Mabel Moraña, Churata postcolonial (original) (raw)

Morachiello - teatro

Il presente contributo è la rielaborazione di parte di un capitolo del volume: Paolo Morachiello, Vincenzo Fontana, L'architettura del mondo romano, in corso di pubblicazione per i tipi di Laterza.

MARIA MALIBRAN, UNA DIVA ROMANTICA

Maria Malibran, una diva romantica, 2019

Born in Paris to a family of Spanish singers, Maria Malibran Garcia (1808-1836) became an icon in the European nineteenth century opera scene. She spent most of her short and dazzling life among opera houses across various Italian states. Malibran suffered an unhappy childhood during which she rigorously trained under the merciless guidance of her father. With an extraordinary voice, an “electric” body, an engaging and innovative acting and a turbulent romantic life, she was capable of inducing frenzied enthusiasm among the public. These characteristics made her the very essence and epitome of the diva, one hundred years before the modern celebrity and stars of show business in the arts. At the age of 28, after a brilliant and erratic life, she died tragically after falling from a horse. More than other notorious singers of the 1830s, Malibran represented a new romantic icon—a talented female artist whose life was generous, gifted and unlucky. The entanglement of her personal life and artistic career resulted in a strong passionate attitude and in states of desperation and unhappiness. Through the analysis of several documents of the period, this work retraces the origin of the figure of the modern diva. Both attractive and dangerous, Malibran embodied this character and was thus loved for her ability interact with the audience on an emotional level. Her rise in fame and stardom occurred precisely in the 1830s, the period in which musical theatre was intimately tied to a European and distinctly Italian bourgeois social culture.

Macchia F. Rahola

Selvario, 2022

Se non fosse gravata da un'ombra di negatività, una vena accusatoria e una presunzione di colpevolezza, potrebbe essere considerata alla stregua di una traccia o un'impronta. E sarebbe già molto (come qualsiasi indovino o predatore sa, una traccia non è mai "semplice", non esiste un'impronta immediata). È verosimilmente un segno, un indizio, ma è soprattutto sintomo di impurità, per giunta esso stesso impuro, sporco, malsano; come se il suo carattere evidente ma non esplicito, quindi da decifrare (macchia di cosa? su cosa? di chi? perché?), si caricasse di un'aggravante, un sospetto di degenerazione. La macchia può essere un punto, arbitrariamente nero, un piccolo neo che incrina la regolarità di un paesaggio compromettendone la visione, la presunta solarità. In quanto tale è spesso un'incursione o un'irruzione, il dettaglio che sconvolge una figura d'insieme innescando la reazione idiosincratica di chi aspira alla simmetria e alla purezza. Su una macchia ci si può fissare, e in tal caso diventa ossessione, possibile punto di sutura di feticismo e unheimlichkeit. L'attrazione che esercita, risucchiando lo sguardo, può annientare l'oggetto della rappresentazione restituendo un quadro senza soggetto, decostruendone la cornice e rivelandolo esso stesso come macchia. Così, secondo Lacan, macchia finirebbe per assumere la funzione di una specifica funzione, una "funzione macchia", rendendo possibile l'incontro, sempre traumatico, con il reale 1. Anche per questo si tende a cancellarla, letteralmente rimuoverla o più radicalmente a scotomizzare, per quanto il termine infastidisse Freud: "La parola 'scotomizzazione' è particolarmente inappropriata perché evoca l'idea che la percezione sia stata completamente cancellata e il risultato sia assolutamente analogo a quello che si determina allorché un'impressione visiva va a cadere su una macchia retinica" 2. Questo, forse, perché una macchia rimane, lascia residui, contamina, a volte riaffiora. Catturati tra macchie retiniche o scotomiche si rimane comunque all'interno di un campo oculocentrico, o più banalmente oculistico. E non potrebbe essere altrimenti. Ma se invece la ragione della diffidenza o avversione di Freud nei confronti della volatilità dell'"impressione visiva" risiedesse nel fatto che una macchia resta pur sempre qualcosa di oggettivo e materiale? Macula è quella parte di un corpo, essa stessa un corpo, dotata di specifica estensione, sempre circoscritta, di una propria consistenza, un colore e soprattutto una forma apparentemente arbitraria, sulla quale convergerà l'interesse di un esercito di esegeti ed esercizi di attribuzione, tra agnizioni, anamorfosi, pareidolie, fino ai test di Rorschach. Presupposto comune è che se ne noti la deformazione, la forma sui generis, e che colpisca, ferisca lo sguardo ghermendolo, pungendolo, pungolandolo. In un certo senso il punctum è sempre una macchia, e viceversa. Ma, a differenza della sequenza suggerita da Roland Barthes, che designa un movimento contrario allo studium (quel "nonso-che" che dopo la mia applicazione di fronte a un'immagine, dall'immagine mi colpisce) 3 , sembra indicare una trama supplementare e forse opposta, innescando ulteriori reazioni, congetture e

Martín Kohan Sempre giugno

Altre Modernità, 2016

Martin Kohan Sempre giugno (Lecce, Pensa Multimedia, 2014, 144 pp. ISBN 978-88-6760-196-7, traduzione e prefazione di Luigi Patruno)

Cultura Muisca in Colombia

Nelle vallate della Colombia centro-orientale, in corrispondenza dei maggiori corsi d'acqua e nei pressi dei grandi bacini lacustri della Cordigliera orientale delle Ande, in prossimità della città di Bogotà, tra il 600 e il 1600 d.C. fioriva e si sviluppava la mitica Cultura Muisca. Le genti di questa cultura si caratterizzavano, tra le altre cose, per la notevole diversificazione della loro produzione agricola e per la straordinaria capacità di accumulare le risorse in eccedenza, organizzate e gestite da una elite governativa a cui venivano riconosciuti poteri politico-religiosi. Purtroppo poco si conserva delle strutture realizzate in materiali deperibili ma la straordinaria produzione artigianale di questa cultura, conservata in particolar modo nel museo dell'Oro di Bogotà, ad un'attenta analisi archeologica rivela le caratteristiche di una società complessa, capace di sfruttare in maniera differenziata le risorse alimentari e dotata di una straordinaria capacità di adattamento all'ambiente circostante.

Cathy Berberian, o Una voce come prisma

«“Il corpo della voce”. Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos», a cura di A. Cestelli Guidi e F.R. Oppedisano, Edizioni Azienda Speciale Palaexpo, Roma, 2019

Voce «impareggiabile», «stupefacente», «inconfondibile», «sublime», «unica e inimitabile», «dirompente», «straordinaria», «duttilissima», «eccezionale»: gli aggettivi e i superlativi si sono sprecati nel corso del tempo per cercare di descrivere la formidabile poliedricità vocale di Cathy Berberian, fonte di ispirazione per numerosi compositori dell’avanguardia del secondo dopoguerra. Ben oltre lo stereotipo della grande interprete protagonista della scena musicale del ’900, quella di Cathy Berberian è una personalità esuberante e complessa, con una rara capacità di muoversi con disinvoltura tra generi, culture e linguaggi (musicali e non), e con un approccio performativo a tutto tondo in cui la voce, o meglio, le sue mille voci, fanno tutt’uno con spiccate doti attoriali unite a una gestualità magnetica. Il suo gusto della presenza scenica, accompagnato e alimentato da una intelligente ironia e da uno spiccato senso dello humor, ha costituito un tratto predominante in tutta la sua biografia artistica, al punto da far collimare (o confondere) le frontiere tra voce e gesto, suono e recitazione. Tutti questi aspetti sono toccati nel testo, scritto per il Catalogo della mostra «“Il corpo della voce”. Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos» (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 9 aprile > 30 giugno 2019)

MOTOKO FUJISHIRO HUTHWAITE, ULTIMA MONUMENTS WOMAN - LA TUTELA DEL PATRIMONIO CULTURALE

Il 5 maggio scorso, aprendo la posta elettronica ho trovato un'email da parte della Monuments Men Foundation for the Preservation of Art, essendo iscritta alla newsletter della Fondazione. La Monuments Men Foundation dava la notizia della scomparsa di Motoko Fujishiro Huthwaite. Questa donna straordinaria aveva 92 anni. Purtroppo non è riuscita a vincere la sua guerra personale contro il Covid19. Eppure Motoko Fujishiro Huthwaite è stata una Monuments Woman, una donna che ha dato il proprio apporto alla salvaguardia, alla tutela e al recupero delle opere d'arte e del patrimonio storico-artistico e monumentale durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Da dottoranda che sta conducendo una ricerca su un Monuments Man italiano, Giorgio Castelfranco, sono stata colpita dalla notizia, da quel messaggio. Delle 27 donne che presero parte alla MFAA (Monuments, Fine Arts and Archives) Section, Motoko Fujishiro Huthwaite era l'ultima rappresentante femminile dei Monuments Men, quel gruppo costituito da circa 345 uomini e donne, appunto, provenienti da 14 paesi diversi, curatori di musei, storici dell'arte, bibliotecari, architetti, artisti che hanno salvato opere d'arte e testimonianze culturali dalla distruzione della guerra e dalla cupidigia dei nazisti. Motoko Fujishiro Huthwaite, nata a Boston il 24 agosto 1927 da una famiglia di immigrati giapponesi, fu costretta a trasferirsi in Giappone dopo il bombardamento di Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. A Tokyo nel 1946 arrivò il Monuments Man Langdon Warner. A Motoko Fujishiro Huthwaite venne affidato il ruolo di dattilografa per la divisione Arts and Monuments della Civil Information and Education Section sotto il Comandante supremo delle forze alleate (SCAP). Tra i suoi compiti vi era anche la trascrizione dei rapporti e delle corrispondenze che arrivavano dalle operazioni sul campo dei Monuments Men, tra cui

Marilena Caciorgna

CANTO 1 1 -4 Esposizione della materia e dedica 5 -10 Orlando e Angelica ritornano in Occidente nel pieno dello scontro preso i Pirenei. Angelica fugge dal campo di Carlo Magno.