Ruggero Longo, Elisabetta Scirocco: "Gli arredi liturgici della cattedrale salernitana in epoca normanna", in: Gli avori medievali di Amalfi e Salerno, a cura di Francesca Dell'Acqua, Almerinda Cupolo e Pietro Pirrone, Amalfi 2015, pp. 169-188. (original) (raw)

Ruggero Longo, Elisabetta Scirocco: Arredi liturgici, maestranze e tecniche nel regno normanno tra Amalfi e la Sicilia, in "Amalfi e la Sicilia nel Medioevo. Uomini, Commerci, Culture", Amalfi 2022, pp. 159-258.

Amalfi e la Sicilia nel Medioevo. Uomini, Commerci, Culture, 2022

1. Il complesso episcopale amalfitano e i suoi arredi 2. Filologia dei materiali dell'arredo liturgico medievale della cattedrale di Amalfi 3. "Due letterini sopra colonnati di marmo, per la meglior parte musiati": gli amboni della cattedrale di Amalfi tra Campania e Sicilia 4. Sopravvivenze e restauri: le colonne intarsiate nel presbiterio e il candelabro medievale 5. I frammenti di recinzione della cattedrale di Sant'Andrea e le transenne in Santa Maria Maggiore Appendice: Analisi mineralogiche e petrografiche su campioni lapidei

Elisabetta Scirocco, Sculture e arredi liturgici medievali a Cava de' Tirreni: restauri, recuperi e nuove acquisizioni, in "Hortus Artium Medievalium", 27, 2021, pp. 370-386.

The pulpit and the candelabrum in the Benedictine abbey of the Holy Trinity in Cava de' Tirreni (Salerno) have received only marginal attention in scholarship because they are the result of a restoration palimpsest (ca. 1880-1950). Little consideration has been given to their sculptural elements, either because they do not fit into the established interpretative scheme of local artistic production, or because they have been considered forgeries. Thanks to new archival data and to the analytical re-examination of what is primarily preserved in the church and cloister of the abbey, this article focuses on the sculptures belonging to the medieval liturgical furnishings (12th-13th c.) made for this preeminent center in Southern Italy.

"Architetture e città mediterranee negli avori di Salerno", in Gli avori medievali di Amalfi e Salerno, eds. Francesca Dell'Acqua, Almerinda Cupolo, Pietro Pirrone (Amalfi: Centro di Cultura e Storia Amalfitana, 2015), pp. 117-128

La maggior parte degli studiosi che si sono occupati delle architetture rappresentate nei cosiddetti avori di Salerno hanno avuto come obiettivo l'individuazione delle possibili fonti che ne ispirarono la realizzazione. Lungi dall'essere un semplice riempitivo dello spazio retrostante le figure, i paesaggi urbani degli avori di Salerno si prestano però anche ad un altro tipo di lettura. Infatti, la presenza di mura, porte monumentali, santuari, dimore adombra un ruolo ben preciso attribuitogli dall'ideatore del programma iconografico. Un ruolo di cui varrà la pena render conto per capire cosa, e come, le architetture significarono all'interno del messaggio originariamente trasmesso da ogni singola tavoletta del gruppo.

Marco Calafati, Bartolomeo Ammannati nel Duomo di Santa Maria del Fiore a Firenze. Note sul restauro della lanterna e le edicole degli apostoli (1570-1573), «Bollettino della Società di Studi Fiorentini», 30-21, 2021-2022, pp. 253-264.

2022

The works of Bartolomeo Ammannati (1511-1592) in Santa Maria del Fiore, with the exception of the in- depth studies by Timothy Verdon, Carlo Cinelli and Francesco Vossilla, found contrasting fortune and remained marginal. Two letters written by Ammannati to the administrator Giovanni Caccini and Francesco Busini preserved in Los Angeles, The Paul Getty Resarch Institute, allow us to specify the interventions of the architect sculptor for the restoration of the lantern of the dome of Santa Maria del Fiore and the construction of the aedicules inserted in the pillars and in the walls of the naves inside the cathedral. The Ammannati construction sites in Santa Maria del Fiore represent exemplary cases in which technical experiments and original operational solutions are combined with the transport of materials and the management of masses and are therefore emblematic works in the artist’s multifaceted production.

“La trasformazione della spazio liturgico nelle chiese medievali di Napoli durante il XVI secolo: alcuni casi di studio”, in Re-thinkig, Re-Making, Re-living Christian Orgins, ed. Serena Romano, Ivan Foletti, Manuela Gianandrea and Elisabetta Scirocco, Roma, Viella, 2018, 93-119.

Prendendo spunto da studi recenti sulla trasformazione dello spazio sacro fra tardo Medioevo e prima Età Moderna, questo articolo esamina alcuni casi di rimozione del coro dalla navata delle principali chiese medievali di Napoli. Un esempio precoce è offerto dalla chiesa del Carmine, in cui il coro fu trasferito in uno spazio sopraelevato all’ingresso nel 1480. L’iniziativa è riconducibile alla necessità di disporre di uno spazio sufficientemente ampio, adeguato al rango acquisito dalla chiesa nella seconda metà del secolo, quando l’edificio, ubicato nei pressi della grande piazza del Mercato, fu definitivamente inserito nel circuito murario e divenne meta di processioni e rituali pubblici, nonché sede di numerose corporazioni artigianali. La liberazione della navata favorì inoltre la massima visibilità di due immagini medievali di culto, l’icona della Madonna Bruna e il Crocifisso miracoloso, tuttora oggetto di devozione e fulcro visivo dell’intero edificio. Partendo da una testimonianza dello storico napoletano Giovanni Antonio Summonte, che attribuiva al frate domenicano Ambrogio Salvi il merito di avere attuato per primo a Napoli la liberazione della navata, si esaminano quindi altri casi di riconfigurazione del coro e del santuario in altre chiese mendicanti (San Pietro Martire, San Lorenzo Maggiore, Santa Chiara), oltre che nella cattedrale di Napoli e nelle principali basiliche urbane. L’iniziativa di Salvi in San Pietro Martire, di cui fu priore nel 1551, è ricondotta da Summonte alla maggiore comodità dei frati e dei laici, ma sulla base di altre fonti è possibile stabilire che, come in altri casi analoghi in Italia, l’operazione s’inquadrava nella più generale necessità di conferire massimo risalto all’altare maggiore, su cui Salvi fece collocare un tabernacolo eucaristico, presumibilmente riconducibile alla tipologia a tempietto adottata con sempre maggiore frequenza in età controriformistica. In San Lorenzo Maggiore, il coro fu invece rimosso in seguito a una delibera dei frati del 1563, mentre era priore Ottaviano Caro, che aveva partecipato alla fase conclusiva del Concilio di Trento. L’iniziativa fu motivata, come in san Pietro Martire e al Carmine, dalla necessità di “magnificare e adornare la chiesa” a vantaggio dei laici e dei frati, e aumentò la visibilità del grande altare marmoreo di Giovanni da Nola, celebrato nelle guide napoletane di età successiva per i suoi raffinati rilievi. Summonte scrive inoltre che il coro fu invece lasciato nella sua posizione originaria tanto in Santa Chiara, quanto in cattedrale. Nella prima, il coro fu mantenuto nella navata, sia perché l’edificio era già sufficientemente ampio, sia perché dietro l’altare si trovava la tomba di Roberto d’Angiò, fondatore della chiesa. L’importanza di questo monumento per la storia dell’edificio e della città intera è senza dubbio il motivo per cui si mantenne l’antico allestimento medievale, sebbene importanti novità si registrino a fine Cinquecento nella riconfigurazione dell’altare con la creazione di un ciborio sul modello delle basiliche romane e con l’istallazione di un tabernacolo eucaristico a tempietto, ritratto in una medaglia commemorativa della vittoria nella battaglia di Lepanto. In cattedrale invece, secondo Summonte, non si volle guastare "la bella proportione" dell'altare maggiore, giudizio evidentemente riferito all’allestimento del santuario concepito a inizio Cinquecento dal cardinale Oliviero Carafa. Anche in questo caso però sono documentate modifiche all’area presbiteriale per opera dell’arcivescovo Alfonso Gesualdo, che fece rimuovere le tombe dei sovrani angioini favorendo la creazione di un vero e proprio pantheon arcivescovile che enfatizzava il legame dell’episcopato cittadino con la tradizione cristiana delle origini anche attraverso un nuovo ciclo pittorico realizzato dal pittore Giovanni di Balducci raffigurante i primi santi vescovi di Napoli. Gesualdo fece anche rimuovere il coro dalla navata, ma il suo successore Decio Carafa, discendente di Oliviero e appartenente a un casato che aveva occupato quasi ininterrottamente la carica arcivescovile, lo fece ripristinare nella navata, ristabilendo così la tradizione antica e il prestigio familiare. Nel frattempo però il nuovo allestimento col coro posto dietro l’altare maggiore era stato adottato nelle principali basiliche urbane, San Giorgio Maggiore, Santa Maria Maggiore e San Giovanni Maggiore. In tutti questi edifici, successivamente ricostruiti o profondamente alterati, la rimozione del coro servì innanzitutto a favorire la visibilità del santuario, enfatizzando le antiche memorie visive della chiesa locale. Tutti questi casi dimostrano che la liberazione della navata e la maggiore enfasi sull’altare maggiore dipesero da fattori non sempre riconducibili alle norme post-conciliari, ed esprimevano un legame consapevole con la tradizione locale, aspetto fondante dell’identità cittadina.