in guisa che li miei occhi pareano due cose che desiderassero pur di piangere; e spesso avvenia che per lo lungo continuare del pianto, dintorno loro si facea uno colore purpureo, lo quale suole apparire per alcuno martirio che altri riceva. Onde appare che de la loro vanitade fuoro degnamente guiderdonati; sì che d’allora innanzi non potero mirare persona che li guardasse sì che loro potesse trarre a simile intendimento. Onde io, volendo che cotale desiderio malvagio e vana tentazione paresse distrutto, sì che alcuno dubbio non potessero indùcere le rimate parole ch’io avea dette innanzi, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io comprendesse la sentenza di questa ragione. E dissi allora: Lasso! per forza di molti sospiri; e dissi ‘lasso’ in quanto mi vergognava di ciò, che li miei occhi aveano così vaneggiato.

Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

   Lasso! per forza di molti sospiri che nascon de' penser che son nel core, li occhi son vinti, e non hanno valore di riguardar persona che li miri. E fatti son che paion due disiri di lagrimare e di mostrar dolore, e spesse volte piangon sì ch'Amore li 'ncerchia di corona di martìri. Questi penseri, e li sospir ch'eo gitto, diventan ne lo cor sì angosciosi, ch'Amor vi tramortisce, sì glien dole; però ch'elli hanno in lor, li dolorosi, quel dolce nome di madonna scritto, e de la morte sua molte parole.

XL
Dopo questa tribulazione avvenne, in quello tempo che molta gente va per vedere quella imagine benedetta la quale Jesu Cristo lasciò a noi per esemplo de la sua bellissima figura, la quale vede la mia donna gloriosamente, che alquanti peregrini passavano per una via la quale è quasi mezzo de la cittade ove nacque e vivette e morìo la gentilissima donna. Li quali peregrini andavano, secondo che mi parve, molto pensosi; ond’io pensando a loro, dissi fra me medesimo: «Questi peregrini mi paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare di questa donna, e non ne sanno neente; anzi li loro penseri sono d’altre cose che di queste qui, ché forse pensano de li loro amici lontani, li quali noi non conoscemo». Poi dicea fra me medesimo: «Io so che s’elli fossero di propinquo paese, in alcuna vista parrebbero turbati passando per lo mezzo de la dolorosa cittade». Poi dicea fra me medesimo: «Se io li potesse tenere alquanto, io li pur farei piangere anzi ch’elli uscissero di questa cittade, però che io direi parole le quali farebbero piangere chiunque le intendesse». Onde, passati costoro da la mia veduta, propuosi di fare uno sonetto ne lo quale io manifestasse ciò che io avea detto fra me medesimo; e acciò che più paresse pietoso, propuosi di dire come se io avesse parlato a loro; e dissi questo sonetto, lo quale comincia: Deh! peregrini che pensosi andate. E dissi ‘peregrini’ secondo la larga significazione del vocabulo; ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto: in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria; in modo stretto, non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di sa’ Iacopo o riede. E però è da sapere che in tre modi si chiamano propriamente le genti che vanno al servigio de l’Altissimo: chiamansi palmieri, in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini, in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa’ Iacopo fue più lontana de la sua patria che d’alcuno altro apostolo; chiamansi romei, in quanto vanno a Roma, là ove questi cu’ io chiamo peregrini andavano.

Questo sonetto non divido, però che assai lo manifesta la sua ragione.

   Deh! peregrini che pensosi andate, forse di cosa che non v'è presente, venite voi da sì lontana gente, com'a la vista voi ne dimostrate, che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la città dolente, come quelle persone che neente par che 'ntendesser la sua gravitate. Se voi restaste per volerlo audire, certo lo cor de' sospiri mi dice che lagrimando n'uscireste pui. Ell'ha perduta la sua beatrice; e le parole ch'om di lei pò dire hanno vertù di far piangere altrui.

XLI
Poi mandaro due donne gentili a me, pregando che io mandasse loro di queste mie parole rimate; onde io, pensando la loro nobilitade, propuosi di mandare loro e di fare una cosa nuova, la quale io mandasse a loro con esse, acciò che più onorevolemente adempiesse li loro prieghi. E dissi allora uno sonetto lo quale narra del mio stato, e mandàlo a loro co lo precedente sonetto accompagnato, e con un altro che comincia: Venite a intender.

Lo sonetto lo quale io feci allora, comincia: Oltre la spera; lo quale ha in sé cinque parti. Ne la prima dico là ove va lo mio pensero, nominandolo per lo nome d’alcuno suo effetto. Ne la seconda dico perché va là suso, cioè chi lo fa così andare. Ne la terza dico quello che vide, cioè una donna onorata là suso; e chiamolo allora ‘spirito peregrino’, acciò che spiritualmente va là suso, e sì come peregrino lo quale è fuori de la sua patria, vi stae. Ne la quarta dico come elli la vede tale, cioè in tale qualitade, che io non lo posso intendere, cioè a dire che lo mio pensero sale ne la qualitade di costei in grado che lo mio intelletto no lo puote comprendere; con ciò sia cosa che lo nostro intelletto s’abbia a quelle benedette anime, sì come l’occhio debole a lo sole: e ciò dice lo Filosofo nel secondo de la Metafisica. Ne la quinta dico che, avvegna che io non possa intendere là ove lo pensero mi trae, cioè a la sua mirabile qualitade, almeno intendo questo, cioè che tutto è lo cotale pensare de la mia donna, però ch’io sento lo suo nome spesso nel mio pensero: e nel fine di questa quinta parte dico ‘donne mie care’, a dare ad intendere che sono donne coloro a cui io parlo. La seconda parte comincia quivi: intelligenza nova; la terza quivi: Quand’elli è giunto; la quarta quivi: Vedela tal; la quinta quivi: So io che parla. Potrèbbesi più sottilmente ancora dividere, e più sottilmente fare intendere; ma puòtesi passare con questa divisa, e però non m’intrametto di più dividerlo.

   Oltre la sfera che più larga gira, passa 'l sospiro ch'esce del mio core: intelligenza nova, che l'Amore piangendo mette in lui, pur sù lo tira. Quand'elli è giunto là dove disira, vede una donna che riceve onore, e luce sì che per lo suo splendore lo peregrino spirito la mira. Vedela tal, che quando 'l mi ridice, io no lo intendo, sì parla sottile al cor dolente che lo fa parlare. So io che parla di quella gentile, però che spesso ricorda Beatrice, sì ch'io lo 'ntendo ben, donne mie care.

XLII
Appresso questo sonetto, apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta, infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna: cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus.

THE FLORENCE OF THE 'FEDELI D'AMORE'

17. Map 1D, Parrini XIII, Tassinari XIII. In Via del Corso, 6, on your left, where the Portinari palace stood. Oral reading 24

Folco Portinari, Beatrice's banker father, founded the hospital of 9. Santa Maria Nuova, while her nurse, Monna Tessa, founded the adjacent Order of the Oblate, who nursed the sick and dying there, while the Misericordia by the Duomo carried the sick and the dying and buried the dead, Michelangelo showing himself as such a Misericordia worker in the Pietà, now in the Opera del Duomo but formerly in the Cathedral. Dante earlier had celebrated the family in his Vita nova. This plaque describes Beatrice's appearance to him in Purgatorio XXX, in the colours that would become Italy's national flag at the Risorgimento. Just before the plaque is the entrance to the Palazzo Portinari-Salviati where you can have a coffee and admire its later embellishments. This is where Dante in Vita nova II, first saw Beatrice at her home at the May day celebration, where she is eight and is dressed in scarlet, and he is nine years old.

PORTINARI
SOVRA CANDIDO VEL , CINTA D'ULIVA, DONNA M'APPARVE SOTTO VERDE MANTO VESTITA DEL COLOR DI FIAMMA VIVA.
Over her snow-white veil with olive cinct
Appeared a lady under a green mantle
Vested in colour of the living flame. PURG XXX.31-33

PIAZZA SANTA FELICITA'

39. Cross the 38. Ponte Vecchio into the Oltrarno (the other side of the Arno River, like Rome's other side of the Tiber River, the Tevere, as "Trastevere"), you will see on your left hand side the little piazza of Santa Felicità with the column bound in iron at its centre. Giovanni Villani tells us, Cronica VII.lxxxix, that on St John's Day, 24 June 1283, when Dante was 18, a thousand young Florentines gathered there, dressed in white, to celebrate the God of Love, Amore, In the year 1283, in the month of June for the Feast of St John’s Day, the city of Florence being in a good state of happiness, and tranquil and at peace, and of use for the merchants and craftspeople, largely because of the Guelfs who ruled the land, they made in the area of Santa Felicità in the Oltrarno, where were the head and beginner of that house of de’ Rossi with their neighbours, a company and brigata of a thousand men and more, all dressed in white clothing with a lord called Amore. . . . This court lasted for two months and was the most noble and famous that ever was in the city of Florence and in Tuscany. . . . this lasted until 1284 when the conflict began between the people and those with power, between the White and the Black parties.

That Amore is to be found in Brunetto Latino's Tesoretto, in Dante Alighieri's Vita nova III, where he sees Beatrice when he is eighteen, and she is dressed in white, and he speaks of the 'fedeli d'Amore', in the Francesco da Barberino's Documenti d'Amore, and in the Canzoniere Palatino. Francesco da Barberino was a fellow student with Dante Alighieri and Guido Cavalcanti of Brunetto Latino. Dante presents a copy of the Vita nova to his teacher one Easter day with the accompanying sonnet, "Messer Brunetto, questa pulzeletta",

Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozzi 146, fol. 42r, Brunetto Latino, Column in Piazza Santa Felicità, Florence
Tesoretto, Miniaturist, Francesco da Barberino

Biblioteca Apostolica Vaticana, Francesco da Barberino, Documenti d'Amore

THE BADIA

**21.**The Badia Map 1D, Parrini XXIV, Tassinari XXIV. In Via del Proconsolo, BADIA, 17 rosso. Oral reading21

VGO DI TOSCANA
CIASCVN CHE DELLA BELLA INSEGNA PORTA DEL GRAN BARONE, IL CVI NOME E'L CVI PREGIO LA FESTA DI TOMMASO RICONFORTA DA ESSO EBBE MILIZIA E PRIVILEGIO.

Each one that bears the beautiful escutcheon
Of the great barn whose renown and name
The festival of Thomas keepeth fresh
Knighthood and privilege from him received.

PAR XVI.137-139

Willa, the mother of Ugo of Tuscany, 951-1001, founded this Abbey in Florence.


Catasto dell Badia Bigallo Biadaiuolo Umiltà Duomo OggiEnter the door up the steps. The church is now much altered from what it was in Dante's day. There as a boy Dante would have heard the bells rung and the monks sing at Terce and Nones, at nine o'clock and then at three o'clock, at the third and ninth hours of daylight. Their other Offices of Prayers would have been Lauds, Matins, Sext, Vespers and Compline, as well as Mass. Their singing would have been in Gregorian chant. When we did the Music of the Commedi a in concerts we used the manuscripts of Dante's epoch from Santa Reparata and elsewhere. Dante describes seeing Beatrice here in Vita nova V. The city dignatories still meet here with the Gonfalone of Justice to honour Ugo of Tuscany and celebrate Mass every 21 December, the feastday of St Thomas the Apostle. Boccaccio would lecture on Dante's Commedia in its chapel of St Stephen and Filipino would paint this painting of Saint Bernard's vision of the Virgin, telling him what to write in his commentary to Solomon's Song of Songs, which Dante evoked in Paradiso XXXIII.

Apparition of The Virgin to St Bernard by LIPPI,
         Filippino

DANTE'S HOUSE

25. The Dante House on your right.Map 2D, Parrini VIII, Tassinari VIII. In Via Dante Alighieri, 2, CASA DI DANTE, on your right, at Dante's birthplace. Oral reading 20 ♫ . . . I' FVI NATO E CRESCIVTO
SOVRA 'L BEL FIVME ARNO ALLA GRAN VILLA.

. . . Born was I and grew up
In the great town on the fair River of Arno.

INF XXIII, 94-95

The real Dante House, 1872 The real House The fake HouseWe see this same door architecture in panels painted by Lorenzetti showing scenes from the life of Dante's contemporary, Saint Umiltà of Faenza (+1310).

25. DanteHouse 23.Torre della Castagna, Engraving, 1865
The present Museo Casa di Dante is fake, built in the early twentieth century, but the building next to it is the one shown by Leonardo Bruni, he tells us, to Dante's great grandson, Leonardo Alighieri. See especially the documentation in Della Casa di Dante: Relazione con Documenti al Consiglio Generale del Comune di Firenze (Firenze: Le Monnier, 1865). It is here that Dante penned the_Vita no_ va, presenting it on Easter day to his teacher, with the accompanying sonnet, "Messer Brunetto, questa pulzeletta". Behind the true Dante house, reached by way of the trattoria "Il Pennello", is the Piazza de' Donati where he would have played as a boy, Gemma Donati living here and being bethrothed to him by their elders.

LA VITA NUOVA

PARADIGMI DI PELLEGRINAGGIO1

La_Vita Nuova_ è, come la traduttrice Barbara Reynolds osserva, un'opera intorno alla poesia,2 un'opera di un poeta per i poeti, e, come Charles Singleton ha acutamente dimostrato nel suo Essay on the Vita Nuova un libro sul Libro.3 In tal senso è autocosciente, autoreferenziale, autoriflessivo. E’ al contempo un testobifronte, scritto con «ambages», oscure ambiguità, intenzionali duplicità di senso (Eneide VI.29,9; De vulgari eloquentia I.x). Un testo ermeneutico e crittografico - molti dei cui significati da decodificare hanno a che vedere con il pellegrinaggio - scritto in un'epoca in cui la teoria critica era la teologia, i testi sacri erano riflessi nei testi secolari, la riconciliazione delle ambages affidata al ricco pluralismo culturale.

L'ermeneutica della_Vita Nuova_ può essere cifrata mediante l’archeologia del suo testo,4 vale a dire tramite la sua intertestualità con un testo anteriore che a sua volta descrive una geografia aliena e «peregrina», estranea a quella di Dante; l'una la geografia della Palestina in Asia, l'altra la geografia del Sinai in Africa. E, tuttavia, anche rappresenta l'ambito geografico della natia Firenze, di Roma, e Compostela, in Europa. Servendosi dei paradigmi dell'Esodo e di Emmaus come di un palinsesto, Dante crea sul Vecchio e Nuovo Testamento e dà forma nuova all'ebraico, al greco e latino della Bibbia trasfondendoli nel volgare fiorentino. Il contesto culturale potremmo dire, inoltre, spiega sia il testo sia il suo metodo, decodificandone la crittografia. Il presente saggio tenterà di dipanare quegli aspetti del suo enigma connessi con il pellegrinaggio ed i suoi due paradigmi, il paradigma dell’Esodo in Egitto (in Africa) e il paradigma di Emmaus in Palestina (in Asia), fissando lo sguardo sulla Mappa mundi ‘T-O’ medievale. Il Libro del Verbo (Torah, Vangelo, Corano) è il Libro del Mondo creato da Dio.

Il secolo XIII è il secolo del «dolce stil nuovo», il secolo dello «stile Gotico», che prendendo a prestito motivi dai Saraceni osservati in Spagna, in Sicilia, e nel Regno di Gerusalemme (perduto nel 1291 con la caduta di Acri) - dove la cultura cristiana con i suoi crociati e pellegrinaggi incontrò il ricco pluralismo degli altri popoli del Libro - rese ultracristiano tale materiale ultracivilizzato in antitesi al romanico, che si preferiva interpretare ora come Antico, che fosse romano o giudaico, ellenico o ebraico. Erwin Panofsky ha mostrato come quest’epoca si servisse di questi due stili in una lingua codificata, che trasmetteva Antico e Nuovo insieme. Quest'uno ad adempimento dell'altro, e non per abolirlo.5 Erich Auerbach e Frederic Jameson hanno dimostrato come la teologia medievale coniugasse disparati modi di leggere i testi in una complementarietà, una ricca coesistenza che continuò nel tempo fino a che progressivamente il sistema divenne troppo difficile da controllare, sovraccarico e, in tempi più moderni, contraddittorio per i lettori.6

Al pellegrinaggio, visto dai teologi - e tra essi Filone Giudeo - come paideia, come percorso di formazione è associata la stessa Vita Nuova. Tradizionalmente si ritiene inoltre che Dante fece dono dell’opera a Brunetto Latino, suo maestro, accompagnandola con il sonetto in cui parla del suo testo come testo bifronte.7 Tale testo funziona come epistemologia e dell’autore e del lettore. Ad entrambi viene chiesto di decifrarne il codice e risolverne l'enigma.8 Molte sono, lungo i secoli antecedenti e susseguenti, le opere ad esso connesse:le Confessiones (Le confessioni) di Agostino, il De Consolatione Philosophiae (La consolazione della filosofia) di Boezio, lo Speculum Stultorum di Nigel Wireker, l_'Encomium moriae_(Elogio della follia) di Erasmo,l_'Utopia_ di Thomas More, il Pilgrim's Progress (Il viaggio del pellegrino) di John Bunyan, A Portrait of the Artist as a Young Men (Ritratto dell'artista da giovane) di James Joyce. Queste opere utilizzano personae_dell'autore e specula, maschere e specchi, sono dottamente facete e infantilmente arcane. Sono librieducativi e sulla formazione che si imperniano sul fulcro delle conversioni («_Tolle, lege, tolle, lege»), e che nella loro natura dialettica sono permeati da significati uguali e opposti.

Il secolo XIII è il secolo di Aristotele - autore reso ultraortodosso da Tommaso d'Aquino dopo l’amaro, iniziale rifiuto dei suoi scritti ritenuti eretici, e che Brunetto Latino insegnò a Dante - le cui opere furono parimenti prese a prestito dagli arabi, che diversamente dai cristiani preservarono i testi greci. Quello cui assistiamo qui è una svolta, un mutamento di paradigma di grande rilevanza per la cultura occidentale, quantunque censurato e mascherato.9 Il secolo XIII è il secolo delle università, e tutti questi testi insieme, testi filosofici e teologici, greco-romani e giudaico-cristiani, furono fondamentali per l'aula universitaria medievale e per quelle istituzioni educative formatesi nelle scuole giuridiche e nelle cancellerie in quelle città che mancavano delle università. Brunetto Latino insegnava ai suoi studenti, ad Arras e a Firenze, ricorrendo ai testi acquisiti nella Spagna quasi saracena. Tra i suoi discepoli il giovane Dante Alighieri e Guido Cavalcanti.10 Latino e Dante, maestro e discepolo, trasmisero quel nuovo sapere, inizialmente sospetto e controverso, ambedue riconciliando in una dialettica modello greco-arabo e modello giudaico-cristiano. La volontà di accogliere una duplicità di pensiero favorì ulteriormente l'unificazione di Vecchio e Nuovo Testamento come giustificazione dell'analoga giustapposizione di filosofia greco-romana, e teologia giudaico-cristiana. Beryl Smalley ha discorso di questo aspetto dello studio biblico medievale e Gabriel Astrik ne ha attestato la presenza negli stemmi delle Università medievali.11

Tale duplicità del secolo XIII, tale complementarietà, permea profondamente la Vita Nuova, un testo averroistico e gotico che si serve di testi anteriori. Nella Vita Nuova Dante decostruisce la sua poesia giovanile fino a scoprire livelli di significato più profondi di quanto inizialmente sospettasse. Egli gioca con il senso duplice del testo, gioca con la sua intertestualità in relazione al Libro di Dio e ai testi di Aristotele. Tale testo gli insegnerà l'Etica di Aristotele e il decalogo, la Torah data da Dio a Mosè. Vale a dire teologia e filosofia, ellenismo ed ebraismo. La Vita Nuova è, quindi, un'opera che presenta una mappa di misreading. E’ un testo bifronte con un testo di significato opposto nascosto sotto il testo di superficie. Entrambe le orditure, tuttavia, sono di valore, come il palinsesto di un manoscritto, dove un testo liturgico romanico è stato coperto da un Ovidio gotico o, come per il manoscritto di Brunetto Latino - il Marston 28, conservato a Yale – dove a un testo legale del secolo XIII si è sovrapposta la traduzione di Brunetto dell'_Etica_di Aristotele, opera acquisita in Spagna e trascritta durante il suo esilio in Francia dopo la battaglia di Montaperti e prima di quella di Benevento.

La_Vita Nuova_ proposta come fulcro per lo studio del pellegrinaggio medievale e della poesia in ambito universitario potrebbe trasmettere un metodo per la decifrazione dei testi fondato sui due paradigmi dell’Esodo e di Emmaus e su mappe letterarie di pellegrinaggio. La prima parte del corso avrebbe una funzione propedeutica fornendo una conoscenza di base su come il mondo ebraico richiedesse a tutti gli ebrei maschi tre pellegrinaggi annuali al tempio di Gerusalemme, in occasione della Pasqua, per la Pentecoste, e per la Festa dei Tabernacoli. Tutti e tre ritualmente replicavano le peregrinazioni dell'Esodo, con i pellegrini che ponevano rami di palma sui corni dell'altare del Tempio. Esistono, quindi, due principali paradigmi di pellegrinaggio giudaico-cristiano, che ricorrono nei testi letterari medievali, il modello di Emmaus e il modello dell’Esodo. Liturgicamente e archeologicamente questi pellegrinaggi ebraici, permeano profondamente i pellegrinaggi cristiani più tardi e offrono un modello sia alla Vita Nuova sia ad altri importanti testi di pellegrinaggio. La Commedia, il Piers Plowman, i Canterbury Tales.

Dante, egli stesso prossimo all’esilio, nella Vita Nuova XL, profeticamente definì il pellegrino un esule:

E dissi «peregrini» secondo la larga significazione del vocabulo; ché peregrini si possono intendere in due modi, in uno largo e in uno stretto; in largo, in quanto è peregrino chiunque è fuori de la sua patria, in modo stretto non s’intende peregrino se non chi va verso la casa di sa’ Iacopo o riede.

Riprendendo riguardo a questo le parole di Dante, Cesare Ripa nella sua_Nova iconologia_ sugli emblemi del Rinascimento, rappresenterà l’Esilio in figura di pellegrino.

I. Il paradigma di Emmaus

In Luca 24, scritto originariamente in greco, apprendiamo di due pellegrini in cammino sul far della sera verso una locanda fuori di Gerusalemme, ai quali si unisce un terzo, che inizialmente essi non riconoscono. Nella liturgia questo racconto del Vangelo veniva letto il lunedìdi Pasqua e sovente rappresentato come dramma accompagnato dal salmo CXIII, «In exitu Israel de Aegypto», cantato in latino e canto gregoriano. Si trattava del salmo della liturgia giudaica dell'«_Hallel»,_in origine cantato in ebraico portando rami di palma nel pellegrinaggio al Tempio, 12 ma intonato sul medesimo Tonus peregrinus (il IX tono salmodico).

Nella tradizione medievale, il secondo discepolo, non indicato per nome, diviene il giovane, imberbe Luca, lo stesso futuro autore ed Evangelista di quel racconto di pellegrini; il primo, il più anziano e barbuto Cléopa. Il testo di Luca parla dei due discepoli affermando «_oculi autem illorum tenebantur, ne eum agnoscerent_» [Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo] (24,16) mentre camminando «_dum fabularentur_» [discorrevano e discutevano insieme] (24,15), narrando racconti di pellegrini. Senza riconoscerlo, Cleopa dice a Gesù: «_Tu solus peregrinus es in Jerusalem, et non cognovisti quae facta sunt in illa his diebus?_» [Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?] (24,18). E Gesù - nell'iconografia medievale della scena sotto le spoglie di pellegrino - rispose loro: «_O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae!_» [Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei Profeti!] (25), iniziando a raccontare loro dell'Esodo, la storia di Mosè e delle sue peregrinazioni nel deserto, come di una profezia riguardante se stesso. Ma è solo al momento della benedizione e allo spezzare del pane nella locanda che i discepoli lo riconoscono. Questa è ironia drammatica, connessa con l'enigma e le ambages. Siamo di fronte a un rovesciamento delle percezioni. Le personae e i lettori sono ingannati.

Il dramma liturgico fondato su Luca 24, l'Officium Peregrinorum, aveva presentato efficacemente i paradossi del riconoscimento e della risurrezione. Dante ricorrerà nuovamente, intertestualmente, a quell'episodio drammatico in Purgatorio XXI 7-11 - «Ed ecco, sì come ne scrive Luca/ che Cristo apparve a' due ch'erano in via,/ già surto fuor de la sepulcral buca» - quando fa incontrare due poeti, Virgilio e Dante, con un terzo poeta, Stazio. L'incontro di due pellegrini con un terzo avviene, infine, apertamente come paradigma di Emmaus, laddove, in precedenza, per tutto l'Inferno e il Purgatorio, ogni incontro dei due, Virgilio e Dante, con altri solo velatamente era avvenuto nella matrice del pellegrinaggio di Luca 24. Il racconto di Emmaus è infatti manifestamente fondato sull'iniziale non riconoscimento a causa della stoltezza e del peccato. E' un Pilgrim's Progress, un _Viaggio (_una Paideia) del pellegrino.

Il paradigma di Emmaus, del narratore del racconto che inizialmente è «tardo» da non discernere la presenza di Gesù in sembianze di pellegrino, è l'espediente del pellegrinaggio che Dante prende a prestito da Luca.E' il mantellodi cui l'autore si avvolge per il suo racconto, che è autocosciente, autoreferenziale, autoriflessivo. La narrazione peregrina della Vita Nuova. Dante assumerà nuovamente tale veste per la Commedia. Nella concezione figurale dantesca là egli è Luca, Virgilio il «suo» Clèopa e insieme «suo» Aronne. Questa narrazione di racconti di pellegrini suggestionerà anche Geoffrey Chaucer, James Joyce, T.S. Eliot, Graham Greene, Hermann Hesse. La sua archeologia influenzerà Dante, e proiettandosi oltre Dante stesso anche il futuro, e in larga parte proprio grazie a lui.

Nella_Vita Nuova_ per due volte ritroviamo il racconto di Emmaus, e la prima volta in cui viene introdotto, nel capitolo nove, è «_mis-read_» e non è riconosciuto. La Vita Nuova che per la simbologia numerale - il numero nove, in particolare - esige uno studio attento e approfondito, nello stesso titolo, ripetuto nella rubrica latina nell'incipit del testo, gioca sulle parole «nuova», «nove», in antitesi all'antichità del numero otto, al fonte battesimale ottagonale, all'imperatore pagano Ottaviano Augusto che all’Ara Coeli ebbe una visione della Vergine col Bambino. Questi due numeri, otto e nove, nella simbologia numerale medievale divengono i numeri della conversione, i numeri del passaggio dal vecchio al «dolce stil nuovo». Così è per Agostino che giunge alla conversione nell'ottavo libro delle Confessioni, al battesimo alla nuova vita nel nono, e Beatrice è identificata con il numero nove, è «uno nove», (XXIX-XXXIX). Dante richiama qui l'attenzione sul suo codice e sui modi per poterlo decifrare. Robert Hollander fa notare che nella Vita Nuova la stessa sibillina Beatrice appare a Dante nove volte.13

E’ possibile cogliere un’ulteriore relazione con il paradigma di Emmaus rispetto a quella che potrebbe essere evidente a un lettore moderno se consideriamo l'Officium peregrinorum del martedì di Pasqua, uno dei drammi liturgici monastici, che non soltanto utilizzava il salmo CXIII «In exitu Israel de Aegypto della liturgia pasquale, ma anche poneva a prefazione del dramma l’inno «_Jesu, amor et desiderium_» [Gesù, amore e desiderio].14 Inoltre pronunciando ROMA a ritroso, il pellegrinaggio a Roma era verso AMOR, verso Amore. Sovente facendo ricorso al paradigma di Emmaus i testi medievali coniugavano l'erotico e il Cristologico, come con l'incontro di Tristano con due pellegrini veneziani sulle sponde di Tintagel nel suo pellegrinaggio non verso Cristo ma verso Isolde, con il pellegrinaggio di Petrarca verso Laura (Sonetto XVI), quello del Troilo di Chaucer nel mancato convegno con Criseida, e a Verona con il pellegrinaggio del Romeo di Shakespeare verso Giulietta.15 Dietro il gioco medievale sul pellegrinaggio, che può e dovrebbe essere casto - tuttavia, trattato in chiave parodica come fosse lussurioso - ritroviamo, in parte, le parole di 1 Pietro 2,11: «_Carissimi, obsecro vos tamquam advenas et peregrinos abstinere vos a carnalibus desideriis, quae militant adversus animam_» (Carissimi, io vi esorto, come stranieri e pellegrini sulla terra ad astenervi dai desideri della carne, che fanno guerra all'anima). Le proibizioni provocano ridanciane sfrenatezze, burleschi saturnali.

In questo capitolo nove Dante è partito da Firenze (in cammino proprio come Luca e Cléopa che sono lontani da Gerusalemme), quando per via incontra Amore nelle sembianze di pellegrino: «E però lo dolcissimo segnore [...] ne la mia immaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi». Dante, per essere un pellegrino, è impropriamente a cavallo: «Cavalcando l'altr'ier per un cammino»; il pellegrino Amore è giustamente a piedi, e verosimilmente scalzo. (John Donne, quattro secoli dopo, giocherà con quel paradosso nel suo «Venerdì Santo cavalcando verso ovest»). Nella_razio_ del suo poema Dante rimarca quel all’improvviso Amore «disparve» così come nel paradigma di Emmaus Cristo «_evanuit_».Ma, in questo luogo del testo, l'apparizione del suo Amore, è più quella di Cupido che non quella di Cristo. A questo punto del pellegrinaggio della Vita nuova i riferimenti cristologici sono con intenzionalità mantenuti vaghi e oscuri e per la sua persona assimilata a Luca, che è tardo e lento a credere, e per il lettore stesso che è specchio di lui.

Il capitolo XL della Vita nuova è l'altra metà di questo symbolon (paradigma di Emmaus) con i versi del sonetto:

Deh peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v'è presente
venite voi da sì lontana gente,
com'a la vista voi ne dimostrate,
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate?

Il commento relativo prosegue parlando di pellegrini che passando per Firenze si recano a Roma per mirare «quella immagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura».16

Nella_Vita Nuova_ IX quell’immagine di Cristo era confusa, nella Vita Nuova XL è rivelata. Il Viaggio del pellegrino dell'opera è volutamente quello di 1 Corinzi 13,12: «_Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum_» [Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto].17

In rapporto a questo pellegrinaggio Dante dà una definizione accurata e puntuale delle diverse tipologie di pellegrini in relazione alle loro mete geografiche: Gerusalemme, Compostela o Roma:

[...] chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte
recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di
Galizia, però che la sepultura di sa' Iacopo fue più lontana de la sua
patria che d'alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a
Roma, là ove questi cu'io chiamo peregrini andavano.

Dante vuole qui sottintendere che la sua città, attraversata da questi pellegrini, è un'altra città di pellegrini, è un’altra Gerusalemme. Citando Geremia: «_Quomodo sedet sola civitas_» [Ah! come sta solitaria la città], egli stabilisce tra Firenze e Gerusalemme un’analogia. L’una per la perdita di Beatrice rispecchia l'altra per la morte di Cristo, ad imitazione del modo in cui Cristo considera le profezie riguardo a sé stesso nel Vecchio Testamento come adempiute nel Nuovo. Dante trae Firenze nel paradigma di Emmaus e la prima volta avviene in modo oscuro, la seconda in modo manifesto. In Arte e illusione, E. H. Gombrich ha discorso di questa abilità di sostituire una città con un'altra, nell'arte e nelle stampe; altrettanto fece Emile Mâle.18 La medesima cosa possiamo osservare nei casi in cui un monte viene identificato con un altro, come il Monte Ceceri con il Monte Sinai o con il Monte Ecla in Islanda.

II Il Paradigma dell'Esodo

Sulla strada per Emmaus, Cristo, Luca, e Clèopa narrano storie, e uno dei racconti di Cristo è su Mosé, verosimilmente anche includendo la narrazione dell'Esodo. Sappiamo che nell'Officium Peregrinorum veniva cantato quel salmo CXIII «_In exitu Israel de Aegypto_», il dramma liturgico dei Vespri del lunedì di Pasqua, nuovamente narrando il racconto dell'Esodo. Gli stessi racconti dell'Esodo e di Emmaus erano visti l'uno quale palinsesto dell'altro.19 Richiamiamo anche alla memoria come i nomi ebraici e le quarantadue stazioni dell’Esodo corrispondano al tempo stesso a lettere e numeri, rendendo a tutti noi - italiani, latini, greci, ebrei - riconoscibile una consonanza tra le lingue del Libro fondata sul pellegrinaggio. Da questi due racconti intrecciati adottando le loro analogie Dante crea un terzo racconto fiorentino, con la medesima grande cura con cui Bach avrebbe composto una fuga o una passacaglia.20

Il pellegrinaggio di Israele nel Deserto del Sinai in quasi tutta la Torah, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio è narrato nella sua forma compiuta. Il nucleo primitivo della narrazione in forma più breve e compatta (come nel salmo CXIII), matrice e indice della narrazione in tutti gli altri libri, è presente, con l’enumerazione di tutte le quarantadue stazioni, in Numeri 33. Dante si serve delle Stazioni dell'Esodo, con al centro il Monte Sinai, come di un Libro della memoria, un Teatro della memoria, un pellegrinaggio della memoria per la crittografia della memoria della sua Vita Nuova. E se ne serve come di un sistema di categorie per la suddivisione dell'opera in quarantadue capitoli, facendo della Vita Nuova e un ermetico pellegrinaggio nel deserto del Vecchio Testamento, e un pellegrinaggio nel Nuovo che sarà rivelato.21 Nel presente saggio, dapprima sul piano generale, poi in modo specifico e puntuale, tratterò delle stazioni dell’Esodo di Numeri 33 - corrispondenti, come E. Proto (1912) e Robert Hollander (1974) osservano, alla suddivisione che secondo la tradizione Dante diede alla Vita Nuova 21. (Seppur in numero esiguo alcune edizioni della Vita Nuova, come l’edizione di Michele Barbi del 1907, operano un cambiamento della numerazione da quarantadue a quarantatré capitoli. Bisogna osservare, tuttavia, che nell’edizione del 1996 curata da Guglielmo Gorni la divisione del testo è in trentuno paragrafi.)

L'Esodo fu un evento storico, e per Filone Ebraico, Sant’Agostino ed altri ancora anche un evento letterario. E’ una storia di liberazione, una paideia, è il Bildungsroman di Israele – così come con grande accuratezza lo definirà Dante nell’Epistola a Cangrande della Scala. Agostino, rammentiamo, sosteneva essere lecito predicare sermoni cristiani attingendo dalla poesia pagana. Dio stesso disse agli Israeliti di prendere a prestito oggetti d'oro dagli Egiziani e con loro portarli nel deserto (Esodo 12,35).22 Di quell’oro se ne servirono dapprima per forgiare il vitello d'oro, quando gli Israeliti andando da Aronne gli dissero: «_Surge, fac nobis deos_» (32,1). Così agendo gli Israeliti infransero il comandamento contro l'idolatria, contro la fabbricazione di falsi idoli. Nudi danzando attorno al vitello infransero anche il comandamento contro l'adulterio e la concupiscenza. E per questi loro atti furono molto severamente puniti. Lo stesso oro egiziaco servì in seguito per adornare l'Arca che custodiva le tavole della legge che contenevano i comandamenti. Tra gli altri, i comandamenti contro l'idolatria e l'adulterio. Nel predicare un sermone cristiano ai pagani Ateniesi in mezzo all'Areòpago Paolo si servì di citazioni tratte dalla poesia tragica greca (Atti 17). In genere i Padri della Chiesa si riferivano a questi due episodi per sostenere che materiale pagano, come con l'oro egiziaco e la poesia greca, poteva essere utilizzato per intenti cristiani. L'Esodo era visto, quindi, e come liberazione storica, e come un’allegoria sulla poesia e la sua duplicità**.** Dante, rammentiamo, replicherà la medesima cosa nel Purgatorio. Nel manoscritto napoletano (ca. 1370), ora British Library Additional 19587, folio 62, Purgatorio I, nella miniatura a piè di pagina a sinistra vediamo Catone come Mosé, a destra nella veste di Aronne Virgilio battezza Dante e lo cinge con un giunco di mare. Il battesimo è sempre figura del Mare rubrum, in ebraico, Yam Suf, «Mare dei giunchi». In Purgatorio II, Virgilio lasciando che i pellegrini si abbandonino all’ascolto del canto di Casella della lirica d’amore di Dante provoca lo sdegno di Catone; Aronne ai piedi del Monte Sinai fabbrica il Vitello d’Oro accendendo l’ira di Mosé. Nella Vita Nuova, Dante si servirà di Beatrice e come «vitello d'oro» e come «Tabernacolo dell'Arca». Ella rappresenta sia la poesia sia la teologia; e la concupiscenza e la carità.

Il Medioevo, le sue cattedrali e summae tennero fortemente in gran conto l’affermazione biblica secondo la quale Dio ha disposto il mondo con misura, calcolo e peso (Libro della Sapienza di Salomone 11,20).23 Trentatrè sono gli anni di Cristo al momento della Sua crocifissione. Il Libro dei Numeri, nel trentatreesimo capitolo, procede con l’enumerazione delle quarantadue stazioni dell'Esodo. Queste quarantadue stazioni, le tappe percorse dai pellegrini, furono di grande importanza sia nel mondo ebraico sia nel mondo cristiano. A loro imitazione nelle chiese di Roma, includendo le sette maggiori basiliche, furono fissate le stazioni di pellegrinaggio. A imitazione e delle une e delle altre, a Gerusalemme i francescani fissarono infine quattordici stazioni di pellegrinaggio a rappresentarei quattordici eventi della Crocifissione che corrispondono alle quattordici Stazioni della Via Crucis. L'elencazione delle quarantadue stazioni dell’Esodo di Numeri 33, unitamente al significato dei nomi ebraici come offerti da Filone, Origene, Ambrogio, Gerolamo, Beda, Pier Damiani, è stato oggetto di trattazione in guide per i pellegrini e nella Glossa Ordinaria.24 In Numeri 33 essa funzionava come gematria, con le lettere corrispondenti a numeri e i numeri corrispondenti a lettere. Qui, anziché solo numeri e lettere, sono fatti corrispondere numeri e nomi, inun’intertestualità di spazio e tempo nell'Universo inteso come Libro scritto da Dio. Per Dante l’elencazione delle quarantadue stazioni acquista il valore di sistema, un sistema analogo a quello che più tardi Eco adotterà per la biblioteca ne Il nome della rosa, lì basato sull'Apocalisse; qui per la _Vita Nuova_e da Dante su Numeri 33.

E’ giusto anche supporre che Dante disponesse probabilmente del «De XLII mansionibus filiorum Israel tractato» di Sant’Ambrogio e dell'Epistola 78 di Girolamo a Fabiola, «Ad Fabiolam de mansionibus filiorum israhel per heremum», che enumerano le stazioni dell'Esodo, traducendone - più o meno accuratamente - i nomi ebraici. 25 Questo si ripete nella Glossa Ordinaria, un testo particolarmente interessante in quanto fondei significati delle Scritture ebraiche e del Testamento greco, vedendo tutti gli eventi in Numeri 33 in relazione a Cristo. Certamente significativo risulterebbe uno studio comparato mettendo a confronto il testo crittografico di Dante e due racconti di pellegrini. Tra questi Pellegrino anonimo VI (Pseudo-Beda), del secolo XII, e Fetellus, del secolo XIII, presumibilmente, quindi, più corrotto. John Demaray considera anche La fonte della Divina Commedia di Paolo Amaducci cercando, quantunque in modo forzato, di equiparare nella sua interezza il De Quadragesima, et quadraginta duabus Hebraeorum mansionibus di Pier Damiani a questo testo.26 Per quanto ho conoscenza non è stato finora compiuto alcun tentativo per stabilire un’esatta corrispondenza tra le quarantadue stazioni dell'Esodo e la Vita Nuova, quest’una come mappa, sottotesto, o palinsesto.

Procedendo nel raffronto tra questi resoconti di pellegrinaggi e le narrazioni di Numeri 33 avvertiamo un certo livello di confusione; quantunque tutti rendano crittografico il significato strutturale della Vita Nuova, come se una versione di almeno uno di questi resoconti fosse a portata di mano di Dante nel momento in cui scriveva il testo. Un lavoro di ricerca nelle biblioteche fiorentine potrebbe farci scoprire di quali manoscritti effettivamente si servì Dante. Per certo in alcuni casi il parallelismo sarebbe perfetto, non così in altri, come se Dante - che non conosceva l’ebraico - avesse utilizzato le stazioni dell'Esodo quale schema preparatorio per la sua opera, allo stesso modo delle sinopie - gli schizzi preparatori poi coperti - dell’affresco che illustra il pellegrino a Tavant. Andata oggi oramai perduta la copertura sono venuti alla luce il disegno originale dal colore rosso bruno.

Con acuto sguardo critico James Rose MacPherson osserva che Fetellus «introduce una lunga proposizione per quanto concerne l'itinerario dell'Esodo, nella quale fa menzione di alcune leggende degne di nota offrendo molte strane interpretazioni dei nomi delle stazioni delle peregrinazioni nel deserto. Queste spiegazioni pur apparendo talvolta del tutto fantasiose e ridicole, non lo sono al tempo stesso più di quanto fosse comune osservare sino a epoca relativamente recente».27 Bisogna, tuttavia, ammettere che il tono dei racconti fondato sulla credulità suoni alquanto strano a un lettore moderno. Oggi siamo nominalisti. Il sistema di Umberto Eco soltanto accidentalmente è congruente con gli eventi così come traspaiono nel tessuto creativo del suo romanzo giallo Il nome della rosa, quantunque si tratti di eventi da lui stesso creati. Ma per il pensiero altomedievale i nomi, i luoghi, i loro significati, le loro etimologie sono disegno di Dio, sono creati da Dio. E' questo lo spirito che permea tali racconti.

John Demaray, per il suo Invention of Dante's Commedia, ripercorre l'itinerario dell'Esodo visitando il Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai qui scoprendo che le guide ancora ripetevano ai pellegrini, e quasi parola per parola, le formule così come riportate nelle guide per pellegrini di epoca medievale. Ma egli applica le Stazioni dell'Esodo solo alla Commedia e non alla Vita Nuova. Da qui risulta chiaro quanto viva ancora sia la tradizione e la memoria dei luoghi meta di pellegrinaggio, in cui il Mondo e il Libro, come Singleton ha dimostrato nel suo Essay on the Vita Nuova, divengono una cosa sola. Nel Monastero di Santa Caterina la magnifica icona di Cristo con il Libro che contiene Numeri 33 e Luca 24 rispecchia per analogia Mosè con le Tavole della Legge. 28 Questo è il «libro de la memoria»' di Dante.

Torniamo ora alla Vita Nuova e procediamo ad un’analisi del testo con a nostra disposizione i palinsesti del pellegrinaggio di Numeri 33, servendocene come di un libro codice per la crittografia dell'opera, e vediamo quello che accade. Dante osserva nell’avvio che il suo palinsesto si apre con «una rubrica la quale dice: Incipit vita nova» [una riga vergata in rosso dove si legge: qui inizia la Vita Nuova_]. Nella Vulgata latina il Mar Rosso è il «_mare Rubrum», il mare del Salmo CXIII del rito del battesimo a Pasqua. La Chiesa vedeva un’analogia tra il passaggio del Mar Rosso e il battesimo.

E’ semplice leggere Numeri 33, o anche ascoltare il file audio in ebraico disponibile sul Web. La ripetizione, lettura (lettere) e ascolto (suono), rinforza la memoria: <http://media.snunit.k12.il/kodeshm/mp3/t0433.mp3>. L’elenco delle stazioni o «mansioni» comprese tra il «mare Rubrum» e il fiume Giordano dell’Esodo in Numeri 33 è dato in modo molto primitivo, come il Catalogo delle navi di Omero, come l’elenco genealogico delle quarantadue generazioni di Cristo nel Vangelo di Matteo, come la registrazione della sua genealogia dalla viva voce di un Maori. (Il file audio con la voce di Peter Neville è disponibile sul Web all’indirizzo <http://www.florin.ms/Maori1.mp3>.)

I: Ramses, רַעְמְסֵס La prima stazione Ramses significa «confusione» e «penitenza». La prima parte della Vita Nuova rappresenta l'inizio del pellegrinaggio di Dante assimilato alle peregrinazioni dell'Esodo dall'Egitto a Israele, dalla confusione alla chiarificazione, dalla nascita alla vita fino alla salvezza. Pellegrinaggio questo che egli può intraprendere dopo aver compiuto la «spogliazione degli Egiziani». Gerolamo e Pseudo-Beda danno come data d'inizio di Numeri 33 il secondo giorno dopo la Pasqua, nel calendario liturgico giorno della lettura del Vangelo del racconto dell'Incredulità di Tommaso, episodio sovente incluso nell'Officium Peregrinorum del martedì di Pasqua. In questo dramma Cristo dice a Tommaso: «_Quia vidisti me, Thoma, credidisti; beati qui non viderunt e crediderunt_». Tutti aspetti che ritroviamo evocati nel testo di Dante.

II: Succoth, סֻכֹּת. La seconda stazione è quella di Succot («Tabernacolo», «tende»). Nell'Esodo e altrove è detto che il colore dominante dell’Arca dell’Alleanza del Tabernacolo di Dio è il rosso, il cremisi, lo scarlatto. E questa è la veste di Beatrice: «Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno.» Il Tabernacolo dell'Arca doveva essere custodito nel Sancta Sanctorum, nel Tempio di Gerusalemme. Dante dice qui «lo quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore». E’ qui significativo osservare che Beatrice è associata a Miriam, a Maria, e a Cristo. Nel racconto dell'Esodo della Vulgata il nome di Miriam è quello di Maria, e gli Apocrifi raccontano la storia della Vergine che fila e tesse la tela rossa per la cortina del Tempio, ella stessa essendo l'Arca Dei, l'Arca di Dio.29 L'ufficio di Dante qui diviene e quello di Mosè davanti al roveto ardente e quello di Aronne al quale è concesso accedere al Sancta Sanctorum, seppur una sola volta all'anno. Perfettamente appropriato qui «l'oro egiziaco» di Omero: «Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo». Nell’inno alla Vergine che Dante mette in bocca a san Bernardo, Maria come «figlia del suo figlio» è il paradosso di Paradiso XXXIII.1-36. La reazione di Dante alla visione di Beatrice è quella di Mosè alla visione di Dio. Nell'icona del Monastero di Santa Caterina Dio e Mosè sono l’uno specchio dell’altro. La Glossa Ordinaria associa in modo assoluto Mosè a Cristo: «_Moses id est Christus_». L'iconografia medievale connette la visione di Dio di Mosè nel roveto ardente alla visione della Vergine con il Bambino di Ottaviano Augusto cogliendovi un’analogia. In questo sistema né la persona né il genere debbono di necessità rimanere fissi; il palinsesto può variare le dramatis personae.

III: Etham, אֵתָם. La terza stazione, Etam, è quella della colonna di nubi e di fuoco. E’ la stazione del «coraggio», della «perfezione», e della «solitudine». Qui Dante incontra la mirabile Beatrice dapprima vestita di colore bianchissimo, e in una visione «avvolta in uno drappo sanguigno» tra le braccia di Amore. Dante è dapprima timoroso e trepidante, la stessa Beatrice timida e paurosa. Né l’uno né l’altra mostrano audacia. Per giungere a questa visione, durante la quale egli intende le parole «_Ego dominus tuus_» [Io sono il tuo signore], Dante si è ritirato nella solitudine della sua stanza. Le corrispondenze tra queste sezioni sono nuovamente molto chiare.

IV. Phihahiroth, פִּי הַחִירֹת. Il quarto luogo è Pi-Achirot, il luogo dove crescono le canne; qui Dante è divenuto così debole e fragile, «di sì fraile e debole condizione», da generare grande apprensione tra i suoi amici. E' «fragile come una canna».

V. Mara, מָרָה. La quinta stazione è quella di Mara, che significa «amarezza», anche associata con un gioco di parole a «Maria». Dante parla di bearsi alla vista de «la regina della gloria», attributo comunemente riservato alla Vergine Maria, qui, piuttosto chiaramente, detto di Beatrice.

VI. Elim, אֵילִם. La sesta è la stazione di Elim, «arieti», nota per le sue dodici sorgenti d'acqua e settanta palme. A questo punto mi sorge spontanea la domanda se esistano dei manoscritti che parlino di «settanta», piuttosto che non di «sessanta» donne alle quali egli scrive il suo serventese.

VII. Mare rubrum (Yam-Suf), יַם-סוּף. La settima stazione è quella del cammino compiuto dagli Israeliti quando si accampano presso il Mar Rosso («Mare delle canne») agitato dai tempestosi flutti. Qui Dante parla due volte del viaggio nel suo sonetto in volgare: «O voi che per la via d'Amor passate,/ attendete e guardate/ s'elli è dolore alcun, quanto'l mio grave»; ancora ritroviamo reminiscenze di questo, o, piuttosto, questo è riecheggiato, nelle parole di Geremia in un latino grave: «_O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus_» [tutti voi che andate per via, osservate, e guardate se c'è alcun dolore simile al mio]. Queste sono le parole che sovente troviamo incise ai piedi della croce. Ma Dante impiega il linguaggio religioso in modo blasfemo, Bachtianamente, per la concupiscenza piuttosto che non per la carità.

VIII. Sin, סִין. L'ottava tappa è quella del deserto di Sin, che significa «roveto» e «odio». In questo capitolo Dante compiange la morte di una giovane bella donna e biasima la morte come sua nemica che egli vitupera: «Morte villana, di pietà nemica/ […] di te blasmar la lingua s'affatica».

IX. Daphca, דָפְקָה. La nona stazione di Dofka, significa «battente» o «scalpitante», e possiamo giungere a tale significato solo per il rumore degli zoccoli del cavallo in «Cavalcando» [«Cavalcando l'altr'ier»]. In altre spiegazioni è Raphaca che significa «_salus_», «salute» e «salvezza». Amore appare a Dante mentre ambedue viaggiano lungo un bel fiume. Più tardi arriviamo a comprendere che Amore è anche Cristo, «_salus noster_».

X. Alus, אָלוּשׁ. La stazione successiva, la decima, è Alus, che significa «scontento», e descrive l'infelicità di Dante a causa del saluto negatogli da Beatrice. Qui gli Israeliti mormorano per la fame e ricevono in dono le quaglie e la manna.

XI. Raphidim, רְפִידִם. L'undicesima stazione, Refidim o «desolazione degli intrepidi», è il luogo dove gli Israeliti adorano nell’errore l'idolo del vitello d'oro. Dante rende qui omaggio a Beatrice e sente il cuore ardergli dentro (quell'unione di concupiscenza e carità del paradigma di Emmaus) alla vista di lei. Il testo coglie le due differenti percezioni di Dante riguardo a Beatrice, con concupiscenza, con carità, e la stessa identica donna sta a rappresentare per lui, prima il vitello d'oro, forgiato con l'oro delle spogliazioni degli Egiziani, poi il Tabernacolo dell'Arca fabbricato con quello stesso oro e argento preso a prestito dagli Egiziani. Ella è la moglie di un altro, egli un adultero che desidera infrangere la legge mosaica. In accordo con una consuetudine generalizzata tendiamo a leggere la Vita Nuova nel contesto dell'«Amore cortese»', ingannevolmente distaccandoci da quella consapevolezza che ci dice in realtà trattarsi di un misreading di Andreas Capellanus e del suo_De arte honeste amandi_, letto nell’Ottocento non in chiave ironica così come inteso dall'autore, ma romanticamente. E' una questione di prospettiva, di quali parti dei testi leggere, semplicemente un solo livello, o la duplicità. D. W. Robertson documenta questo aspetto nel suo «Doctrine of Charity in Medieval Literary Gardens», un’opera di critica letteraria che analizza la duplicità dei testi medievali entro i contesti culturali propri. Dal «_Commentarium_» di Pietro Alighieri al magnum opus paterno siamo a conoscenza che Dante possedeva una copia del testo di Capellanus e che lesse tale testo in chiave ironica.30 Dante descrive qui se stesso come sotto il peso e la signoria di Amore, quantunque pretenda di accogliere questa condizione per lui insopportabile.

XII. Sinai, סִינָי. La dodicesima stazione è il Deserto del Sinai. Mosè, dopo essere stato sul monte, ritorna qui al suo popolo con le Tavole della Legge. Distrutto il vitello d'oro viene costruito il Tabernacolo. In questo capitolo Dante parla di «ritornare» al suo proponimento ritirandosi in un luogo solitario a piangere dopo che Beatrice gli ha negato il saluto. Gli appare un giovane in vesti bianchissime che parlando gli chiede di mettere da parte tutti i suoi idoli: «Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra_» [Figlio mio, è tempo di abbandonare le nostre finzioni]. Anche il Salmo CXIII mette l’accento sulla parola «simulacra». Dante ha fatto di Beatrice, o della sua poesia intorno a Beatrice, tale simulacra, tale idolo, tale vitello d'oro, quando ella in realtà è un'icona, un'arca, un’_imago di beatitudine. Dante-persona ha confuso significante e significato così divenendo un idolatra. Amore dice poi a Dante che egli soffre a causa di una boeziana perdita di prospettiva: «_Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes: tu autem non sic_». Lascerò questo rigo volutamente intradotto così preservandone il carattere ermeneutico, il suo aspetto privilegiato, il suo cerchio, chiuso, intatto e integro.

XIII. Cibrottaava,קִבְרֹת הַתַּאֲוָה. Nella tredicesima stazione, Kibrot-Taava, i «sepolcri dell'ingordigia», il luogo dove gli Israeliti sono presi dalla bramosia per le pentole di carne dell'Egitto, Dante scrive una canzone d'amore, e come colui che è incerto e non sa per qual via muovere il passo desidera ardentemente invocare pietà dalla sua donna, della quale parla in modo disdegnoso. Dante si comporta qui come quegli Israeliti ribelli amanti dell'Egitto presi dal grande risentimento per il dominio di Mosè su di loro, per le peregrinazioni nel deserto, la manna e le quaglie di cui si cibarono.

XIV. Aseroth, חֲצֵרֹת. La quattordicesima stazione di Cazerot («cortili perfetti» o «beatitudine») è il luogo dove Aronne e Miriam manifestano la loro riprovazione peril matrimonio di Mosè. In questo capitolo Dante assiste ad un matrimonio, a cui la stessa Beatrice è presente. A quel matrimonio di Mosè con la figlia del re etiopico, il Signore punisce Miriam con la lebbra. Il nome di questa stazione si dice significhi «offesa». In questa scena siamo testimoni dell’improvvisa malattia di Dante, come se egli vestisse i panni di Miriam. Beatrice, per converso, impersona nei confronti di lui la parte di Mosè. In Numeri 12 Aronne deve, quindi, condurre Miriam fuori dell'accampamento e lontano dal Tabernacolo per un certo arco di tempo. Dante è condotto via dal luogo dove tante donne si sono adunate, tra esse anche Beatrice. Un amico fa qui le veci di Aronne.

XV. Rethma, רִתְמָה. La quindicesima stazione, Ritma, non ha un’esatta corrispondenza con la Vita Nuova XV, quantunque continuino qui i riferimenti al malore quasi fatale che colpisce Dante, come a volerlo correlare con la malattia di Miriam.

XVI. Remmonphares, רִמֹּן פָּרֶץ. La stazione successiva, Rimmon-Perez, significa la «divisione della melagrana». La veste di Aronne era ricamata con melagrane e sonagli; Robert Browning raccoglie tale allusione per le sue poesie in Bells and Pomegranates. Si riferisce qui Dante forse alle suddivisioni delle sue poesie, che rimandano ad Aronne, con le quali celebra e compie atti di adorazione davanti all'Arca, davanti a Beatrice, dopo aver inizialmente fatto di lei il suo vitello d'oro? Se così fosse, il ruolo di Dante come Aronne, che fa di Beatrice un vitello d'oro, idolo adorato nell'errore, è parimenti brutalmente distrutto e da Dio e da Beatrice. Ella è il suo Mosè, che, con la sua morte assimilata a quella di Cristo, va a scrivere in modo inverso il suo racconto, modellando così la _Vita Nuova_letterariamente nella nuova vita, nel Nuovo piuttosto che non nell'Antico. Il testo usurpa il suo stesso poeta.

XVII. Lebna, לִבְנָה. Nel capitolo diciassettesimo, Dante scrive di aver trovato una nuova materia di canto, non più parlar di se stesso (con quella stessa autocommiserazione che Boezio al tempo stesso schernì, come giù giù atttraverso i secoli fecero i sonettisti dopo di lui ), ma di più nobili pensieri. Questa stazione, Libna, è interpretata come «bianchezza».

XVIII. Ressa, רִסָּה. La diciottesima stazione, Rissa, significa «freno», che Dante ci mostra con il suo blocco nella scrittura - autocosciente e autoreferenziale – che imbriglia la sua arte: «e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare».

XIX. Ceelatha, קְהֵלָתָה. La diciannovesima stazione, Keelata, significa «assemblea» o «chiesa», e in alcune fonti anche «principio».Dante parla di cominciare a scrivere, e quello che scrive è una canzone rivolta ad una assemblea di donne che per intuito sanno cosa è amore.

XX. Hor Sepher, הַר-שָׁפֶר. La ventesima stazione, il monte Sefer, è quella della «bellezza» o di «Cristo». Per tre volte la Vita Nuova XX parla di bellezza e in chiusura di un «omo valente», un uomo di valore.

XXI. Arada, חֲרָדָה. La ventunesima stazione, Arada, significa «miracolo»; ci viene qui detto nella prima parte che Beatrice mirabilmente operando fa esistere l'amante che è in potenza. Si chiude parlando del suo mirabile sorriso.

XXII. Maceloth, מַקְהֵלֹת. La ventiduesima stazione, Makelot è, nuovamente «assemblea» o «chiesa» e nella Vita Nuova XXII ascoltiamo di donne che si sono adunate per essere con Beatrice quando ella piange la morte del padre.

XXIII: Thahath, תָחַת. La stazione ventitreesima, Tacat, significa «paura», e nella_Vita Nuova_ XXIII siamo testimoni del terrore di Dante a causa dalla sua infermità. Egli crede di essere in punto di morte. A questo segue il suo sogno della morte di Beatrice assimilata a quella di Cristo. Alla morte di lei il sole e le stelle si eclissano, gli uccelli che volano per l'aere stramazzano morti sulla terra scossa dai terremoti. Un altro significato per questa stazione è «pazienza». In tutta questa parte troviamo riferimenti alla «paura» e alla consolazione. Questo capitolo evoca alla mia mente gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, in particolare la Crocifissione e la Deposizione di Gesù con i voli agitati degli angosciati angeli nei cieli di lapislazzuli.

XXIV: Thare, תָרַח. La ventiquattresima stazione, Terach, significa «pascolo». Lo stesso bel capitolo XXIV della Vita Nuova - nel quale Beatrice viene fatta precedere dalla donna dell'amico, la Giovanna di Guido Cavalcanti - non pare avere alcun riferimento al modo in cui è strutturato l'Esodo, a meno che il riferimento non sia all'iconografia di San Giovanni Battista: «_Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini_» [io sono la voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del signore], come pastore che pascola le pecore, «_Ecce agnus dei_».

XXV: Methca, מִתְקָה. La venticinquesima stazione, Mitka, è quella della «dolcezza»; ci ritroviamo qui nel mondo di Guido Cavalcanti e nella cerchiapoetica del «dolce stil nuovo». (Brunetto Latino fu anche maestro di Guido Cavalcanti).

XXVI: Hesmona, חַשְׁמֹנָה. La ventiseiesima stazione, Asmona, si dice significhi «affrettandosi», e nella Vita Nuova XXVI sappiamo di persone che corrono per ammirare Beatrice che passa per la via, «le persone correano per vedere lei».

XXVII: Moseroth, מֹסֵרוֹת. La ventisettesima stazione, Moserot, significa «legami», «disciplina». Qui Dante dice di essere sotto la signoria d'Amore.

XXVIII: Beneiacan,בְנֵי יַעֲקָן. La ventottesima stazione è Bene-Iaakan, «figli del bisogno». Qui vediamo Firenze privata della sua Beatrice, la città è rimasta orfana e nello stato di bisogno.

XXIX: Hor Gadgad, חֹר הַגִּדְגָּד. Ventinovesima stazione, Or-Ghidgad, significa «messaggero», «cingere», «circoncisione». In questo capitolo Dante associa il concetto di Beatrice come un nove all'astronomia sia secondo il pagano Tolomeo sia secondo la dottrina cristiana. Un’astronomia che si serve di cerchi nei cerchi, di ruote nelle ruote.

XXX: Ietebatha, יָטְבָתָה. Trentesima stazione, Iotbata, è quella «del Bene» e di «Cristo». Dante ancora una volta cita Geremia su Gerusalemme rimasta vedova senza Cristo e parla della sua amicizia con Cavalcanti e del loro comune intento di scrivere in volgare (nel «dolce stil nuovo_»_) piuttosto che non in latino. E’ per questo, dice Dante, che non può dare in latino le altre profezie su Cristo.

XXXI: Ebrona, עַבְרֹנָה. La trentunesima stazione, Abrona, significa «passaggio». Qui Dante parla della morte di Beatrice, «Ita n'è Beatrice», e del suo dolore.

XXXII: Asiongaber,עֶצְיֹן גָּבֶר. La trentaduesima stazione, Ezion-Gheber, significa «consiglio degli uomini». Il fratello di Beatrice domanda qui a Dante di comporre una canzone per loro due cercando in tal modo consolazione per la morte di lei con la loro amicizia.

XXXIII: Cades, קָדֵשׁ. Nella trentatreesima stazione, Kades, «santa» o «trasferita», muore Miriam e viene sepolta. Nella Vita Nuova XXXIII sappiamo che Dante parla con il fratello di Beatrice, insieme a Guido Cavalcanti ora suo grande amico. Dante compone la canzone che il fratello ed egli stesso, come «servo» di Beatrice e suo adoratore, declameranno in sua memoria. Nella Glossa a Numeri 33 si parla di Aronne fratello di Miriam e nella Vita Nuova XXXIII del fratello di Beatrice sciolti in pianto.

XXXIV: Hor Hor, הֹר הָהָר. Nella trentaquattresima stazione Aronne muore sul monte Or: lo custodiscono Dio e i suoi angeli. Sconosciuto rimane il luogo della sua tomba. Nella Vita Nuova XXXIV Dante disegna figure d'angeli (uno splendido dipinto molto autoreferenziale di Dante Gabriel Rossetti che rappresenta la scena è conservato all'Ashmolean Museum di Oxford). E' l'anniversario della morte di Beatrice.

XXXV. Salmona צַלְמֹנָה o Oboth. La trentacinquesima stazione in alcuni resoconti è Salmona («piccola immagine»), in altri Obot, che significa «profetessa», «pitonessa». Dante vede qui la donna che lo guarda da una finestra e intuisce lo stato del suo animo.

XXXVI. Phinon, פוּנֹן La trentaseiesima stazione è quella di Punon, «bocca». Qui gli Israeliti mormorano nuovamente per la fame e vengono morsi dai serpenti.

XXXVII. Oboth, אֹבֹת La trentasettesima stazione è nuovamente Obot, «pitonessa», ed ancora su questa donna.

XXXVIII. Ieabarim,בְּעִיֵּי הָעֲבָרִים La trentottesima stazione Abarim significa «pietre» e «trapassare». Queste stazioni, dalla trentacinquesima alla trentottesima, non sembrano più avere una grande consonanza con i capitoli della Vita Nuova.

XXXIX: Dibon-Gad,דִיבֹן גָּד. Con la trentanovesima, però, la consonanza è nuovamente chiara, Dibon-Gad, significa «tentazione degli occhi», «chiusura» e «confusione». Qui Dante parla del senso di vergogna per lo stato di infermità dei suoi occhi. All’ora nona si ripete la visione di Beatrice così come ella apparve a lui la prima volta, edegli è colmo di vergogna per avere mal interpretato con una lettura non corretta la sua mappa dell'Esodo come un ritorno verso l'Egitto con la ricaduta nel peccato, piuttosto che non quella del pellegrinaggio verso Gerusalemme.

XL: Elmondeblathaim, עַלְמֹן דִּבְלָתָיְמָה. La stazione successiva, la quarantesima, Almon-Diblataim, è quella della «vergogna per le vie» o «disprezzo del mondo». Dante vede qui i pellegrini in cammino per le strade fiorentine alla volta di Roma; il modello dell'Esodo si interseca qui con quello di Emmaus in questa fuga.

XLI: Ieabarim, הָרֵי הָעֲבָרִים. La quarantunesima stazione è il monte Abarim, il «monte dei trapassati». Qui Mosè muore senza raggiungere materialmente la Terra promessa. Dante parla ora del pellegrinaggio spirituale di Beatrice nei cieli.

XLII. Giordano di Gerico, יַרְדֵּן יְרֵחוֹ. La stazione successiva è nella regione di Moab presso Gerico sul Giordano, che significa «discesa», e presso Galgala, delle «dodici pietre» o «rivelazione». Dante chiude qui la sua Vita Nuova con la rivelazione di Beatrice nei cieli che contempla il Santo Volto di Dio. Ella è a Sua immagine. La sua icona, non più idolo, può essere ora riflessa nel Libro della Memoria di Dante, in quella mappa di pellegrinaggio dell'Esodo e di Emmaus, mediante analogie con Aronne e Mosè, Luca e Cristo, parimenti chiari e al lettore e all’autore.

Questi paradigmi dell'Esodo e di Emmaus - Vecchio e Nuovo Testamento - quantunque non siano affatto tutta la Vita Nuova sono il filo di trama tra i fili d’ordito del testo di Dante, e parte del piano incrociato per la sua opera. Dante, nella Vita Nuova, parla del legame d’amicizia con Guido Cavalcanti e del loro comune intento di scrivere in volgare, nel «dolce stil nuovo_»_. L’epoca di Dante immaginò queste mappe di pellegrinaggio radicate nella cultura ebraica e saracena. Rappresentarli in un testo fiorentino significava, quindi, riconciliare i Popoli del Libro, vale a dire Giudaismo, Cristianità, Islam. Asia, Europa, Africa. Lingua ebraica, latina, araba, e volgare fiorentino.

Siamo a conoscenza dell’incantevole sonetto di Pasqua, che Dante probabilmente compose per Brunetto Latino - maestro suo e di Guido, che ad entrambi insegnò i testi averroistici acquisiti in Spagna - e che accompagnò il manoscritto della Vita Nuova offerto in dono all’amico. Un altro sonetto, in compianto del defunto Brunetto, parla di un pellegrinaggio nel deserto.33 Brunetto stesso scrive un'opera di pellegrinaggio, Il Tesoretto, prendendo a suoi modelli Boezio, Alanus ab Insulis, il Roman de la Rose. Egli d_escrive qui se stesso che apprendendo della condanna all’esilio mentre si trova al Passo di Roncisvalle sulla Via Francigena (1260), profondamente addolorato smarrisce la via («pensando a capo chino, perdei il gran camino_»), e seguendo il sentiero «d’una selva diversa_»_ giunge in un paesaggio di sogno. Ovidio, Tolomeo, e moltissimi altri gli insegnano qui la morale e l’etica. Come i suoi due illustri discepoli, Latino fu fautore convinto della scrittura in volgare, e a beneficio ed uso dei suoi studenti tradusse in francese e italiano Aristotele, Tolomeo, e Cicerone.

Gli accadde di trovarsi al Passo di Roncisvalle sulla via del ritorno in patria dall’ambasceria presso la Corte di Alfonso el Sabio (il padre di Alfonso fu insignito del titolo di «Re delle tre religioni»). Alla Corte spagnola, tra poeti, filosofi, storici, ebbe modo di acquisire molto sapere e molte conoscenze in ambito storico, scientifico, letterario. Per il tramite della cultura araba le opere di Aristotele e Tolomeo, anche venendo a contatto con gli scritti dello stesso Alfonso. Già conosceva, invece, Cicerone. Nel codice giuridico Las Siete Partidas, Alfonso el Sabio dà una definizione del pellegrino riecheggiata da Dante nella Vita Nuova - e nuovamente ripresa da Cesare Ripa nella Nova Iconologia. Dante è così parte di un mondo che conosce le culture di tutti e tre i Popoli del Libro. Un mondo imbevuto sia di cultura giudaico-cristiana sia di cultura islamica, entro cui anche poter interpolare il sapere greco-romano. Apprendendo l’una dall’altra tutte e tre le culture attribuirono grande valore all'educazione e al pellegrinaggio. Al pellegrinaggio cristiano a San Giacomo di Compostela corrispondeva il pellegrinaggio musulmano a Cordova e Mecca, riflesso del pellegrinaggio a Gerusalemme per israeliti, cristiani, e musulmani.

La _Vita Nuova_non è l'ultimo tentativo compiuto da Dante di scrivere un'opera di pellegrinaggio. E' la sua esercitazione di classe, la sua opera di apprendistato, 32 che in sé porta l'impronta degli insegnamenti di Brunetto Latino, come il Ritratto dell'artista da giovane di Joyce trasmette i principi educativi e pluralistici di John Henry Newman. Sia Dante sia Joyce si oppongono agli insegnamenti dei loro pedagoghi, al tempo stesso molto attingendo da essi. Nella sua opera Joyce fa analoghi giochi crittografici e intertestuali, rimandando con il suo testo alle Confessioni di Sant'Agostino (il suo secondo nome era Agostino, la confessione occorre, quindi, a metà libro) e all'Apologia pro vita sua di Newman (ad apertura del romanzo la madre vuole che Stephen nascosto sotto il tavolo chieda scusa alla zia Dante [«_apologize»_], e se non lo farà ripete la zia canticchiando una filastrocca le aquile gli strapperanno gli occhi).33

Anchela Commedia, che segue alla Vita Nuova, si servirà dei paradigmi dell'Esodo e di Emmaus, intrecciati come trama nell’ordito dell'opera di Dante. Dante è come un nuovo Aronne che diviene un Mosè, un nuovo Clèopa che diviene un Luca, in pellegrinaggio dalla Firenze terrena, che è anche un Egitto, alla Roma celeste che è anche una Gerusalemme. La geografia e l'allegoria del pellegrinaggio sono alla radice di questi libri fondati sul Libro del Verbo di Dio, sul Libro dell’Universo e della Creazione di Dio. Dante nel volgare secolare e profano crea un’intertestualità con i testi sacri e rivelati della Bibbia, in latino, greco, ebraico. Sia con il codice di Luca 24 per i Vangeli, sia con il codice di Numeri 33 per l'Esodo. (Quei codici parlavano più profeticamente di quanto Dante stesso potesse mai concepire. Egli diverrà letterariamente l'esule della sua definizione di pellegrinaggio della Vita Nuova XL). Dante impiega entrambi i codici di pellegrinaggio, il codice dell'Esodo e quello di Emmaus, da cui creare l'ermeneutica bifronte, le «ambages pulcerrime» della sua Vita Nuova composta nel «dolce stil nuovo_»_del gotico Fiorentino.

Note

1 Originariamente pubblicato in inglese, e con la traslitterazione in lettere romane dei nomi ebraici delle XLII Stazioni, in «Dante Studies_»_ CIII (1985), 103-104. Opere citate DANTE ALIGHIERI,Tutte le opere, a cura di Luigi Blasucci, Sansoni, Firenze, 1981; La Vita Nuova, Rizzoli, Milano, 2001; La Vita Nuova, Mondadori, Milano, 2001.

2 DANTE ALIGHIERI, La Vita Nuova, trad. Barbara Reynolds, Harmondsworth: Penguin 1969, p. 11.

3 CHARLES S. SINGLETON, An Essay on the Vita Nuova, Cambridge,Mass.: Harvard University Press 1949, pp. 25-54.

4 MICHEL FOUCAULT, The Archeology of Knowledge and The Discourse on Language (New York: Pantheon 1982); FREDRIC JAMESON, Metacommentary, PMLA LXXXVI (1971), 9-17.

5 ERWIN PANOFSKY, Early Netherlandish Paintings: Its Origin and Character, New York: Harper and Row 1971, vol. I, pp. 131-148.

6 ERICH AUERBACH, _Figura_in Scenes from the Drama of European Literature, trad. Ralph Manheim, New York:Meridian 1959, pp. 11-76; JAMESON, Metacommentary, pp. 9-10.

7 Il sonetto di Dante per Brunetto Latino - che accompagnava il suo dono pasquale del manoscritto della Vita Nuova - nella traduzione di Dante Gabriel Rossetti compare in Dante and his Circle with the Italian Poets Preceding Him, London: Ellis and Elvey 1892, p. 96;su questo sonetto si veda BRUNETTO LATINI, Il Tesoretto, a cura e trad. di Julia Bolton Holloway, New York: Garland 1987, p. xviii; testo italiano in Raccolta di rime antiche toscane, Palermo: Assenzio 1817, vol. II, p. 32:

Messer Brunetto, questa pulzella
Con esso voi si vien la Pasqua fare;
Non intendete pasqua da mangiare,
Ch'ella non mangia, anzi vuol essere letta.
La sua sentenza non richiede fretta,
Nè luogo di romor, né da giullare;
Anzi si vuol più volte lusingare,
Prima che in intelletto altrui si metta,
Se voi non la'ntendete in questa guisa,
In vostra gente ha molti frati Alberti,
D'intender ciò, che porta loro in mano,
Color, v'me stringete senza risa,
E se gli altri de' dubbj non son certi,
Ricorrete alla fine a Messer Giano.

8 STANLEY E. FISH, Progress in «The Pilgrim's Progress», in Self-Consuming Artifacts:_The Experience of Seventeenth_-_Century Literature,_Berkeley: University of California Press 1972, pp. 224-64; HANS ROBERT JAUSS, Toward an Aesthetic of Reception, trad. Timothy Bahti, Minneapolis: University of Minnesota Press 1982.

9 THOMAS S. KUHN, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago: Chicago University Press 1970; FRANK KERMODE, The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction, New York: Oxford University Press 1967; JULIA BOLTON HOLLOWAY, _Twice_-Told Tales: Brunetto Latino and Dante Alighieri, New York: Peter Lang 1992.

10 JULIA BOLTON HOLLOWAY, Alfonso el Sabio, Brunetto Latino, Dante Alighieri, «Thought_»_, 60 (1985), 471; trattatoulteriormente in Twice Told Tales.

11 BERYL SMALLEY, The Study of the Bible in the Middle Ages, Notre Dame: University of Notre Dame Press 1964; GABRIEL L. ASTRIK, The Significance of the Book in Medieval University Coats of Arms, in «Medieval and Renaissance Studies_»_, a cura di O.B. Hardison, Jr., Chapel Hill: University of North Carolina Press 1966.

12 JOHN F. MAHONEY, The Role of Statius in the Structure of the «_Purgatorio_», «79° Annual Report of the Dante Society» (1961), 11-38, in particolare pag. 22; ERIC WERNER, The Sacred Bridge: The Interdependence of Liturgy and Music in Synagogue and Church During the First Millenium, London: Dobson 1959, pp. 419-421.

13 ROBERTHOLLANDER, «Vita Nuova»: Dante’s Perceptions of Beatrice_», «Dante Studies_» XCII (1974), 1-18.

14 EDMOND DE COUSSEMAKER, Drames liturgiques du Moyen Age, Paris: Vatar, 1861; GIAMPIERO TINTORI, Sacre rappresentazioni del manoscritto 201 della Bibliothèque Municipale di Orléans, Cremona: Athenaeum Cremonense 1958, p. lxxi.

15 ROGER SHERMAN LOOMIS, The Romance of Tristan and Ysolt, New York: Dutton 1967, pp. 28-33; MIKHAIL BAKHTIN, Rabelais and his World, trad. Helene Iswolsky, Cambridge, Mass.: MIT Press 1968, pp. 1-58, 437-474; VICTOR TURNER, The Ritual Process: Structure and Anti-Structure, Ithaca: Cornell University Press 1971, passim; MARIA CORTI, Models and Antimodels in Medieval Culture, NLH, X (1979), 339-356.

16 Si suppone, in genere, trattarsi del panno della Veronica, esposto in San Pietro ai pellegrini il venerdì santo. Ma uno studio della pratica del pellegrinaggio a Roma nel secolo XIII indica, invece, trattarsi del Volto Santo di Cristo nel mosaico dell'abside di San Giovanni in Laterano, che si narra fosse miracolosamente fluttuato nella basilica attraverso la porta dorata. Guardare questo Santo Volto, meritava al pellegrino, anche nel secolo XIII, l'indulgenza plenaria. Il Laterano, quindi, in importanza e santità di gran lunga superava il Vaticano. HARTMANN GRISAR, History of Rome and the Popes in the Middle Ages, trad. Luigi Cappadelta, London: Herder 1911, vol. III, pp. 302-303.

17 GERHART B. LADNER, Idea of Reform: Its Impact on Christian Thought and Action in the Age of the Fathers, New York: Harper 1967, esamina brillantementel'importanza di questo concetto nella cristianità.

18 E. H. GOMBRICH, Art and Illusion, Princeton: Princeton University Press 1961, pp. 68-69; EMILE MÂLE, The Gothic Image: Religious Art in France in the Thirteenth Century, trad. Dora Nussey, New York: Harper e Row 1958, p. 2. Sigmund Freud ne_Il disagio della civiltà_ vede tra la città di Roma e la mente umana un’analogia, Roma e la mente umana sono viste come un palinsesto nel tempo e nello spazio; e in Lutto e Melanconia descrive come nella melanconia patologica si ha una forte identificazione con l’oggetto perduto. La morte di Beatrice l’8 giugno 1290 e la caduta di Acri il 18 maggio 1291 nella Firenze di Dante sono specchio e della perdita di Cristo e della perdita di Gerusalemme.

19 JONATHAN D. SPENCE (Il Palazzo della memoria di Matteo Ricci, Il Saggiatore, Milano, 1987), The Memory Palace of Matteo Ricci, Harmondsworth: Penguin 1985, pp. 128-161, ha trattato del Teatro della memoria e del Palazzo della memoria come sistema mnemonico che il missionario gesuita, Matteo Ricci, ideò e adottò in Cina. Per questo egli ricorre al racconto e alle immagini dei pellegrini di Emmaus.

20 DOUGLAS R. HOFSTADTER, Gödel,Escher, Bach: An Eternal Golden Braid, New York: Vintage 1979; OTTO VON SIMSON, The Gothic Cathedral: Origins of Gothic Architecture and the Medieval Concept of Order, Princeton: Princeton University Press 1974, p. 42; KATHI MEYER, The Eight Gregorian Modes on the Cluny Capitals, «Art Bulletin_»_, XXXV (1952), 81-82, ha discorso dei capitelli nei chiostri come a rispecchiare armonie musicali.

21 E. PROTO, Rassegna critica della letteratura italiana, 17 (1912), p. 246; HOLLANDER, Dante’s Perceptions of Beatrice, «Dante Studies_»_, XCII (1974), 18, n. 38.

22 SANT’AGOSTINO, On Christian Doctrine, trad. D. W. Robertson, Jr., Indianapolis: Bobbs-Merrill 1958, p. 75.

23 SIMSON, Gothic Cathedral, pp. 21-50.

24_Patrologia Latina_, a cura di J. P. Migne, vol. CXIII, coll. 438-444.

25 [PSEUDO-]AMBROGIUS, De XLII mansionibus filiorum Israel tractato, Migne, vol. XVII, coll. 9-40: <http://www.documentacatholicaomnia.eu/02m/0339-0397,_Ambrosius,_De_XLII_Mansionibus_Filiorum_Israel_Tractatus,_MLT.pdf>; SAN GIROLAMO, Epistola 78, Ad Fabiolam de mansionibus filiorum israhel per heremum, CLCLT.CD della Universitas Catholica Lovaniensis/Brepols, Cetedoc Library of Christian Latin Texts; Il Viaggio dell’Anima, a cura di Manlio Simonetti, Giuseppe Bonfrate e Piero Boitani, Milano: Mondadori, 2007; The Madaba Mosaic Map http://198.62.75.1/www1/ofm/mad.

26 JOHN G. DEMARAY, The Invention of Dante's Commedia, New Haven: Yale University Press 1974, pp. 46-47, 155-156; PAOLO AMADUCCI, La Fonte della Divina Commedia, Rovigo 1911, vol. 2.

27 FETELLUS, Palestine Pilgrims' Text Society, a cura di James Rose MacPherson, London 1887-1897, vol. V, pp. 14-22, p. vii.

28 KURT WEITZMANN, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai, Princeton: Princeton University Press 1976, vol. I, pp. 13-15, Icona B. 1.

29 GAIL MACMURRAY GIBSON, The Thread of Life in the Hand of the Virgin, Duke University Art Museum 1972, ripubblicato in Equally in God's Image: Women in the Middle Ages, a cura di Julia Bolton Holloway, Joan Bechtold, Constance S. Wright, New York: Peter Lang 1990, pp. 144-63.

30 D.W. ROBERTSON Jr, The Doctrine of Charity in Medieval Literary Gardens: A Topical Approach Through Symbolism and Allegory, «Speculum» XXVI (1951), 24-49; Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, Firenze 1856; PIETRO ALIGHIERI, Comentum super poema Comedie Dantis, Tempe: Arizona Center for Medieval and Renaissance Studies, 2005, p. xiii, 69, 132.

31 Il sonetto composto in compianto di Brunetto Latino si apre con il grande dolore del poeta per la perdita del suo Brunetto gioioso: «Brunetto Gajoso» (Raccolta, 1817, vol. I, p. 105), per continuare poi:

I' voglio dipartirmi, e amantellato
Andar vagando, come pellegrino,
Sin che trovo un bosco disertato.
Voglio cangiare con l'acqua lo vino,
In ghiande lo mio pane dilicato.
Pianger la sera, la notte, e'l mattino.

32 LAWRENCE LIPKING in_The Life of the Poet_: Beginning and Ending Poetic Careers, Chicago: Chicago University Press 1981, pp. 20-34, si esprime analogamente per Marriage of Heaven and Hell di WILLIAM BLAKE, p. 18; «esso contiene intere biblioteche [...] quasi una bibbia [...] offre un codice assoluto, sacro in forma fortemente concentrata».

33 JAMES JOYCE, Ritratto dell'artista da giovane, Adelphi, Milano, 1990.

THE VITA NUOVA:

PARADIGMS OF PILGRIMAGE1

****he Vita Nuova is, as translator Barbara Reynolds notes, a work by a poet for poets about poetry.2 It is also, as Charles Singleton in his Essay on the Vita Nuova, has ably demonstrated, a book about the Book.3 It is thus self-conscious, self-referential, and self-reflective, at the same time that it is a Janus text, written with ambages, riddling ambiguities, deliberate doublenesses of meaning (Aeneid VI.29,9;De vulgari eloquentia I.10). It is a hermeneutic and cryptographic text and much of its encoding has to do with pilgrimage. It was written in a period when critical theory was theology, when sacred texts were mirrored in secular texts, and when reconciling ambages were mandated by cultural pluralism.

The hermeneutic of the Vita Nuova can be uncoded through an archeology of its text;4 of its intertextuality with a prior text which in turn describes a geography alien and foreign to Dante's, one being of Israel in Asia, the other of the Sinai in Africa, as well as being of his native Florence and of Rome in Europe. Dante creates upon the Old and New Testaments using Exodus and Emmaus paradigms a palimpsest, reshaping the Bible's Hebrew, Greek and Latin into Florentine Italian. I would argue also that the cultural context explains both the text and its method, its cryptography. This essay will attempt to unravel those parts of its riddle that have to do with pilgrimage and its paradigms.

The thirteenth century is the century of the "sweet new style," the dolce stil nuovo, of the Gothic, which borrowed motifs from the Saracen, observed in Spain, Sicily, and the Jerusalem Kingdom, where the Christian culture encountered through its crusades and its pilgrimages the rich pluralism of the other Peoples of the Book, and made that ultra-civilized material ultra-Christian in contradistinction to the Romanesque, which it now chose to interpret as Oldness, whether Roman or Judaic, Hellenic or Hebraic. Panofsky has shown how this period made use of these two styles in a coded language, conveying Oldness and Newness side by side, the one fulfilling the other, not destroying it.5 Auerbach and Jameson have shown how medieval theology brought together disparate modes for reading texts into a complementarity, a rich co-existence that continued until the stystem became too unwieldy, overloaded, and contradictory for readers in more modern times.6

Pilgrimage was seen by theologians, Philo Judaeus among them, as paideia, as education. The Vita Nuova is associated both with pilgrimage and with education, and is even said to have been given by Dante Alighieri to his teacher, Brunetto Latino, accompanied by a sonnet which speaks of its text as a Janus one.7 This text functions as epistemology, of both its writer and its reader; both are required to crack its code, its enigma.8 Related works through time are Augustine's_Confessions_, Boethius' Consolation, Wireker's Speculum Stultorum, Erasmus' Praise of Folly, More's Utopia, Bunyan's Pilgrim's Progress, Joyce's Portrait. These works use authorial personae and specula, masks and mirors, and are learnedly playful, childishly arcane. They pivot upon a fulcrum, upon conversions ("Tolle, lege, tolle, lege"); they are bookish and about education; and they contain equal and opposite meanings in their dialectic mode.

The thirteenth century is the century of Aristotle, whom Brunetto Latino taught to Dante Alighieri, and whose works were likewise borrowed from the Arabs who had preserved the Greek texts when the Christians had not, and who was now made ultra-orthodox by Aquinas after a bitter, initial rejection of his writings as heretical. What is witnessed here is a paradigm shift of great importance to Western culture, albeit censored and disguised.9 Latino and Dante are master and disciple, each in turn conveying that new and initially suspect and controversial learning, and who both reconcile the Greco-Arabic mode to the Judeo-Christian one in a dialectic. This willingness to accept a doubleness of thought further encouraged the marriage of the Old and New Testaments as justification of the similar juxtaposition of philosophy and theology, the Greco-Roman and the Judeo-Christian. Beryl Smalley has discussed this aspect of medieval Biblical study and Gabriel Astrick has demonstrated its presence in medieval universities' coats of arms.10

This doubleness of the thirteenth century, this complementarity, is deeply embedded in the Vita Nuova which is a Gothic and Averroistic text that plays upon prior texts. In the Vita Nuova Dante is deconstructing his own earlier poetry, finding deeper layers of meanings to it than he at first suspected were there. He is playing with its doubleness, its intertextuality, to God's text and to Aristotle's. Its text will teach him God's Commandments given to Moses and Aaron and Aristotle's Ethics; theology and philosophy; Hebraism and Hellenism. The Vita Nuova is thus a work that presents a map of misreading, as a Janus text with another and opposite meaning behind its apparent surface text, both being of value, like some manuscript palimpsest where a Romanesque liturgical text has been overlaid by a Gothic Ovid or, as in the actual case of a Brunetto Latino manuscript, where a thirteenth-century legal text has been scraped clean and upon it placed Latino's translation of Aristotle's Ethics, acquired by him in Spain and copied out in France, where he was exiled following the Battle of Montaperti and before that of Benevento, as in Yale's Marston 28.

The thirteenth is the century of the university and all these reconciled texts, philosophical and theological, Greco-Roman and Judeo-Christian, are crucial for the medieval lecture hall and for those pedagogic establishments set up in legal chambers and chanceries in the cities lacking universities. We know that Brunetto Latino taught his students in Arras and in Florence in this manner, from texts acquired in quasi-Saracen Spain, and that one of his students was the young Dante Alighieri, another having been Guido Cavalcanti.11

The Vita Nuova can be taught in courses on medieval pilgrimage and poetry, and students in them shown a way of uncoding its text through the paradigms and even literal maps of pilgrimage. There are two major paradigms of Judeo-Christian pilgrimage which are used in medieval literary texts: the Emmaus and the Exodus patterns. It should be previously explained to students in such a course that the Hebraic world had required three pilgrimages annually to the Temple in Jerusalem of all Jewish males, at Passover, Pentecost, and Tabernacles, all of which ritually replicated the Exodus pilgrimaging and at which pilgrims laid palms on the horns of the Temple's altar. Then it can be shown how these Hebraic pilgrimages liturgically, archeologically, inform the later Christian ones, all of these shaping the Vita Nuova as well as other major pilgrimage texts.

I. The Emmaus Paradigm

In Luke 24, originally written in Greek, we learn of two pilgrims who are joined by a third they do not at first recognize as they journey towards an inn at eventide. (This tale of pilgrim tales will also influence Chaucer, Joyce, and Eliot, its archeology not only influencing Dante but also reaching into the future beyond him, and largely through him.) The Gospel account was read in the Church's liturgy each Easter Monday and often acted out as a drama, with Psalm 113, In exitu Israel de Aegypto, originally the Hebrew psalm of the Hallel, chanted while bearing palms on the pilgrimage to the Temple, and now sung in Latin and Gregorian chant, but which had originally been sung in Hebrew with a similar musical tonus peregrinus.12

The Emmaus paradigm, of the teller of the tale who is at first foolish and who later comes to comprehend the presence of Jesus as the pilgrim, will be a pilgrimage device Dante will borrow from Luke. It is his authorial mantle for the self-conscious, self-referential, self-reflective telling of the Vita Nuova, its pilgrim narration. That garb will be donned again for the Commedia, Dante there being as Luke, Virgil, his Cleophas and likewise Aaron, in Dante's figural structuring.

The liturgical drama, the Officium Peregrinorum, based upon Luke 24, had powerfully presented the paradoxes of recognition and resurrection. Dante is to use that dramatic episode again, intertextually, in Purgatorio XXI.7-11,

Ed ecco, sì come ne scrive Luca
che Cristo apparve a' due ch'erano in via,
già surto de la sepulcral buca

[And, just as Luke had written of it, that Christ appeared to the two who were on the road, having already risen from the sepulchral cave],

where he has two poets, Virgil and Dante, be met by a third, Statius. The encounter of two pilgrims by a third is at last made overtly as the Emmaus paradigm; but previously, throughout Hell and Purgatory, each meeting of the two, Virgil and Dante, with others had covertly been in that Emmaus matrix of pilgrimage. For the Emmaus tale is explicitly about initial non-recognition through folly and sin; it is a Pilgrim's Progress.

In the medieval tradition the second, unnamed disciple becomes a youthful, beardless Luke, himself the future author and Gospeler of that pilgrim tale, while the first was the older and bearded Cleophas. Luke's text speaks of these two whose "oculi autem illorum tenebantur, ne eum agnoscerunt" [But their eyes were holden that they should not know him] (24.16), as they walked together telling pilgrim tales, "dum fabularentur" [while fabling] (24.15). Cleophas says to the unrecognized Jesus: "Tu solus peregrinus es in Jerusalem, et non cognovisti quae facta sunt in illa his diebus?" [Art thou only a stranger in Jerusalem and hast not known the things which are come to pass there in these days?] (24.18). Jesus, in pilgrim disguise in medieval depictions of this scene, answers: "O stulti et tardi corde ad credendum in omnibus quae locuti sunt prophetae?" [O fools and slow of heart to believe all that the prophets have spoken] (25). And he begins by telling them of Exodus, the tale of Moses and his wilderness pilgrimage, as a prophecy concerning himself. Then the recognition scene occurs in the blessing and breaking of bread at the inn. This is dramatic irony; it is related to the riddle and the ambages. Perceptions are reversed. Tricks are played upon the personae and the readers.

The Emmaus tale is encountered twice in the Vita Nuova, and the first time it is presented it is misread, misunderstood, and unrecognized. It is presented in the ninth section of the work. The Vita Nuova calls great attention to numerology and above all to that number, nine. The title of the work, in Latin, and repeated in rubrication at the opening of the text, puns upon "new" and "nine," in contra-distinction to the oldness of eight, the octagonal font, the pagan Emperor Octavian/Augustus who saw at Ara Coeli a vision of the Virgin and Child; these two numbers, eight and nine, then become, in medieval numerology, the numbers of conversion. Augustine similarly had had his conversion occur in the eighth book of the Confessions, his baptism into the new life in the ninth. Beatrice is equated with "nine" (XXXVIII- XXXIX). Dante is here drawing attention to his code and to the means by which it can be cracked.

In that chapter Dante has gone away from Florence (just as Luke and Cleophas were journeying away from Jerusalem), when on the road he meets Amore disguised as a pilgrim: "E però lo dolcissimo segnore . . . ne la mia immaginazione apparve come peregrino leggeramente vestito e di vili drappi" [And therefore the most sweet lord . . . in my mind appeared like a pilgrim lightly clad and with shabby garb]. Dante is, for a pilgrim, improperly on horseback: "Cavalcando l'altr'ier per un cammino" [Riding out the other day along a road]; the pilgrim Amore is correctly on foot, and probably barefoot. (John Donne will play with that paradox in his "Good Friday Riding Westward" four centuries after.)

There is a further relation to the Emmaus paradigm than might be apparent to a modern reader. The monastic liturgical dramas not only made use of Psalm 113 in the Easter Monday and Tuesday performances of the Officium Peregrinorum; they also prefaced that play with a hymn, "Jesu, Amor et Desiderium" [Jesus, Love and Desire].13 Also, the pilgrimage to Rome, if ROMA was spelled backwards, was to AMOR, Love. For these reasons many uses of the Emmaus paradigm in medieval texts yoked the erotic to the Christological, including Tristan's encounter with two Venetian pilgrims on the shores of Tintagel, upon his pilgrimage not to Christ but to Isolde, and Petrarch's pilgrimage to Laura, Chaucer's Troilus' failed tryst to Criseyde, Shakespeare's Romeo's pilgrimage to Juliet.14 Partly what lies behind the medieval game with pilgrimage, which can and should be chaste, but which is mocked as being of lust, is the statement in I Peter 2.11: "Dearly beloved, I beseech you as strangers and pilgrims, abstain from fleshly lusts, which war against the soul." Prohibitions give rise to mocking misrule, to satirical saturnalia. Dante, in the razio to his poem, stresses the Emmaus-like sudden disappearance of Amore. But the appearance of his Amore, at this stage of the work, is more that of Cupid than that of Christ. The Christological references are deliberately kept cloudy and unclear at this stage of the pilgrimage of the Vita Nuova, both for its Luke-like persona, who is foolish and slow to believe, and for its reader who mirrors him.

The other half of this tally comes in _Vita Nuova_XL with the sonnet's lines:

Deh peregrini che pensosi andate,
forse di cosa che non v'è presente,
venite voi da sì lontana gente,
com'a la vista voi ne dimostrate,
che non piangete quando voi passate
per lo suo mezzo la città dolente,
come quelle persone che neente
par che 'ntendesser la sua gravitate?

[O pilgrims, meditating as you go, On matters it may be, not near at hand, Have you then journeyed from so far a land, As from your aspect one may plainly know, That in the sorrowing city's midst you show No sign of grief, but onward tearless wend, Like people who, it seems, can understand No part of all its grievous weight of woe?15]

Its commentary goes on to speak of pilgrims journeying from Florence to Rome to see "quella imagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo de la sua bellissima figura" [that blessed image that Jesus Christ has left for us as a pattern of his most beautiful face]. It is generally assumed that this is the Veronica veil shown each Easter Friday to pilgrims at St. Peter's. But an investigation of pilgrimage practices in Rome in the thirteenth century indicates instead that this is the face of Christ in the apse mosaic of St. John Lateran which was said to have floated miraculously into the basilica through the golden door.16 To view this face, the Santo Volto, gave the pilgrim, even in the thirteenth century, a most valuable indulgence. The Lateran, then, was of far greater importance and sanctity than was the Vatican. In Vita Nuova IX that Christ imaging was obscure; in Vita Nuova XL it is revealed, the Pilgrim's Progress of the work deliberately being that of I Corinthians 13.12: "Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad faciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum" [For now we see through a glass darkly, but then face to face: now I know in part; but then shall I know even as I am known].17

Coupled with this pilgrimage towards Rome Dante gives us a most careful definition of the various kinds of pilgrims according to their geographic goals:

. . . chiamansi palmieri in quanto vanno oltremare, là onde molte volte recano la palma; chiamansi peregrini in quanto vanno a la casa di Galizia, però che la sepultura di sa' Iacopo fue più lontana de la sua patria che c'alcuno altro apostolo; chiamansi romei in quanto vanno a Roma, là ove questi cu'io chiamo peregrini andavano.

[They are called Palmers who go overseas, where they often bring back the palm; they are called Pilgrims who go to the shrine in Galicia, for the tomb of St. James is the farthest from his homeland than is that of any other apostle; they are called Roamers who go to Rome, where those whom I call Pilgrims were going].

But Dante is implying that his own city, through which these pilgrims are traveling, is another pilgrim city. In quoting Jeremiah: "Quomodo sedet sola civitas" [How doth the city sit solitary], he is drawing an analogy between Florence and Jerusalem; the one city for the loss of Beatrice mirroring that other city for the death of Christ, in the manner of Christ's seeing prophecies concerning himself in the Old Testament as fulfilled in the New. Dante is thus drawing Florence into the Emmaus paradigm twice over, the first time obscurely, the second time with clarity. E. H. Gombrich spoke, in Art and Illusion, of this capacity to substitute one city for another, in art, and in printing; so also did Emile Mâle.

II. The Exodus Paradigm

We recall that on the road to Emmaus, Christ, Luke, and Cleophas were telling tales. One tale Christ told was of Moses, which would have included that of the Exodus. We know that in the Officium Peregrinorum, the Easter Monday Vespers liturgical drama, that Psalm 113 (Psalm 114 and 115 in the King James Bible) was also sung, renarrating the tale of the Exodus. The Exodus and the Emmaus tales were themselves seen as palimpsests of each other. What we shall find is that Dante is creating of those two intertwined tales yet a third; he shapes their analogies to his as carefully as would Bach have shaped a fugue and a passacaglia.18

Dante makes use of the Stations of the Exodus as a book of memory, a theatre of memory, a pilgrimage of memory, for the mnemonic cryptography of the Vita Nuova, a system of categories for his forty-two divisions to the work, having it become both a concealed Old Testament pilgrimage in the Wilderness and a to-be-revealed New Testament one, to both of which he gives a New Life, a vita nuova.19 I shall first discuss the general patterns and then the specific one of Numbers 33's Stations of the Exodus, which correspond, John V. Fleming once remarked, to Dante's divisions of the Vita Nuova.20 Medieval culture, we know, delighted in such numerological paradigms.21 There would also be some awareness of the names of the forty-two stations' Hebrew names and their meanings as words, as being as well letters as numbers, thus giving us Italian, Latin, Greek, and Hebrew, a pilgrimage consonance of the languages of the Book.

The Exodus is a story of liberation, of paideia, the Bildungsroman of Israel, and Dante will carefully define it as such in the Letter to Can Grande. It was a historical event, but it was also defined in literary terms by Augustine and others. We recall that Augustine had argued that it was permissable to use pagan poetry in Christian sermons because God had told the Israelites to borrow Egyptian gold and take it with them in the Wilderness (Exodus 12.35).22 That gold was first used to fashion the Golden Calf, when the Israelites came to Aaron, saying "Up, make us gods" (32.1). In so doing, the Israelites had broken the commandment against idolatry, against graven images. In their dancing naked about the Golden Calf they were also breaking the commandment against adultery, against lust. They were most severely punished for these acts. The same Egyptian gold was then used for the adorning of the Ark which housed the Law with these Commandments against idolatry and adultery among the others. Paul had preached a sermon to the pagan Athenians on the Areopagus and had used in that Christian sermon quotations from Greek tragic poetry (Acts 17). The Church Fathers used these two episodes to argue that pagan material, like Egyptian gold, like Greek poetry, could be used for Christian purposes. Thus the Exodus was seen both as a historical liberation, and also as an allegory about poetry and its doubleness. Dante will thus make use of Beatrice as Golden Calf and as Tabernacle of the Ark. She represents both poetry and theology, lust and charity.

The Middle Ages and its cathedrals and summae took most seriously the scriptural statement that God had created the world in number, weight and measure: "omnia in mensura et numero et pondere disposuisti" (Wisdom of Solomon 11.20). Christ's age at the Crucifixion was thirty-three. The book of Numbers, for its thirty-third chapter, proceeds to list the forty-two Stations of the Exodus. Those forty-two stations were of great importance both in the Hebraic world and in the Christian one. They were traveled by pilgrims. In imitation of them pilgrimage stations were established among the churches in Rome, including the seven major basilicae. In imitation of both of these, twelve pilgrimage stations were eventually established in Jerusalem, by the Franciscans, to mark the twelve events concerning the Crucifixion, the Stations of the Cross. The listing from Numbers 33 was discussed, with the meanings of the Hebrew names, from Jerome and Bede, in pilgrim guidebooks and in the_Glossa Ordinaria_.23 It functioned like gematria, where letters are numbers and vice versa, the numbers and names here, rather than just the letters, being consonant in an intertextuality of time and space upon the World as Book written by God. For Dante it may have become such a system as Umberto Eco was later to have his Name of the Rose library use, there based upon the Apocalypse: here, by Dante, for the Vita Nuova, upon Numbers 33.

It would be wise to discuss two of the pilgrim accounts side by side with Dante's cryptographic text. One such account, Anonymous Pilgrim VI (Pseudo-Beda), is of the twelfth century; the other, Fetellus, is of the thirteenth century and thus likely more corrupt. One is uncertain what account Dante actually may have himself used. Available to him could also have been Jerome's listing and translation, which is repeated in the Glossa Ordinaria. The Glossa text is especially interesting as it conflates Old and New Testament meanings together, seeing all the events in Numbers 33 in relation to Christ. John Demaray also notes Paolo Amaducci's La fonte della Divina commedia which sought to parallel Peter Damian's De Quadragesima, et quadraginta duabus Hebraeorum mansionibus to that text in its entirety in a far-fetched manner.24 To my knowledge no attempt has been made to apply the forty-two Stations of the Exodus carefully to the Vita Nuova as a map, a subtext, or palimpsest to it.

There is a certain amount of confusion between these pilgrimage accounts and those of Numbers 33 but they all make cryptographic, structural sense of the Vita Nuova, as if a version of one of them had been at Dante's elbow as he wrote that text. One should, perhaps, quest for likely manuscripts in Florentine libraries that Dante could have used. What we shall see is that in some cases there is a very exact parallel, in others not so; as if Dante had used the Exodus Stations as a rough outline for his own work, much as frescoes of pilgrimage at Tavant were first sketched in with sanguine, then covered over, that covering now being lost and revealing the original sanguine cartoons. Some editions of the_Vita Nuova_ change the numbering from forty-two to forty-three chapters, but not many do so.

The Victorian editor of Fetellus, James Rose MacPherson, noted of that text: "At this point he introduces a long statement as to the route of the Exodus, in which he mentions some remarkable legends, and gives many strange interpretations of the names of the stations in the Desert of the Wanderings. These explanations are at times altogether ludicrous, but not more so than was general up to a comparatively recent period."25 One must admit that the credulous tone of the accounts strikes a modern reader as odd. We, today, are nominalists. Umberto Eco's system is only accidentally consonant with the events that transpire in his medieval detective novel Il nome della rosa, though he designed them. But the early medieval mind believed that names, places, and their meanings, their etymologies, were designed, created, by God. It is that spirit which informs these accounts.

John Demaray, in order to write The Invention of Dante's Commedia, actually traveled the Exodus route, visiting the Monastery of St. Catherine at Mount Sinai. He applies the Exodus Stations to the Commedia, but not to the Vita Nuova.26 He found that pilgrim guides were still repeating these formulae orally almost verbatim as they are also given in medieval pilgrim guidebooks.27 There is an intense retention and conservatism about a landscape upon which pilgrimages are performed, where the World and the Book, as Singleton has shown in his Essay on the Vita Nuova, become one. There is, in fact, a magnificent icon at St. Catherine's Monastery of Christ with the Book, in which one senses that he is analogously also Moses with the Law, and that the Book contains Numbers 33 as well as Luke 24.28 This is Dante's "libro de la mia memoria," his book of memory.

Let us turn to the Vita Nuova's text and examine it with the pilgrim palimpsests of Numbers 33 at our elbow, using that as a code book for the cryptography of the work and see what occurs. Dante begins by noting that his own palimpsest begins with "una rubrica la quale dice: Incipit vita nova" [a rubricated line which states: "Here begins the New Life"]. In the Latin Vulgate the Red Sea is the "mare Rubrum." Psalm 113, used at the Easter baptism, mentions it. The Red Sea's crossing and baptism were seen as analogous by the Church. This first section of the Vita Nuova represents the beginning of Dante's Exodus-like pilgrimage from Egypt to Israel, from confusion to clarity, from birth through life to salvation, a pilgrimage he can make after first "spoiling the Egyptians." Pseudo-Beda gives us the date of the beginning of Numbers 33 as the second day after Easter, the liturgical date for the reading of the Gospel account of the Doubting of Thomas, an episode often included in the Easter Monday and also Tuesday Officium Peregrinorum. In that drama Christ tells Thomas that he has seen him but not believed. All these aspects can be found echoed in Dante's text.

The second station is that of Succoth, of the Tabernacle. In Exodus and elsewhere we are told that the predominant color of the Tabernacle of the Ark is red, crimson, scarlet. This is the garb of Beatrice: "Apparve vestita di nobilissimo colore, umile ed onesto, sanguigno." The Tabernacle of the Ark was to be housed in the Holy of Holies, the Sancta Sanctorum, within the Jerusalem Temple. Dante here says that "lo quale dimore ne la secretissima camera de lo cuore" [which dwells in the inmost depths, the most secret room, of the heart]. What is interesting here is that Beatrice is associated with Miriam, Mary, and Christ; and the Exodus Vulgate account gives Miriam's name as Mary, and the Apocrypha tells the story of the Virgin spinning and weaving the red cloth for the Temple's curtains, being herself the Arca Dei, the Ark of God.29 Dante's roles here become that of Moses before the burning bush, that of Aaron permitted to enter the Holy of Holies but once a year. Thus the "Egyptian gold" of Homer is particularly apt: "Ella non parea figliuola d'uomo mortale, ma di deo" [She appeared not as the daughter of a mortal but of God]. Bernard had spoken of the Virgin Mary as the "daughter of her son," and Dante was to repeat that paradox (Paradiso XXXIII.1-36). In this system neither character nor gender need remain fixed; the palimpsest can vary the dramatis personae. Here Dante responds to the sight of Beatrice as did Moses to the sight of God. Medieval iconography associated Moses' sight of God in the burning bush as analogous to Augustus/Octavius' vision of the Virgin and Child. The icon at St. Catherine's Monastery may give us God and Moses mirroring each other. The Glossa Ordinaria emphatically relates Moses to Christ: "Moses, id est Christus."

The third station, Etham, is that of the pillar of cloud and fire, of "bravery," "perfection," and "solitude." Here Dante meets the miraculous Beatrice first garbed in white. Then Love presents her to him in a vision of "una nebula di colore di fuoco" [in a cloud the color of fire], wrapped in a crimson cloth, "uno drappo sanguigno." At first Dante is afraid, faint hearted, and so also is Beatrice timid and terrified, rather than either being brave. In order to achieve this vision, in which he is told "Ego dominus tuus" [I am your lord], he has withdrawn to the solitude of his room. The correspondences to these sections are again quite clear.

The fourth place is Phaihiroth, the place where reeds grow, and here Dante becomes so weak and frail, "di sì fraile e debole condizione," that his friends are greatly concerned. He is as "frail as a reed." The fifth station is of Marah, meaning "bitterness," but also associated punningly with "Mary." Dante here speaks of basking in the sight of the Queen of Glory, "la regina de la gloria," an epithet usually reserved for the Virgin Mary, but here, quite clearly, used of Beatrice. The sixth is the station of Helim, noted for its twelve fountains and seventy palm trees. I wonder if there are manuscripts that speak of "settanta," rather than of "sessanta" ladies, seventy rather than sixty ladies to whom he writes his serventese. The seventh station is of the journey that the Israelites make passing by the windings of the Red Sea shore. Dante speaks of traveling twice here, in his vernacular sonnet, "O voi che per la via d'Amor passate,/attendete e guardate/s'elli è dolore alcun, quanto'l mio, grave" [O you who on the road of Love pass by, Attend and see If any grief there be as heavy as mine]30, which in turn is echoed in, or rather echoes, the words of Jeremiah given in ponderous Latin: "O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus" [All ye that pass by, behold, and see if there be any sorrow like unto my sorrow]. These words are frequently engraved beneath Crucifixes. But Dante is employing religious language blasphemously, in a Bakhtinian manner, for the uses, here, of lust, rather than charity.

The eighth station, of the desert of Sim, means "bramble" and "hatred." In this chapter, Dante mourns the death of a young and very beautiful lady, and reviles death as his enemy whom he curses: "Morte villana, di pietà nemica/ . . . di te blasmar la lingua s'affatica" [Villanous death, the enemy of pity . . . Cursing you wearies my tongue]. The ninth station of Dephca, meaning "knocking" or "pulsating," can only achieve that through the sound of the horse's hooves in "Cavalcando" [Riding out the other day]. In other accounts it also has the meaning of "salus," "health," and "salvation." Amore appears to Dante as they both journey beside a beautiful river. Later we come to realize that Amore is also Christ, "salus noster." The next station, the tenth, is Alus, signifying "discontent," and it describes Dante's unhappiness at being denied Beatrice's salutation. It was here that the Israelites complained about their hunger and were given quail and manna.

The eleventh station, Raphidim, or "desolation of the brave," is where the Israelites falsely worship the idol of the Golden Calf. Dante, here, goes to pay homage to Beatrice and feels his heart burning within him (that Emmaus yoking of cupidity and charity) at seeing her. The text takes Dante's two different perceptions of Beatrice, with lust, with love, and has one and the same woman represent for him, first the Golden Calf, fashioned out of the spoils of the Egyptians, and then the Tabernacle of the Ark, fashioned from the same gold and silver borrowed from the Egyptians. She is the wife of another, he, an adulterer, desiring to break the Mosaic Commandments. We are used to reading the Vita Nuova in the context of "Courtly Love," not realizing that that was a nineteenth-century misreading of Andreas Capellanus' De arte honeste amandi, then read romantically, not with the irony its author presented. It is a question of perspective, of which parts of the texts to read, just one layer, or its doubleness. D. W. Robertson has demonstrated this quality in his "Doctrine of Charity in Medieval Literary Gardens," a work of literary criticism that examines the doubleness of medieval texts within their cultural contexts. We know, from Pietro Alighieri's commentary to his father's magnum opus that Dante owned a copy of Capellanus and read that text ironically.31 Dante here describes himself as ponderous and overborne, by Love, although he pretends to welcome this intolerable situation.

The twelfth station is the Wilderness of Sinai, where Moses returned from the mountain to his people with the tables of the Law, and where the Tabernacle was made after the Golden Calf was destroyed. Dante speaks of "returning" to his subject in this chapter, and of withdrawing to a solitary place to weep because of Beatrice's denial to him of her salutation. A young man in the whitest of garments comes to him, telling him to cast aside all his idols: "Fili mi, tempus est ut pretermictantur simulacra nostra" [My son, it is time to put away our graven images]. The word "simulacra" is also stressed in Psalm 113. Dante has made of Beatrice, or of his poetry concerning her, such a simulacra, such an idol, such a Golden Calf, when she is actually an icon, an ark, an imago of blessedness. Dante-persona has confused signifier and signified and thus become an idolator. Love then tells Dante that he is suffering from a Boethian loss of perspective: "Ego tamquam centrum circuli, cui simili modo se habent circumferentiae partes: tu autem non sic." I shall deliberately leave that line untranslated in order to preserve its hermeneutic quality, its aspect of privilege, its closed circle intact and unbroken.

The thirteenth station, the "sepulchres of cupidity," where the Israelites yearned for the fleshpots of Egypt, has Dante writing love poetry, not knowing which direction to take and craving pity from his lady, whom he says he speaks of as if in a scornful way. Dante is making himself like one of those rebellious Egypt-loving Israelites, who resented Moses' lordship over them, the pilgrimage they had to make through the Wilderness, and the manna and quail with which they were fed. The fourteenth station, of Asseroth, is where Aaron and Miriam expressed disapproval of Moses' marriage. In this chapter Dante attends a wedding at which Beatrice is also present. At that marriage of Moses to the Ethiopian king's daughter, the Lord punishes Miriam with leprosy. The name of this station is said to mean "offense." In this scene we witness Dante suddenly afflicted with illness, as if playing the role of Miriam, while Beatrice assumes that of Moses towards him. Aaron in Numbers 12 then has to lead Miriam out of the camp and away from the Tabernacle for a space of time. Dante is led forth from the gathering at which Beatrice is present, a friend here functioning like Aaron.

Station fifteen, Rethma, does not correspond very exactly with Vita Nuova XV, though it does continue with references to Dante's nearly fatal illness, as if to relate this to Miriam's disease. The next station, Remonphares, means the "division of the pomegranate." Aaron's robe was embroidered with pomegranates and bells; Robert Browning picked up that allusion, as if to his own poems, in Bells and Pomegranates. Is Dante here referring to the divisions of his Aaron-like poems with which he celebrates and worships at the Ark that is Beatrice after an initial fabricating of her as his Golden Calf? If so, his role as Aaron the fabricator of Beatrice as a Golden Calf idol to be falsely worshiped, is as equally rudely shattered by God and by Beatrice, his Moses, who proceeds to write his tale in a reverse manner through her Christ-like death, thus shaping the_Vita Nuova_ literally into the new life, into Newness rather than Oldness. The text usurps its poet.

In the seventeenth chapter, Dante writes of finding a new theme for his poetry, speaking no longer of himself (in that self-pitying manner Boethius had used, yet mocked, as after him had the writers of sonnets down the ages), but of more noble concerns. This station, Lebna, is interpreted as "whitening." The eighteenth station, Rechsa, means "bridle," which Dante shows us with his self-conscious, self-referential writing block bridling his craft: "Reflecting deeply on this, it seemed to me that I had undertaken too lofty a theme for my powers, so much so that I was afraid to enter upon it; and so I remained for several days desiring to write and afraid to begin."32 The nineteenth station, Celata, means "assembly," or "church," and also "beginning" in some sources. Dante speaks of beginning to write, and what he writes is a sonnet addressed to an assembly of ladies who know by insight what love is. The twentieth station, Mount Sepher, is of "beauty" or "Christ." Three times Vita Nuova XX speaks of beauty and in its conclusion of an "omo valente," a man of worth.

Station twenty-one, Araba, means "miracle," and here we are told at the beginning of Beatrice miraculously working to bring the lover into existence from his potentiality, and it concludes by speaking of her miraculous smile, in the Italian, "mirabile." The twenty-second station, Maceloth, is, again, "assembly" or "church" and in Vita Nuova XXII we hear of ladies assembled to be with Beatrice while she mourns the death of her father. Station twenty-three, Taath, means "fear," and in Vita Nuova XXIII we witness Dante's terror at his illness and his belief that he is going to die, followed by his dream of Beatrice's Christ-like death at which the sun and stars are eclipsed and the birds flying through the air fall dead to the ground which is shaking with earthquakes. Another meaning for this station is "patience." Throughout this section references are made both to fear and to comfort, "paura" and consolation.

The twenty-fourth station, Thare, means "pasture." The very beautiful twenty-fourth chapter of the Vita Nuova, in which Dante has Beatrice be preceded by his friend's lady, Guido Cavalcanti's Giovanna, does not seem to have much reference to the Exodus structuring, unless it be to the iconography of St. John the Baptist, "Ego vox clamantis in deserto: parate viam domini," as a shepherd pasturing sheep, "Ecce agnus dei." The twenty-fifth, Methca, is of sweetness, and here again we find ourselves in the world of Guido Cavalcanti and his poetic circle of the "sweet new style," the_dolce stil nuovo_. (Guido's teacher had likewise been Brunetto Latino.) The twenty-sixth station, Hesmona, is said to mean hastening, and in Vita Nuova XXVI we learn of people running to see Beatrice as she walked down the street, "le persone correano per vedere lei."

The twenty-seventh station, Asseroch, means "bonds," "discipline." Here Dante speaks of being held in bondage to Love. The twenty-eighth is of the "children of need." Here we see a Florence widowed of her Beatrice, the city left orphaned and in need. Twenty-nine, Gadgad, means "messenger," "girding," "circumcision." In this chapter Dante relates the concept of Beatrice as a nine to astronomy according to both pagan Ptolemy and to Christian doctrine; an astronomy that makes use of spheres within spheres, wheels within wheels. Thirty, Gabatath, is of "goodness" and "Christ." Dante once more quotes from Jeremiah on Jerusalem as left widowed without Christ and also speaks of his friendship with Cavalcanti and of their desire to write in the vernacular (the sweet new style, the dolce stil nuovo) rather than in Latin. For this reason, Dante says, he cannot give the other Latin prophecies concerning Christ.

The thirty-first station, Hebron, means "passing." Here Dante speaks of Beatrice's passing, "Ita n'è Beatrice," and of his sorrow. The thirty-second station, Asiongaber, means men's counsel. Here Beatrice's brother asks Dante to write a sonnet for them both, seeking consolation for her death from their friends. In thirty-three, Cades, Miriam dies and is buried, to be followed at the next station by her brother Aaron's death. In Vita Nuova XXXIII we learn of Dante speaking with his other great friend, Beatrice's brother, and composing a poem to be spoken by both her brother and by himself as her servant and worshiper. In the Glossa to Numbers 33 Aaron and in Vita Nuova XXXIII Beatrice's brother are spoken of as weeping. In thirty-four Aaron dies on Mount Hor and his tomb is not found, while God and his angels have charge over him. In Vita Nuova XXXIV Dante is drawing pictures of angels. (There is a splendid and most self-referential Dante Gabriel Rossetti painting of that scene in Oxford's Ashmolean Museum.) It is the anniversary of Beatrice's death.

Dante Gabriel Rossetti, Dante painting Angels, Ashmolean Museum. We should be very grateful for a fine copy of this painting to hang in the Casa di Dante in Florence. Dante Gabriel Rossetti's father taught Dante at the University of London, lived in political exile from Italy.

The thirty-fifth station is Selmona in some accounts, Obeth in others, that latter having for meaning "prophetess." Here Dante sees the woman looking at him from a window who comprehends his state. The thirty-sixth is of Fynon, where the Israelites again complained about food and where serpents bit them. The thirty-seventh is again Obeth and is again about this lady. These stations, from the thirty-fifth to the thirty-eighth, no longer make sense. But with thirty-nine, once again, the consonance is clear, Dybongad meaning "temptation of eyes," "shutting up," and "confusion." Dante here speaks of his shame at his eyes and their diseased state. His previous vision of her first appearance to him is now, at the ninth hour, repeated and he is filled with shame at the ways in which he has misinterpreted her, misreading her Exodus map as it were into an Egyptian-backsliding direction rather than the one of the Jerusalem pilgrimage.

The next station is of "shame in the streets." Here Dante sees the pilgrims who journey towards Rome walking down Florentine streets; the Exodus pattern here intersects with the Emmaus one in this fugue. The forty-first station is Mount Abarim, the "mount of those who pass away," where Moses died, without physically reaching the Promised Land. Here Dante speaks of Beatrice's spiritual pilgrimage into the heavens. The next station is Mount Moab, near Jericho by the Jordan river, meaning "cut off," and Galgala, meaning "revelation." This is where Dante ends his Vita Nuova, cutting it off with the revelation of Beatrice in heaven contemplating the Santo Volto, the holy face of God, in whose image she is, and whose icon now, rather than idol, can be reflected in Dante's own Book of Memory, the pilgrim map of both Exodus and Emmaus, given by analogues of Aaron and Moses, Luke and Christ, in both writer and reader.

These Exodus and Emmaus paradigms, though they are by no means the whole of the Vita Nuova, are certainly part of Dante's crisscross blueprint for his work. Medieval texts often self-reflectively embedded within themselves their critical theory. Dante did this. Chaucer also did so. Modern critical theorists now often only discuss theory, without reference to literary texts. Dante, in the Vita Nuova, tells of his friendship for Guido Cavalcanti and of their intention of writing in the vernacular in the dolce stil nuovo. Those landscapes of pilgrimage, in Dante's days, were envisioned as being of the Saracens' culture. To map them into a Florentine text was to reconcile the Peoples of the Book, Judaism, Christendom, and Islam.

We know of the charming Eastertide sonnet which Dante probably wrote to Brunetto Latino, his teacher and Guido's, who had taught both of them Averroistic texts acquired in Spain, to accompany his gift of the Vita Nuova to Brunetto. Another sonnet, mourning Brunetto's death, speaks of a pilgrimage in the wilderness.33Brunetto himself had written a pilgrimage work, Il Tesoretto, modeled on Boethius, Alanus ab Insulis, and the Roman de la Rose, in which Latino described himself learning of his exile from Florence in 1260 while in the pilgrimage Pass of Roncesvalles. Deeply sorrowing he then loses his way, taking his path through a different wood, and coming into a dream landscape in which he is taught morals and ethics by Ovid, Ptolemy, and a host of others. Latino, like his two famous students, insisted on writing in the vernacular, and translated Aristotle, Ptolemy, and Cicero into French and Italian for the benefit of his students. He had happened to be in the Pass of Roncesvalles because he was on his way home from the court of Alfonso el Sabio (whose father's title had been the King of the Three Religions). There Brunetto had acquired much knowledge and Arabic learning concerning Ptolemy and Aristotle. He already knew Cicero. He would have learned also of Alfonso's own writings. In Alfonso's legal treatise, Las Siete Partidas, is a definition of the pilgrim that will be echoed by that of Dante in the Vita Nuova; and then again by Cesare Ripa in the Nova Iconologia.

Dante is thus part of a world that knows of the cultures of all three Peoples of the Book, the Judeo-Christian and the Islamic, into which can also be interjected the learning of the Greco-Roman world. All these cultures prized education and they learned from each other pluralistically. All these cultures also prized pilgrimage, the Christian pilgrimage to St. James of Compostela answering that of the Muslims to Cordova and Mecca, mirroring that of Israelites journeying to Jerusalem.

Nor will the Vita Nuova be Dante's last attempt at a pilgrimage work. It is his schoolroom exercise, his apprentice work.34 Dante's Vita Nuova has about it as great a sense of Brunetto Latino's teaching presence as does Joyce's Portrait of the Artist as a Young Man convey John Henry Newman's educational and pluralistic concepts. Both Dante and Joyce rebel against, yet make great use of, their pedagogues' teachings. Joyce in his work plays similar cryptographic and intertextual games, having his text refer to Augustine's Confessions (his middle name was Augustine, therefore the confession is at the middle of the book) and to Newman's Apologia pro vita sua (Stephen at the beginning must apologize, ordered to do so by his mother, with his aunt Dante then chanting a child's song about this.)

The Commedia, following upon the Vita Nuova, will also use the paradigm of Exodus and Emmaus. These are parts of the patterns in the carpet of Dante's work. In them Dante is as a new Aaron who becomes a Moses, a new Cleophas who becomes a Luke, journeying from an earthly Florence that is also an Egypt to a heavenly Rome that is also a Jerusalem. Both the geography and allegory of pilgrimage underlie these books based upon the Book of God's Word and the Book of God's World. Dante creates in the secular and profane vernacular an intertextuality with the sacred and divine Latin, Greek, and Hebrew texts of the Bible, with both Luke 24's code to the Gospels and Numbers 33's code to the Exodus. (Those codes spoke more prophetically than he knew. He would literally become the exile of his pilgrim definition of Vita Nuova XI.) Dante employs both pilgrimage codes, of Exodus and of Emmaus, from which to construct the Janus hermeneutic, the ambages pulcerrima, of his New Life, written in the "sweet new style," the dolce stil nuovo, of Gothic Florentine at war with Rome and the Romanesque.

Notes

1 Originally published in Dante Studies, 103 (1985), 103-124. It was John V. Fleming at Princeton University who once mentioned to me the importance of the 42 chapters of the Vita nova and the 42 Stations of Exodus from Numbers 33.
2 Dante Alighieri, La Vita Nuova, trans. Barbara Reynolds (Harmondsworth: Penguin, 1969), p. 11.
3 Charles S. Singleton, An Essay on the Vita Nuova (Cambridge, Mass.: Harvard UP, 1949), pp 25-54.
4 Michel Foucault, The Archeology of Knowledge and The Discourse on Language (New York: Pantheon, 1982); Fredric Jameson, "Metacommentary," PMLA, 86 (1971), 9-17.
5 Erwin Panofsky,Early Netherlandish Painting: Its Origin and Character (New York: Harper and Row, 1971), I.131-148.
6 Erich Auerbach, "Figura," in Scenes from the Drama of European Literature, trans. Ralph Manheim (New York: Meridian, 1959), pp. 11-76; "Metacommentary," pp. 9-10.
7 Dante's sonnet to Brunetto Latino, accompanying his Easter gift to him of the manuscript of the Vita Nuova, as translated by Dante Gabriel Rossetti, Dante and his Circle with the Italian Poets Preceding Him (London: Ellis and Elvey, 1892), p. 96; discussed in Brunetto Latini, Il Tesoretto, ed. and trans. Julia Bolton Holloway (New York: Garland, 1987), p. xviii; Italian text in Raccolta di rime antiche toscane (Palermo: Assenzio, 1817), II.32:

Master Brunetto, this my little maid
Is come to spend her Easter-tide with you;
Not that she reckons feasting as her due,-
Whose need is hardly to be fed, but read.
Not in a hurry can her sense be weigh'd.
Nor mid the jests of any noisy crew:
Ah! and she wants a little coaxing too
Before she'll get into another's head.
But if you do not find her meaning clear,
You've many Brother Alberts hard at hand,
Whose wisdom will respond to any call.
Consult with them and do not laugh at her;
And if she still is hard to understand,
Apply to Master Janus last of all.

8 Stanley E. Fish, "Progress in The Pilgrim's Progress," in Self-Consuming Artifacts: The Experience of Seventeenth-Century Literature (Berkeley: University of California Press, 1972), pp. 224-64; Hans Robert Jauss, Toward an Aesthetic of Reception, trans. Timothy Bahti (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1982).
9 Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions (Chicago: University of Chicago Press, 1970); Frank Kermode, The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction (New York: Oxford UP, 1967); Julia Bolton Holloway, Twice-Told Tales: Brunetto Latino and Dante Alighieri (New York: Peter Lang, 1992).
10 Beryl Smalley, The Study of the Bible in the Middle Ages (Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1964); Gabriel L. Astrik, "The Significance of the Book in Medieval University Coats of Arms," in Medieval and Renaissance Studies, ed. O. B. Hardison, Jr. (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 1966).
11 Julia Bolton Holloway, "Alfonso el Sabio, Brunetto Latino, Dante Alighieri," Thought, 60 (1985), 471; further discussed, Twice Told Tales: Brunetto Latino and Dante Alighieri (New York: Peter Lang, 1993).
12 John F. Mahoney, "The Role of Statius in the Structure of the Purgatorio," 79th Annual Report of the Dante Society (1961), 11-38, esp. 22; Eric Werner, The Sacred Bridge: The Interdependence of Liturgy and Music in Synagogue and Church During the First Millenium (London: Dobson, 1959), pp. 419-421.
13 Edmond de Coussemaker, Drames liturgiques du Moyen Age (Paris: Vatar, 1861); Giampiero Tintori, Sacre rappresentazioni del manoscritto 201 della Bibliothèque Municipale di Orléans (Cremona: Athenaeum Cremonense, 1958), p. lxxi.
14 Roger Sherman Loomis, The Romance of Tristan and Ysolt (New York: Dutton, 1967), pp. 28-33; Mikhail Bakhtin, Rabelais and his World, trans. Helene Iswolsky (Cambridge, Mass.: MIT Press, 1968), pp. 1-58, 437-474; Victor Turner, The Ritual Process: Structure and Anti-Structure (Ithaca: Cornell UP, 1971), passim; Maria Corti, "Models and Antimodels in Medieval Culture," NLH, 10 (1979), 339-356.
15 Trans. Reynolds, p. 97.
16 Hartmann Grisar, History of Rome and the Popes in the Middle Ages, trans. Luigi Cappadelta (London: Herder, 1911), III.302-303.
17 Gerhart B. Ladner, Idea of Reform: Its Impact on Christian Thought and Action in the Age of the Fathers (New York: Harper, 1967), brilliantly studies the importance of this concept in Christendom.
18 Douglas R. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach: An Eternal Golden Braid (New York: Vintage, 1979); Otto von Simson, The Gothic Cathedral: Origins of Gothic Architecture and the Medieval Concept of Order (Princeton: Princeton UP, 1974), p. 42; Kathi Meyer, "The Eight Gregorian Modes on the Cluny Capitals," Art Bulletin, 34 (1952),81-82, discuss cloister capital sculpture as presenting musical harmonies.
19 Jonathan D. Spence, The Memory Palace of Matteo Ricci (Harmondsworth: Penguin, 1985), discusses the theatre and palace of memory used by a Jesuit missionary in China, who similarly employs the Emmaus Pilgrim story to do so, pp. 128-161.
20 E. Proto, Rassegna critica della letterature italiana, 17 (1912), p. 246.
21 Simson, pp. 21-50.
22 St. Augustine, On Christian Doctrine, trans. D. W. Robertson, Jr., (Indianapolis: Bobbs-Merrill, 1958), p. 75.
23 Patrologia Latina, ed. J. P. Migne, 113.438-444.
24 John G. Demaray, The Invention of Dante's Commedia (New Haven: Yale UP, 1974), pp. 155-156; Paolo Amaducci, _La fonte della Divina Commedi_a (Rovigo, 1911), 2 vols.
25 Fetellus, Palestine Pilgrims' Text Society, ed. James Rose MacPherson (London, 1887-1897), V.14-22, p. vii.
26 P. 155.
27 Pp. 46-47.
28 Kurt Weitzmann, The Monastery of Saint Catherine at Mount Sinai (Princeton: Princeton UP, 1976), I.13-15, Icon B.1.
29 Gail MacMurray Gibson, "The Thread of Life in the Hand of the Virgin," Duke University Art Museum, 1972, republished in Equally in God's Image: Women in the Middle Ages, ed. Julia Bolton Holloway, Joan Bechtold, Constance S. Wright (New York: Peter Lang, 1990), pp. 144-63.
30 Reynolds, p. 35.
31 Petri Allegherii super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium (Florence, 1856).
32 Reynolds, p. 54.
33 The sonnet written to mourn Brunetto Latino's death begins by expressing the poet's great grief at the death of the joyous Brunetto, "Brunetto gajoso" (Raccolta, I.105), then states:

I will arise and go now, manteled,
As I journey, like a pilgrim,
Until I find a forest wilderness.
I wish to change wine into water,
My delicate bread to acorns, and
To weep evening, night, and morning.

34 Lawrence Lipking, The Life of the Poet: Beginning and Ending Poetic Careers (Chicago: University of Chicago Press, 1981), pp. 20-34, who says similarly of Blake's Marriage of Heaven and Hell, p. 18, that it "contains whole libraries . . . a parody bible . . . it offers a complete sacred code in fiercely concentrated form."

Bibliography

Charles S. Singleton. An Essay on the Vita Nuova. Baltimore: The Johns Hopkins University Press, 1949,1977.

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